NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! Però Alex e Antonio sono miei! NOTE 2: il cognome di Alex è puramente inventato (e pure poco torinese, se è solo per questo, ma non m’è venuto altro!), per cui se in questo modo nomino qualcuno di ‘reale’ assicuro che non ci sono intenzioni specifiche, dietro! Alex non esiste, esattamente come non esiste Antonio, se non nella mia testa! #flashback#
La Tigre parte VIII di Dhely
#Alessandro Orsini. Alex per gli amici.
Trent’anni suonati, forse pure da un po’, fotoreporter per la Stampa, una casa piena di libri, dispense, ritagli di giornali, fotografie scattate in giro per il mondo. Un sorriso disarmante, un infinito amore per il suo lavoro e un disordine invivibile.
Un uomo che, con Mark, ancora ragazzo sotto certi aspetti, fossero solo di età, non aveva niente con cui spartire.
Con Alex non era nata subito la sottile complicità che l’aveva intrappolato con Antonio. Mark, anzi, si sentiva quasi a disagio: era sempre stato parco con le parole e ora si ritrovava proprio a non sapere cosa dire a quell’uomo che era un pozzo infinito di esperienze, diversissime le une dalle altre e che aveva un modo così incredibilmente aperto di porsi di fronte alle questioni.
Dopo una settimana di prove varie erano giunti a un compromesso. Alex avrebbe parlato, perché poteva farlo per ora senza stancarsi, di qualunque cosa gli piacesse, lo appassionasse, gli stesse a cuore, e l’avrebbe fatto in giapponese. Mark doveva solo correggergli l’inflessione, suggerirgli i modi di dire..
Dopo due settimane di quell’esperimento entrambi avevano capito che Alex non avrebbe avuto alcuna speranza seria di imparare come andare a comprare un litro di latte in una maniera civile a Tokio, ma a discettare sui massimi sistemi non ci sarebbero stati problemi.
Mark, in quelle ore che trascorreva sul divano di Alex mentre lui, in cucina preparava il te o da mangiare per entrambi, o faceva qualcos’altro, perché era come se non riuscisse a stare fermo, mentre quella voce riempiva, pareva, ogni angolo della casa, dopo una giornata di corse e allenamenti, di sudore e fatica, si sentiva come.. rigenerato. Si sentiva come se fosse stato una spugna immersa in qualche liquido: Alex parlava e lui imparava.
L’inflessione di Alex migliorava giorno dopo giorno, e lui si scopriva a sapere cose nuove ogni istante, cose che, forse non avrebbe voluto sapere, che non avrebbe neppure voluto immaginare che esistessero.
Alex era stato un inviato di guerra in Yugoslavia. Mark, all’epoca, non aveva quasi saputo che era successo qualcosa in Yugoslavia e di certo della situazione post crollo del comunismo nella zona balcanica era completamente a digiuno. Si parlava di paesi che erano troppo lontani per interessare, troppo assurdamente incomprensibili.. e ora, ogni cosa che imparava, di nuovo, suscitava una domanda, che portava a una risposta e a una nuova domanda. E allora c’erano atlanti storici aperti sotto il suo naso e dita esperte che percorrevano rotte, e strade che erano segnate sulla carta e che ora non esistevano più, ponti abbattuti, paesi che avevano cambiato nome, di certo fisionomia, a meno che non fossero stati rasi al suolo..
Passavano le ore e Mark, ogni giorno, si dimenticava sempre un po’ di più il motivo per cui fosse lì.
Poi c’erano le partite: Mark, rideva e gli portava una cassetta della partita registrata e gli spiegava cosa fosse successo in campo, perché Alex non ne capiva nulla. E Alex correggeva il suo italiano, e chiedeva del Giappone, la storia, la cultura. E Mark parlava in una lingua che non era sua, con dei concetti che dovevano essere trovati e spiegati e interpretati di nuovo, ogni volta.
Era qualcosa di esaltante. Incredibile.
Antonio spesso gli diceva che stava prendendo quell’incarico troppo sul serio, e rideva. Mark sorrideva in risposta.
Era vero.
Era sempre stato curioso ma non aveva mai avuto il tempo, o la pazienza, di approfondire le domande che aveva dentro. Con Alex, che sembrava conoscere tutte le risposte, era tutto più semplice.
A parte quando Alex gli lasciava bigliettini sotto la porta, la mattina presto, in cui diceva che partiva e che non sapeva quando sarebbe tornato. Per lavoro, diceva. Passavano settimane, a volte anche un paio di mesi prima che tornasse, dimagrito, stanco. Ma almeno tornava. Quel pensiero, quel timore infastidiva Mark. Perché preoccuparsi così di un suo vicino di casa? Era il suo lavoro, dopo tutto, e Alex non si era scelto una professione tranquilla tanto meno troppo ‘sicura’. Eppure Alex gli dava qualcosa, in un modo che Mark non avrebbe mai potuto immaginare. E gli piaceva quel qualcosa, e aveva paura di doverne fare a meno. Delle sue parole.
A parte quando Alex gli lasciava messaggi lapidari sul cellulare in cui diceva che in quella sera particolare aveva da lavorare e non avrebbero potuto fare la loro solita lezione. E, al ritorno dagli allenamenti Mark sentiva voci che si rincorrevano dietro il muro sottile, una parlata morbida e cadenzata, frettolosa. E la sera successiva, se gli era permesso l’accesso alla sua casa, la trovava più ingombra di fogli e appunti del solito, e Alex in preda ad un’eccitazione che faticava a spegnersi sul fondo di quegli occhi luminosi.
Mark aveva paura, di quello. Era come qualcosa di inspiegabile che sorgeva tra di loro a infrangere quel piccolo pezzo di paradiso che erano riusciti a creare..
Alex era sconvolgente, su di lui, sulla sua vita. Anche se c’era il calcio, e la corsa di inizio mattina, Antonio, la squadra, l’impegno, il campionato e poi Price, le loro notti roventi, baci che suggellavano un silenzio, le prime vere vittorie, il sapore della popolarità.. c’era tutto questo che era la sua vita e poi, di lato, Alex.
Aveva bisogno di Alex in un modo come credeva non si potesse mai aver bisogno di qualcuno.
Alex che veniva a svegliarlo il lunedì a mezzogiorno con un brunch sostanzioso per ‘festeggiare’ la partita di domenica.
Alex che gli aveva chiesto cosa avesse visto di Torino e, disgustato dall’esiguità delle sue conoscenze, s’era fatto un punto d’onore nel riuscire a trascinarlo qui e là. Non solo in musei dove Mark non sapeva neppure come muoversi, ma anche nei dintorni della città, in paesi sperduti in angoli di tempo e spazio che non parevano quelli attuali. Il verde, verde infinito delle prealpi torinesi che lasciavano spazio ai costoni spogli del Cervino, passando da infinite gradazioni di verde, alberi e dialetti. L’acqua che diventava immobile e aguzzo ghiaccio scintillante contro il cielo sempre troppo limpido e aperto. L’incredibile ventaglio di colori, e calore che si apriva sotto il suo sguardo. E la voce cullante, tranquillizzante di Alex, che spiegava senza insegnare, che faceva imparare senza essere noioso.
Alex che si divertiva come un matto a farsi portare in giro in moto, e non riusciva a stare zitto neppure con un casco in testa.
Alex che, a volte, era così concentrato su quello che stava scrivendo sul suo portatile, che lo faceva attendere immobile e sul suo divano per ore, come se non esistesse. Come se nulla di quello che avesse Mark: le sue gambe, il suo fiato, la sua arroganza, la sua forza, il suo essere una tigre, un ottimo calciatore, potesse avere una qualche importanza.
Nel mondo di Alex essere un calciatore non valeva nulla.
Mark non si era accordo quando.. quando le cose, dentro di lui avevano iniziato a cambiare. Quando Alex era diventato come una boccata d’aria fresca in una vita che, dannazione!, era la vita che aveva sempre desiderato per se stesso.
C’erano le mani di Price addosso e non pensava ad Alex.
C’era una partita da vincere e non pensava ad Alex.
C’era il desiderio e, ahi!, come un insetto che pizzichi, ecco che quel nome, quel volto, quella voce saltavano fuori, dentro di sé.
La prima volta che lo sentì, Mark non vi prestò ascolto. Rifiutò tutto, come se quello potesse rovinare ogni più intima parte della sua propria anima. Non era pronto ad affrontare una cosa simile. Uno sconvolgimento tale.
Lo sapeva, lo sentiva, ma non lo voleva.
E forse ne aveva paura.
Dopo due settimane dall’incontro di ritorno con l’Amburgo di Price, Mark si ritrovò seduto sul suo letto, con un cappellino rosso in mano. Benji l’aveva dimenticato in albergo e lui l’aveva portato via: magari gli sarebbe piaciuto riaverlo.
Magari..
Sollevò gli occhi e si ritrovò a sospirare. Quel giorno gli allenamenti erano terminati presto, ma lui si sentiva stanco, mentre il freddo umido della nebbia che non riusciva a sciogliersi nel vento ghiacciato che spazzava la città. Soffocò un tremito a sentire qualcuno bussare alla sua porta.
Una specie di ‘codice’. Il loro.
“Avanti Alex.”
Sembrava felice, entusiasta. Gli parlò del suo giornale che gli aveva proposto un lavoro notevole, che non era certo che avrebbe accettato perché stava, da anni, lavorando su altro. Gli disse che era indeciso, che non sapeva cosa fare, che, dopo tutto quando a un giornalista viene offerto un posto tranquillo, e fisso, in una redazione tanto prestigiosa solo uno stupido avrebbe rifiutato ma lui non se la sentiva, forse non ancora, forse prima doveva portare a termine quello che aveva fra le mani ora..
Mark non rispose nulla.
“Sembri pallido. Stai bene?”
“Benissimo.”
Alex aggrottò la fronte e tanto disse, tanto fece che riuscì a misurargli al temperatura. Non aveva la febbre ma sembrava comunque stanco, poi un atleta doveva curarsi con attenzione. Lo obbligò a letto e gli promise che si sarebbe occupato di lui.
Mark ringhiò senza forze.
“Magari dopo, ora ho da fare una cosa urgente.”
“Cosa?”
La tigre chiuse gli occhi ed era una cosa incredibile che quei momenti gli pesassero in quel modo sul costato. Eppure.. indicò il cappellino rosso appoggiato su una mensola all’ingresso.
“Devo spedirlo ad Amburgo, in Germania. E’ urgente.”
Alex non disse niente. Per un attimo a Mark parve in equilibrio su un precipizio di cui lui non aveva idea. Poi allungò la mano. Sotto di esso era nascosto un pezzo di carta, un indirizzo.
“E’ lui il destinatario?”
Mark annuì in silenzio.
Quando sentì il click della porta che si chiudeva dietro ad Alex, portatosi via il cappello e l’indirizzo, Mark se ne *accorse*. Si guardò intorno, e dentro, e *vide*. Avrebbe voluto rifiutarsi, avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto tornare indietro, a casa, e lasciare tutto. Avrebbe voluto.
Non lo fece.
Alex tornò dopo un paio d’ore: la ricevuta d’un pacco spedito tramite un corriere e tutto l’occorrente per curare una leggera influenza.
Non aveva scampo, ora.
Gli mancava l’aria solo a pensarci, ma.. ma come sarebbe stata la sua vita, ora, senza Alex?
Era Alex che gli aveva spiegato l’Italia, ciò che c’era da vivere, ciò che c’era da scansare. E come farlo.
Era Alex che gli aveva insegnato a leggere un giornale o a ascoltare un telegiornale, interpretando in modo corretto le notizie date, e cercare di capire i trucchi che si usavano. E aveva trovato che gli piaceva, quel rincorrersi particolare di menzogna e verità, quell’intrecciarsi di visioni, di parole che sfumavano la realtà vissuta e la filtravano, per renderla comprensibile, a volte. Per renderla adatta ad uno scopo, altre volte.
Era Alex che gli aveva fatto conoscere cose di cui non immaginava neppure l’esistenza, nel passato o nel presente, facendogli vedere quanto era vasto il mondo su cui si trovavano a vivere, quante cose potessero accadere.
Era Alex che, una mattina l’aveva svegliato alle tre e gli aveva detto che per un giorno poteva non andare agli allenamenti, che voleva portarlo al mare, e gli aveva porto il casco e gli aveva indicato la strada e: il mare d’inverno, al mattina presto, prestissimo, quando il mondo intero stava ancora dormendo. Il silenzio infinito che si stempera solo nella debole risacca di un mare che non era quello a cui lui era abituato. Niente cavalloni grigi ad inghiottire metri di spiaggia, niente spuma roboante che si infrangeva in cristalli di ghiaccio, nulla, lì, di quella sensazione di scoprirsi piccoli, indifesi di fronte a un oceano troppo vasto da quantificare ma il tiepido verde, e morbido di quel mare invitante, piacevole. Che sorrideva anche d’inverno. Che poteva essere crudele, e terribile, spaventoso, ma che non ne portava tracce. Lui e la sua moto, e Alex.
E non centrava nulla col calcio, non centrava nulla con una palla rotonda e due porte. Non centrava con la forza o l’orgoglio, con la fascia di capitano e tutto quello che faceva di solito, con quello che aveva sempre fatto. Non era sacrificarsi, impegnarsi, essere arrogante, saldo, sicuro di ciò che voleva ottenere. Non era niente di simile.
Non centrava con niente del genere, ma Mark scoprì di non poterne fare a meno.
E Mark sapeva che in quell’istante era cambiato tutto: Alex no, o forse non voleva farlo vedere. Forse.. non importava.
Passarono i mesi. Finì il campionato. Mark tornò in Giappone e poi ritornò a Torino. Gli allenamenti, di nuovo, i nuovo compagni, entrare a far parte della rosa ufficiale di ogni partita. Antonio che continuava a ridere e scherzare.
E Alex.
Il 23 di dicembre la maggior parte dei suoi compagni stava ancora festeggiando il fatto di essere campioni d’inverno. Su Torino era caduta una coltre bianchissima di neve e Mark la fissava, immobile dalla finestra, coprire lentamente ogni singolo ramo del giardino.
Una strana sensazione: come se fosse di fronte alla fine di tutto e non ci potesse fare nulla.
Non si stupì quando Alex bussò, ma lo fissò stranito guardandolo con quegli abiti indosso.
Non gli aveva detto nulla, la sera prima.
Pochi bagagli, una giacca comoda, leggera, qualcosa da gettarsi addosso prima di raggiungere l’aeroporto. E la fascia catarifrangente con al scritta PRESS da mettere sul braccio. Il giubbino identico che gli spuntava da una sacca semivuota. Il suo portatile.
E uno sguardo. Quello sguardo sognato e insieme terrorizzante, su di lui.
Mark chiuse gli occhi perché sapeva che in quei momenti non c’era nulla da dirsi, che le parole non servivano, non esistevano. Allargò le braccia, lasciò che il corpo più alto e maturo del suo lo premesse contro il muro.
La prima volta che fecero l’amore fu così, in piedi, semi vestiti, di fretta perché giù c’era un taxi che aspettava e l’aereo e gli agganci di Alex, il suo lavoro di reporter..
Mark non aprì mai gli occhi. Tentò disperatamente di registrare ogni sensazione, ogni desiderio, ogni tocco, ogni fiato, per chiuderlo nella parte più nascosta, profonda, privata di sé. Perché, qualunque cosa fosse capitata non sarebbe finita, almeno nella sua mente non sarebbe finita.
Quello era l’inizio e la fine.
Quando le labbra si staccarono, le mani si sciolsero dalle mani, gli occhi scintillarono negli occhi e il silenzio si riempì solamente dal rumore leggero della porta d’ingresso che si chiudeva, delicatamente, sui cardini, troncando di netto quello che era appena successo lì, tra loro, da quello che sarebbe capitato dall’immediato futuro in poi.
In quell’istante Mark scoppiò a piangere come il ragazzino che non era più. Forse che non era mai stato. # ___
Un ragazzino: Danny non l’aveva mai visto come un ragazzino. Dopo tutto era Mark, il loro Mark. Il loro Capitano, la tigre. Ora però intuiva qualcosa sul fondo di quegli occhi solitamente accesi come due fuochi, qualcosa di nuovo e che, forse, non gli piaceva.
O forse si sentiva solo, in parte, un po’ geloso.
Danny non era uno stupido, vedeva e sapeva capire cosa fosse. Così come lo sguardo di Price addosso a Lenders. Così come l’espressione di Ed quando gli diceva che con Mark, cosa diavolo gli fosse successo non si sapeva, ma -dannazione!- non riusciva a parlargli! E se c’erano, era vero, anni a tenerli insieme, c’erano altrettanti anni, quasi, a separarli ora, più di un oceano o di un continente intero.
Danny sibilò lentamente tra i denti, seduto sulla panchina con le mani in tasca.
“Niente da dire, Lenders è diventato davvero strepitoso!”
Non disse nulla. A lui sembrava sul punto di rottura. Così teso, così nervoso.. ma qualcuno se ne era accorto? E se fossero solo suoi timori senza senso? Se fosse solo una normale tensione pre-gara? Dopo tutto erano lì per i mondiali, non era una passeggiata.
La falcata di Mark falciava il campo con una rapidità meravigliosa. C’era come sempre qualcosa in lui che sembrava disperato, rabbioso, come se tutto il mondo dipendesse da quello, da lui.. Socchiuse gli occhi di fronte allo sguardo dubbioso di Ross che, fortunatamente, non aggiunse nulla.
Price, al suo fianco, teneva fra le mani il suo solito cappellino, quello rosso, quello che, diceva, gli portava fortuna, e lo strattonava come se volesse ucciderlo. Come se, per una volta, non fosse Mark l’unico gonfio di rabbia e ira. Ma Price aveva un buon motivo: non poteva giocare, per quella spalla, e forse avrebbe potuto essere in campo appena per la finale, se alla finale ci fossero arrivati. Era un ottimo giocatore, dopo tutto, e vedersi sfumare davanti agli occhi una possibilità simile doveva essere frustrante, avrebbe potuto abbattere lo spirito più arrogante ed egocentrico. Neppure Price poteva essere indifferente a quello.
Però Price aveva gli occhi fissi di fronte a sé, non sembrava gonfio di ripianto e di rimorsi vari. Era assolutamente concentrato nel fissare Mark. Era come se bevesse i suoi movimenti, era come se, per i pochi istanti in cui Mark impiegava a percorrere tutto il campo con la palla attaccata ai piedi, il mondo di Price svanisse, per concentrarsi su una persona.
Danny era un esperto nell’adorare qualcuno. E faticava a crederci.
Price? E Lenders?!
Price *e* Lenders?!
Non era possibile.
Eppure se l’atteggiamento, le parole, i pensieri potevano mentire, gli occhi no. E Danny poteva vedere gli occhi di Price e..
La palla rotolò fuori, Mark atterrato da un ingresso un po’ troppo rude.
Come nulla fosse accaduto, si alzò in piedi, scrollandosi l’erba appiccicatasi addosso.
Ross richiamò la squadra, a provare lo schema mostrato quella mattina. |