NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! Però Alex e Antonio sono miei! ^^! #flashback#
La Tigre parte VII di Dhely
La stretta scalinata che portava, serpeggiando, in cima a quelle colline artificiali che circondavano l’albergo, di fronte a un misero tempio, era ripida proprio come Benji si aspettava che fosse.
Era salito là sopra, sedendosi comodo su una panchina appena oltre lo slargo di fronte all’ingresso del tempio, e al termine della scala: stava aspettando qualcuno al quale, del tempio, non importava un accidente. Ma la scala, così stretta e ripida, così alta e così *faticosa* doveva essere un richiamo irresistibile.. a meno che di Mark non avesse davvero compreso nulla.
E nonostante fossero capitate tante, troppe cose, e troppe domande non avevano trovato risposta, nonostante tutto percepì il passo cadenzato di corsa che batteva, ritmico, contro la pietra viva scavata nel lato esposto della collina.
Quel passo che sembrava l’avanzare di un destino che lui, con tutte le sue forze, non avrebbe mai potuto bloccare, come un’ondata che gli si stava per abbattere indosso. Quella corsa senza fine.. anzi, con un ‘fine’ che non era lui.
Benji socchiuse gli occhi di fronte al cielo che si stava schiarendo dolorosamente sopra di lui. Nulla che si potesse fermare. Nulla che gli avrebbe mai rivolto più che uno sguardo.
Strinse i pugni.
Non lo avrebbe lasciato scappare senza.. senza una spiegazione. Almeno una spiegazione, almeno una menzogna.. sì, una bugia sarebbe bastata, ora. E anche se il dolore era insopportabile, e la rabbia gli sorgeva dentro e avrebbe voluto saltargli alla gola e fare a brandelli quella maledetta tigre dal cuore di pietra, quel..
I passi si bloccarono lentamente sul piccolo spiazzo, e il fiato ingrossato dalla fatica prese il posto di quello scalpiccio che era svanito.
Il cielo sembrava bianchissimo, di madreperla, sopra di loro, e tutto era immobile. Silente.
Un silenzio che Benji si scoprì a non voler sopportare. Ricordava troppo la quiete ansimante che condividevano quando loro due erano solo un grumo ardente e indistinto di pelle e carne sudate, e piacere e altri umori dall’afrore inconfondibile. Lì, in quegli istanti erano solo i respiri che riempivano il mondo, e quello andava bene, era giusto.
Ora..
“Lenders.”
Sentì bene quegli occhi neri posarsi su di lui, forse riuscì ad intuire il suo solito sorriso tirato.
Si avvicinò alla panchina su cui era seduto e, lentamente, prese a fare stretching.
“Già in piedi a quest’ora, Price? Mi stupisci.”
Silenzio, di nuovo, un silenzio terribile, insopportabile, doloroso e terribile.
“Non si può mai credere di conoscere davvero le persone che ci stanno al fianco. – e non riuscì a non colorare le sue parole di amarezza profonda – Dopo tutto sei tu quello che hai deciso di..”
Mark si scrollò. Infastidito.
Benji socchiuse le labbra, incantato di fronte a quello sguardo. A quell’espressione strana, di chi azzannava l’aria per riempirsene i polmoni e non ne abbia abbastanza per modulare la voce. E che forse non aveva alcuna intenzione di dare una risposta che non avrebbe avuto senso dare.
“Non credo ci sia altro da aggiungere.”
“A cosa, di grazia? Non è stato detto nulla!”
La rabbia di Benji si infranse contro la sottile linea dura che solcava la fronte di Mark. Dolore? Fastidio? Non lo seppe interpretare.
“Non c’è nulla da dire.”
“A me non pare.”
Un sospiro. Mark si tirò la schiena continuando a sciogliersi i muscoli.
“E’ finita come è iniziata, Price. Nello stesso modo senza senso, nulla di più.”
Senza senso.
Quelle parole gli scavarono dentro un tunnel rimbombante di vuoto e dolore ma non riuscì a ribattere.
Senza senso?! Non c’era stato nulla di ‘senza senso’ fra di loro! Era stata tutta solo una *follia*, dal primo avvicinarsi al continuare a frequentarsi, rincorrendosi per l’Europa, guardandosi da un lato all’altro di un campo e niente frasi da dirsi, niente segreti da confidarsi, niente se non un presente che sembrava non dover finire mai e che, insieme, non aveva altra consistenza che un respiro. Tutto chiuso in uno sguardo, quello sguardo particolare, quel cenno che si scambiavano, che solo loro conoscevano e sapevano vedere. E poi il silenzio delle stanze che condividevano, il silenzio di ogni addio che era un arrivederci.. che non poteva che essere un arrivederci!
Benji si morse un labbro e si accorse che tremava mentre Mark s’era voltato, volgendogli la schiena. Aveva ripreso a scendere di corsa quella dannata scala.
Com’era finita?
Era finita e lui non se n’era accorto. Un giorno, semplicemente, era arrivato un corriere espresso nel suo loft di Amburgo, con un pacco dall’Italia. Dentro c’era il cappello da basket che aveva dimenticato nella stanza d’albergo che avevano condiviso l’ultima volta. Non una riga, non una telefonata: il niente solito che accompagnava le loro lontananze. Ma da allora tutto era terminato. Non c’era mai più stato un incontro, uno sguardo speciale, un tocco impalpabile.
Era solo fissarsi, vuoti, l’uno dall’altra parte di un campo.
Poteva essere tutto lì?
Era tutto lì.
Finito.
Finito?
Altre domande non vennero, e quando riuscì a formularle dentro di sé si accorse che Mark non c’era più. Sentiva, appena, fra il canto serrato dei passeri che si stavano destando al nuovo giorno, il passo veloce che rimbombava sulle rocce della scala, ed era un rumore che decresceva piano, fino quasi a fondersi, annullandosi nella luce di quell’alba che, mai come in quel momento, gli parve difficile da sopportare.
Se non fosse stato Benjamin Price avrebbe pianto, ora. Gli sarebbe corso dietro pregando per una parola, per una risposta. Per un motivo. Gli si sarebbe inginocchiato di fronte, mandando in frantumi tutto il suo orgoglio, calpestando il nome che portava indosso, e pronto a tutto pur di avere qualcosa, fra le mani che non fosse quella assoluta mancanza di senso.
Se non fosse stato Benjamin Price, e lui Mark Lenders magari.. ma nessuno dei due aveva costruito la propria vita sul soffio delle parole e l’orgoglio troppo spesso era ciò che li aveva tenuti in piedi in mezzo ai venti avversi. Benji non avrebbe svenduto il suo orgoglio. E Mark non avrebbe degnato d’un secondo sguardo uno che si fosse comportato in quel modo.
Perché?
L’unica domanda, ora, che avesse senso fare, volò via, inespressa dalle labbra, prima ancora di toccare le loro menti. Annientata da quel ‘senza senso’ che sapeva gravare addosso più che un macigno. ___
Senza senso.
Dirlo era stato ferirlo e ferirsi insieme, ma l’aveva saputo solo quando quelle parole erano state pronunciate.
Se n’era accorto tardi, dopo, quando tutto quello non serviva più a nulla. Come non sarebbero servite delle scuse sussurrate fra i denti, che Price non avrebbe colto, o non avrebbe credute sincere. Sarebbero state davvero sincere?
Mark non lo sapeva, dentro di se. Lui che aveva costruito sulla saldezza interiore il suo proprio mondo, ora viveva come se tutto gli si stesse sfaldando intorno, come se non esistessero più punti cardinali, o un orizzonte da indicare. E spesso, con sua grande, somma vergogna, erano coloro che gli stavano intorno a farne le spese. Del suo brutto carattere. Del suo umore. Del suo aver compreso le cose con troppo ritardo, non una, ma *due* volte, di essersi ritrovato immerso in una situazione che non avrebbe mai creduto possibile, che non sapeva gestire e che non poteva, non *voleva* farlo.
Gestire un dolore.
Un dolore non si poteva *gestire*. Si poteva sopportare o combatterlo, negarlo, rifiutarlo, subirlo, cercare di ignorarlo. Niente di tutto questo era nelle sue attuali capacità.
Era da ridere: lui, la tigre, messo al tappeto da.. da quello. Da un dolore.
Danny, una volta gli aveva detto che non poteva continuare a vivere in quel modo da megalomane senza respiro come faceva di solito, perché un uomo può sopportare solamente una determinata quantità di dolore prima di esplodere, o prostrarsi, schiantandosi sotto il suo peso.
Allora aveva quindici anni, e Danny due di meno: cosa ne poteva sapere della vita un bambino viziato?
Adesso, dopo quasi dieci anni di distanza, Mark si chiedeva se Danny non avesse avuto ragione, quel giorno. E se lui non avesse già esaurito tutta la quota di dolore che gli era stata concessa di sopportare nella sua vita. Fosse stato così che avrebbe fatto?
Non sapeva cosa rispondersi, perché ormai doveva una risposta solo a se stesso. E, nonostante tutto, aveva scoperto che la fatica più grande, in quella mattina appena nata era stato trovarsi ferito nel guardare Price e dirgli quello che gli aveva detto.
Non gli aveva mentito, non era stato aggressivo ne’ più crudele del suo solito, eppure una parte dentro di lui gli pungeva l’anima. Price non aveva nessuna colpa di quello che era successo. Price non centrava nulla, non sapeva nulla e, probabilmente, non se n’era neppure accorto. Avrebbe dovuto essere più.. garbato, se ci fosse riuscito. Almeno avrebbe dovuto provarci.
Invece no.
‘Senza senso.’
Mark non aveva mai faticato per cercare di comprendere se la loro fosse stata mai davvero una storia, o qualcosa di ancora più inconsistente e inconcludente di un semplice dividere una stanza d’albergo, sesso, carezze e vicinanza. Non era mai importato. Ora, invece, *importava*.
E anche se era stata una ‘cosa’ senza alcun senso, sentire quelle parole echeggiare nell’aria, prenderne coscienza era.. atroce. Ora che aveva tutt’altro a cui pensare, non riusciva a non essere toccato dalla sofferenza che aveva inferto a se stesso e a Price con la verità.
La verità.
Era ridicolo: era diventata ‘la verità’ ben dopo che tutto aveva avuto inizio. Anni dopo che lui e Price avevano iniziato a frequentarsi. E se lo era stato fin dall’inizio, ecco, lui se ne era accorto tardi.
Price, forse, non se ne sarebbe mai accorto.
Mark lo sperò con tutta la forza che seppe trovare, perché non seppe immaginarselo di nuovo di fronte, con quello sguardo velato di.. dolore. A chiedere una cosa che era sua di diritto, che doveva avere, e trovarsi, sbattuto in faccia, solo ‘la verità’. Una verità cruda, che faceva male a vederla, a sentirla addosso, a saperla.
Benji si era innamorato di lui?
Mark lo sapeva, o almeno lo credeva.
Se ne era accorto lentamente, incontro dopo incontro, sguardo dopo sguardo, come quando si costruisca un puzle con troppe tessere. E forse l’aveva capito ancora prima che lo comprendesse Price. Perché non aveva buttato tutto all’aria in quel momento?
Perché non ne aveva avuto la forza.
Da solo, in un nuovo continente. Lontano da casa, dalle proprie abitudini, dalla propria cultura, da tutto. All’inizio c’era solo Price a cui appoggiarsi, a cui aggrapparsi per non morire dalla solitudine. E poi tutto era diventato altro: affetto forse, abitudine, piacere, amicizia.. troppe cose a cui non sapeva dare un nome. E aveva visto Price cambiare sotto i suoi occhi, lentamente, ma inesorabilmente, e l’aveva visto, sì, poteva sbagliarsi, certo, ma le sue labbra si erano fatte più calde, la sua passione più devastante, i suoi sguardi più luminosi.
Aveva visto e aveva lasciato fare, senza una domanda, permettendo che il dubbio vivesse senza una risposta. Era certo che a lui, una cosa così non sarebbe mai capitata. Che non correva alcun rischio, che a Price sarebbe passata, prima o poi, e che, comunque, nel frattempo potevano continuare a divertirsi comunque.
Poi, magari, non era neppure vero, Price non lo ‘amava’ affatto. Era solo affetto, bisogno forse, attrazione, mille cose che non si potevano dire, ma amore.. l’amore magari era lontano mille miglia da lì e non centrava nulla. E se gliel’avesse chiesto gli avrebbe riso in faccia e gli avrebbe risposto con una delle sue solite frasi acri, terribili e caustiche. E lui avrebbe sbuffato e gli avrebbe morso una spalla. E Price si sarebbe scosso e avrebbe ringhiato qualcosa e.. e poi sapeva come sarebbe andato a finire, di certo non con una risposta degna di tale nome.
Perché non c’era una risposta tra di loro, quando non aveva senso neppure porsi una domanda.
E ora?
Ora era stato pesante dire a qualcuno che probabilmente uno dei periodi più emotivamente belli e intensi della sua vita era stato ‘senza senso’.
Era vero. Ma crudele, e terribile.
E terribile ancor di più era il fatto che Mark lo sapeva, e non ci poteva fare nulla, perché ciò che gli pesava in cuore, ora, faceva scomparire, sbiadire tutto il resto.
Forse davvero non si poteva reggere più di una quantità ben precisa di dolore in una intera vita.
Se avesse avuto ragione Danny, Mark non sapeva cosa avrebbe potuto fare. ___
# A Mark era sempre piaciuto vivere in città. Anche se in Giappone viveva in periferia, in una squallida casa di un sobborgo ancor più squallido, quelle dimore enormi, circondate di campi da calcio, verde vario, boschi e piscine, con le residenze dei giocatori che li facevano sentire sempre in perenne ritiro non gli erano mai andati a genio.
Ci aveva messo poco a trovare un appartamento in città: un amico del padre del capitano della sua squadra era il proprietario di una palazzina in centro e s’era detto più che entusiasta di prestare l’appartamento da scapolo impenitente di suo figlio –trasferitosi in America da poco- alla ‘futura stella del calcio internazionale’.
Prestare, non affittare.
Gente strana, gli italiani. Sembrava, a volte, quando ne parlava con Antonio, il capitano della sua squadra, che fosse Mark a fare un favore al padrone di casa ad abitarci dentro e non il contrario. Anche perché, poi, ora Mark poteva *permettersi* di pagare quasi qualunque affitto gli avessero chiesto.
Meglio così.
L’appartamento era piccolo, arredato all’occidentale, ma non gli dispiaceva. Poi era vicino al parco del Palazzo Reale, gli bastava aprire una finestra e gli sembrava di stare in mezzo a un bosco, gli bastava scavalcare una cancellata per permettersi di correre per ore anche nel cuore della notte.
Il suo piano era occupato solo da un altro appartamento, oltre il suo. Ci viveva un giornalista, o così gli aveva detto Antonio. Da quel che ne sapeva Mark era un tipo cordiale, ma col quale non aveva mai avuto a che fare e che, probabilmente, non gli avrebbe rivolto più di dieci parole in un anno. Dopo tutto era solo un vicino di casa no? Poi avevano orari assurdi entrambi, era raro incrociarsi sulle scale.
A volte succedeva quando Mark rientrava da una trasferta con annessi festeggiamenti verso le dieci, le undici di un lunedì mattina e vedeva lui schizzare fuori dalla portineria con la fretta tipica di chi sia in ritardo ad un appuntamento di lavoro: quell’uomo sembrava, a Mark, sempre in ritardo, perennemente indaffarato. A qualunque ora tornasse a casa sentiva suoni, rumori, la tv accesa di solito, provenire dal suo appartamento. A volte aveva ospiti i quali, solitamente, parlavano una lingua che Mark non conosceva affatto. Non che fosse così curioso, era solo uno dei pregi delle case moderne: mura sottili vogliono dire case più luminose, più finestre, meno ingombro, ma anche un minor isolamento acustico.
Non che fosse un vero problema, per Mark: a casa sua vivevano in sette, tutti con diverse età, impegni, scadenze. Non era mai successo che non si addormentasse perché qualcuno parlava nella stessa stanza, figurarsi se accadeva nell’appartamento di fronte.
Non aveva mai perso il suo vizio di svegliarsi prestissimo la mattina, e visto che gli allenamenti incominciavano alle nove, non gli pesava affatto arrivare di corsa al campo. Tanto poi Antonio lo avrebbe riaccompagnato a casa, alla fine degli allenamenti, in macchina.
“Ehi occhi-a-mandorla, ma non sei troppo normale, sai? Il Mister non ci fa già correre abbastanza senza che tu ti faccia tutti quei chilometri di tua spontanea iniziativa?”
Antonio era un tipo esuberante. Non avrebbe scommesso nulla, all’inizio, di poterci andare d’accordo, eppure era riuscito anche a trovarlo gradevole. Anche se chiacchierava sempre. Anche se guidava come un cane ubriaco. Anche se non la piantava mai di presentargli ragazze e di organizzare feste-uscite-cene e così via. Fosse stato per lui non avrebbero mai dormito più di due ore per notte e il Mister lo accusava, non a torto, di traviare tutti i nuovi acquisti della squadra.
Stupendosi di se stesso, Mark dovette ammettere di trovarlo simpatico.
E, stupendosi ancor di più, si accorse che Antonio aveva una innata abilità nel capire chi gli stava intorno che aveva del miracoloso. Riusciva a sapere qualunque cosa girasse per la testa del Mark più irritabile e scorbutico dopo un’occhiata. E non sbagliava mai la battuta d’inizio di qualsiasi discorso avesse dovuto affrontare.
Inutile sottolinearlo, ma aveva intuito la ‘cosa’ in corso tra lui e Price al 15’ del primo tempo della seconda volta in cui le loro squadre si affrontavano quell’anno. Forse all’inizio aveva temuto di dovergli fare un bel discorso sull’etica da tenere su un campo da gioco nei confronti degli avversari. Ma dopo aver visto la assoluta mancanza di remore di Mark nell’infilare il pallone nella rete avversaria, aveva riso un po’ più forte battendo la spalla del loro attaccante e aveva detto una cosa semi compromettente e mezzo incomprensibile del tipo: ‘bravo! E’ fuori dal letto che si decidono i ruoli da ricoprire!’.
Mark aveva fatto finta di non sentire.
La questione era finita lì.
Antonio era uno di quelli che poteva sorbirsi ore e ore di chiacchiere altrui, tanto quanto poteva farle lui stesso, ma non avrebbe mai superato la linea immaginaria che ognuno metteva alla propria socievolezza. La soglia di sopportazione di Mark era molto bassa eppure, in anni di ‘ritorni a casa’, spostamenti con la squadra, pernottamenti altrove, uscite, divertimenti, vacanze fuori programma e cose varie, non aveva mai mosso un passo in più di quello che fosse consentito. Mark di questo gli era grato Anche se continuava a non capire come uno così esuberante, impassibilmente vivace ed espansivo sapesse perfettamente, per istinto, riconoscere il punto limite da non superare.
Però non accadeva mai che sgarrasse.
Antonio era un buon capitano davvero, non aveva mai insistito su nulla, aveva fatto di tutto per metterlo a suo agio, perché si integrasse nella squadra, provava una sana, naturale simpatia per i tipi un po’ ruvidi ma sinceri come Mark, non prometteva ciò che non poteva esser mantenuto, puntava sulla lealtà anche quando rischiava di essere brutale e continuava a dire che il suo lavoro era fare in modo che ognuno dei giocatori tirasse fuori il meglio di sé in campo.
Con Mark ci era riuscito benissimo, e quasi da subito. Una sintonia speciale, forse alcuni lati del carattere complementari, alcune frazioni dei loro passati molto simili. O forse, semplicemente, ‘perché sì’. Forse, aveva sospettato Mark, Antonio era più furbo e ‘navigato’ di quanto lo fossero gli spauriti giocatori esteri alle prime armi che gli capitavano sotto le grinfie, ed aveva imparato come trattarli, come spremere da loro il massimo senza dar loro l’impressione di essere sotto esame costantemente.
Alla fine, Mark riusciva addirittura a chiamarlo ‘capitano’ senza farsi cogliere dai conati di vomito.
E allora era stato semplice accettare quando Antonio gli aveva chiesto un favore, uno stupidissimo, banalissimo favore: “Sai il tuo vicino di casa, il giornalista? Conosce mio padre molto bene e proprio ieri stavano parlando che avrebbe bisogno di rinfrescare le lingue orientali per alcune ricerche che sta facendo. A mio padre sei venuto in mente tu: perché non vai da lui qualche volta e vi parlate in giapponese? Così magari lui ti può dare una mano anche per il tuo ridicolo accento!”
Mark sapeva bene di aver fatto *miracoli* nell’imparare una lingua come l’italiano così in fretta e così bene, però sapeva pure che Antonio non aveva tutti i torti. Il margine di miglioramento esisteva, perché non approfittarne? Se quello poi, sapeva altre lingue, avrebbe potuto esercitare il suo limitatissimo tedesco o chissà che altro.. le giornate di Mark duravano, come quelle di chiunque, 24 ore, ma per lui, abituato ai ritmi infernali che aveva tenuto finché non era riuscito ad ottenere qualcosa di consistente da un contratto, andandosene via dal Giappone, impegnarle tutte in sonno e allenamenti era uno spreco.
Così aveva conosciuto Alex. #
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