NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! NOTE2: ho un lungo, tortuoso rapporto con la città di Torino. Ma è un rapporto di amore e di affetto, anche se, purtroppo, dietro a ogni vera storia d’amore c’è sempre un po’ di tristezza. Quella qui descritta è la *mia* Torino. Chiedo scusa se ho fatto errori – la volte la memoria fa dannatamente difetto, soprattutto la ‘memoria emotiva’, quando un posto non ce l’abbiamo più sempre sotto gli occhi. I luoghi qui descritti però esistono, tutti. Se non li hanno buttati giù nel frattempo! E, ovviamente, cercate di capire che questa è Torino come l’ha vista un giapponese tipo Lenders.. siate clementi!
La Tigre parte VI di Dhely
Aveva preso a piovere appena il suo aereo era atterrato. La hostess l’aveva salutato almeno mille volte con il suo forte accento tedesco a cui Price aveva risposto con un secco cenno del capo, allungando il passo.
Il suo autista non gli aveva rivolto che un profondo saluto educato e aveva preso a guidare la macchina della sua famiglia nel traffico scorrevole dell’autostrada. L’acqua che cadeva dal cielo era sempre più fitta: un temporale in piena regola con lampi e tuoni che illuminavano l’orizzonte era un buon benvenuto.
Quando l’auto svoltò entrando nel parco dell’hotel in cui erano ospitati, Benji allungò una mano toccando al spalla dell’autista.
“Lasciami al campo di calcio. Tu vai a portarmi in camera le valigie.”
Ovviamente nessuna risposta degna di tale nome ma non di quello aveva bisogno. L’obbedienza senza domande era molto più rilassante.
Il campo non era raggiungibile dall’auto; Benji non aveva alcun problema a camminare in silenzio sotto le alte piante del viale, lentamente. La pioggia gli batteva addosso senza pietà, sembrava una carezza pesante, un benvenuto strano che comunque gli faceva piacere.
Il viale di ghiaia divenne una specie di sentiero che serpeggiò dietro un’alta siepe e finalmente la vista si aprì sulla distesa del campo di calcio. C’erano dei ragazzi che correvano dietro a una palla, qualcuno che rideva. Una voce conosciuta li chiamava, dicendo loro di mettersi al riparo.
“Non vorrete mica ammalarvi!!”
Uno che correva scivolò sull’erba densa d’acqua, la palla rimbalzò pesante, sollevando schizzi di fango. Il portiere, laggiù fra i pali, rise dello scivolone del centrocampista che aveva cercato di calciare una palla schizzata da tutt’altra parte. Un ragazzo, fermo immobile sotto la pioggia, un sorriso appena tirato sul viso abbronzato, la fermò, elegante e rimase lì a fissare quei due matti che ridevano, fradici come dei pulcini, seduti nell’erba, di fronte a lui.
Disse qualcosa che a Benji non riuscì ad arrivare, vista la distanza, il portiere sbuffò e gli gettò un guanto come gioco e rise.
Poi degli occhi si sollevarono sui suoi.
E Benji seppe di non saper cosa dire, ora. Di non poter dire nulla.
Fu la voce di Becker a salvarlo. “Si può sapere cosa… - silenzio, per un attimo, a seguire lo sguardo scuro della tigre, poi un sorrise – Benji Price! Sei arrivato!”
Nel giro di mezzo minuto tutti quelli che si erano già diretti verso lo spogliatoio furono di nuovo fuori, anche quelli che s’erano già infilati sotto la doccia calda.
Price, il portiere imbattibile. Il *loro* meravigliosissimo portiere. Negli anni era divenuto amico e confidente, negli anni aveva occupato un posto insostituibile all’interno della squadra. Negli anni non aveva mai ceduto il trofeo di *migliore* che era suo, che gli spettava di diritto.
“Sei arrivato finalmente!”
“Quando potrai giocare?”
“Ma non sai cosa è successo in tua assenza!”
“Avrai un sacco di cose da raccontare!”
“Ti abbiamo visto giocare con l’Amburgo! Sei meraviglioso Benji!”
“Ma davvero ti sei rotto una spalla?”
“Da quanto tempo, Benji! Sono così felice!”
“Ti aspettavamo da settimane, ma sei sempre in ritardo!!”
Risate. Pacche sulle spalle, anche su quella che gli faceva male. Sorrisi. Mentre il cielo sopra di loro rombava e riversava, pareva, tutte le riserve d’acqua che aveva tenuto da parte da decenni almeno.
Sollevò il capo, appena.
Il suo cappellino rosso era zuppo. Dalla visiera colava una sottile stilla d’acqua, pesante, che si infrangeva sulla spalla per mischiarsi, poi alle altre che gli bagnavano la felpa.
Il suo piccolo sorriso era quasi ghiacciato, immobile, mentre stringeva mani e salutava amici.
Amici.
Laggiù, in mezzo al campo c’era uno che amico non era.
No, non era suo amico.
Mark si chinò appena, sollevando da terra il guanto che Warner gli aveva lanciato.
“Il principino è tornato, dunque.”
Warner borbottò qualcosa ma non disse nulla. Allungò le mani per riprendere ciò che era suo quando incontrò, intorno alla pelle del suo guanto, la pelle di Mark. Calda. Anche se bagnata la stretta era forte. Decisa.
Ed sentì un brivido a corrergli lungo la spina dorsale.
“E noi dovremmo dar retta a Ross e ripararci. Sembra il diluvio.”
Mark sollevò gli occhi al cielo, con un sospiro come a controllare che la pioggia fosse proprio lì, poi sospirò stringendosi nelle spalle.
“Sì, probabilmente hai ragione. Sono stanco di rotolarmi nel fango.”
La mano di Mark, però, non si sciolse da quella di Ed.
Ci fu un lungo sguardo, puntato là, su quel ragazzo al centro di tante attenzioni, ma non una parola.
Le dita si sciolsero dal suo polso, delicatamente, con lentezza ed attenzione. Una cosa che, Mark sapeva, era in grado di far sciogliere Ed, solitamente. Ma quella volta era stato un movimento inconsapevole. Istintivo.
Ed rimase lì da solo. Al centro di un campo da calcio vuoto.
Il suo capitano si stava allontanando, come se fosse indifferente a quello che gli girava intorno. Gli altri giocatori erano intorno al portiere titolare.
E Price, il titolare, il meraviglioso, unico, incredibile, *odioso* Benji Price, ora stava fissando lui. Aveva visto il tocco di Mark. Le loro mani unite. Aveva veduto.. chissà cosa. In una frazione di secondo Ed aveva sentito su di sé il suo stupore, poi il suo odio, la sua incredulità e un’ampia cacofonia di sentimenti inspiegabili. Di sensazioni che non potevano avere troppo senso. Che non *dovevano* averne.
Chiuse gli occhi e si lasciò agilmente guidare dalla voce preoccupata di Danny, fastidiosa e urgente.
“Warner! Ti muovi o no?!”
In quell’istante gli parve un salvagente. Il suo salvagente, e vi si aggrappò come se effettivamente stesse rischiando di morire travolto da ondate troppo alte. ___
La doccia, tiepida e lunga, poteva sciogliere ogni tipo di tensione accumulata addosso, infiltratasi nei muscoli con le schegge di ghiaccio che era stata la prima pioggia.
La doccia in comune, giù al campo, era qualcosa di necessario, fisico. Primigenio, quasi: quando tutti si allenavano semplicemente in un campetto dietro casa e ritornare al tramonto fra le pareti domestiche luridi da fare schifo, l’idea di un campo con tanto di confort minimi era un sogno. Poi era divenuto anche quello routine: la doccia, l’infermeria, un medico a disposizione, poi i massaggiatori, il codazzo normale di persone che, ora, da dietro una panchina, organizzavano la sua vita.
Quello che mangiava, quanto bere, che tipo di acqua, quanto allenamento, l’ora della sveglia, quella di andare a letto, come divertirsi, e come e quando e quanto.. e con *chi*. Il suo curatore d’immagine era quello che odiava di più.
Fortuna che spesso non ce l’aveva tra i piedi. E per fortuna che il suo legale era rimasto in Italia a contrattare su una firma da apporre o meno in calce ad un contratto.
Socchiuse gli occhi: voleva sciogliersi in quell’abbraccio bollente, voleva evaporare, divenendo vapore, una piccola nube che si agitava appena accanto all’apertura della ventola, per poi essere aspirata fuori.
“Maaaark! Cazzo! Non consumare tutta l’acqua!”
Si ritrovò a sorridere. Ed aveva ragione.
Abbassò il miscelatore e dalla doccia non scesero più che poche, ultime stille morenti d’acqua. Mark chiuse gli occhi prendendo un respiro profondo prima di avvolgersi nella spugna e uscire, avvolto di bianco cotone e di vapore denso nella loro camera d’albergo.
Ed, seduto sulla scrivania accanto ad un muro lo guardava con uno sguardo acre.
“Era ora, Lenders! Pensavo volevi morire soffocato lì sotto!”
S’infilò leggero nel bagno e la porta si schiantò indelicatamente sui cardini.
Chiuse gli occhi, di nuovo, e s’impose di non pensare a nulla, perché a ben poco avrebbe potuto pensare, ora. Non sarebbe servito, almeno.
Durante la cena gli altri parlarono al posto suo, ed ebbe così le risposte che voleva senza neppure chiedere.
Hutton sarebbe arrivato entro la prossima settimana. Avevano ancora venti giorni prima della prima partita ufficiale. Gli allenamenti seri sarebbero cominciati fra dieci. Le regole, i permessi, gli orari.. E Price lo fissava dall’altro capo del tavolo.
In silenzio.
Senza cappellino non sembrava quasi più lui: ma almeno era diventato abbastanza educato da sapere che bisognava toglierselo quando si era seduti a tavola.
Solo a letto se lo toglieva sempre.
Almeno: quando era con *lui*.
Spostò lo sguardo. Thomas Becker era seduto al suo fianco e come al solito faceva di tutto per tenere alto il tono d’umore della squadra. Che non vedesse l’ora del ritorno del suo Holiver era palese, ma rideva, e parlava con tutti.
Era da sempre stato uno dei pochi che gli riusciva tollerabile quindi non gli dispiacque quando gli si sedette accanto, parlando del più e del meno, chiedendogli come andavano le cose in Italia, che lui aveva giocato parecchie volte nel Marsiglia e faceva spesso delle capatine oltre confine ma a Torino non c’era mai stato.
“Torino, com’è Torino, Lenders? So che ci fanno le automobili.”
Automobili. Sì, sorrise a se stesso: automobili e giornali.
Per il resto era una città che sembrava grigia, in cui l’inverno nebbioso teneva tesi gli artigli acuminati per molti, troppi mesi. Ma a volte, a Torino, ricordò Lenders, accadevano dei piccoli miracoli che potevano durare incantate settimane: il vento vibrava forte, scendendo dalle rupi a picco delle Alpi, e sibilava fin lì, quasi in pianura, acre di neve e di gelo e allora il cielo si squarciava in un azzurro d’alta montagna, in cui scintillavano non solamente le vette incappucciate sempre di ghiacciai, ma anche la superficie piana dei palazzi, solitamente grigi, lattei, fatti, sembrava, per perdersi in quella nebbiolina bassa che non erano altro che nubi troppo gonfie d’umidità. Era in quei giorni che, se si correva dal Valentino fino a tutto il lungo Po si potevano vedere i colori come Mark non ne aveva mai visti uguali, come se mai, prima d’allora fossero esistiti.
Le colline che digradavano dolcemente verso il fiume serpeggiante, i pilastri disarmonici di acciaio e cemento armato che sorreggevano ponti su cui si srotolavano strade che solo fino a un certo punto dimostravano il loro imperio sulla natura.
Lassù in alto, poi, Superga.
Un’abbazia, dicevano. Un gran cimitero glorioso, i cuori spesso rispondevano.
E Superga in quelle giornate pareva mandare riflessi diretti alla Mole Antoneliana, che si ergeva in mezzo alle strade spesso alberate, spesso ampie, solitamente dritte, che conoscevano, come uniche curve, quelle date dal dislivello. Ma era scura, la Mole, perché era giù in città, mentre l’abbazia era lassù.
E lassù c’era sempre il fruscio gentile del vento fra i larici e i cipressi, e il silenzio era solo il rumore incessante della vita. E lassù c’era la bandiera di una fede che, seppur antica non si spegneva mai.
La prima volta che gli era stata raccontata la storia di quella fiamma granata schiantatasi lassù era rimasto.. indifferente, quasi. Come sempre, di fronte alle sventure, agli errori umani capitati troppo tempo prima. Ma quella storia non veniva ricordata per mettere timore di volare, no. Quella era fede, era la fede di un’intera città. Che magari, ora, piangeva e urlava per altri colori. Che magari, ora aveva lasciato posto a nuove generazioni, nuovi residenti, di nuove nazionalità che non sapevano, che non avrebbero mai saputo. Che ora era cresciuta, era più grande e, cinica, alle favole non ci credeva più.
Ma Mark ci era voluto andare, aveva voluto vedere. Aveva veduto e aveva percepito e quando era stato sazio aveva chiesto di ritornare a casa e per giorni non aveva quasi osato sollevare gli occhi a quelle colline così dolci e così verdi.
Torino: dove il grigio e il verde hanno un equilibrio così unico che pare, perennemente, quella della primavera che sta per sbocciare, anche in novembre.
Torino: ci aveva vissuto per due anni.
“E’ bella. Sono stato fortunato: ho potuto contemplare la vista più bella di tutta Torino poco dopo che mi sono trasferito in città. – bevve un bicchiere d’acqua. I ricordi dolorosi non andrebbero condivisi, ma quella sera, per la prima volta dopo tento tempo, sentiva di poterlo fare. O di doverlo. – Le Molinette. Nelle stanze del terzo piano, danno proprio sul parco lungo il Po, e vedi solo il fiume e il verde e poi lì, appena dopo, le colline.”
Tom aveva taciuto per un attimo e aveva cercato un ricordo, un appiglio.
“Le Molinette sono.. un palazzo famoso?”
Mark sorrise.
La tigre mostrò i denti, un po’ caustico, un po’ divertito. Un po’ addolorato.
“Un ospedale.”
Torino, si ritrovò a pensare per l’ennesima volta, quando tutti gli uomini fossero scomparsi dalla terra, e a loro memento fossero rimaste solo le città vuote, dalle orbite cieche e dai cuori di ghiaccio, ecco, Torino sarebbe stata una bellissima tomba.
Forse, semplicemente, lo era già.
La *sua* tomba.
Del *suo* cuore.
Della *sua* fiducia.
Lo sguardo di Price non riuscì più a reggerlo. Si alzò in piedi, elegante, e si diresse verso la sua stanza.
Una stanza qualunque di un albergo artificiale in mezzo a un bosco che non suscitava nulla, vuoto, che rimbombava il nulla.
Avevano scelto un buon luogo per allenarsi: e si sorrise nell’enorme specchio che abbelliva l’ascensore. |