NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa!

NOTA 2: io di calcio ‘serio’ non ne capisco nulla! Se ho scritto qualche scemenza sull’argomento chiedo perdono!

#flashbach#

 



La Tigre

parte V

di Dhely

 

Se non fosse stato Mark, quello che giocava lì davanti ai loro occhi, Danny era certo che Julian Ross avrebbe gridato al miracolo.. bhè, ‘gridato’ no, che Julian non gridava mai, ma di certo un dubbio in quel senso se lo sarebbe fatto venire. Invece lo vide passarsi una mano fra i capelli e non staccargli mai gli occhi di dosso, neppure per mezzo secondo.

 

Era solo una partita d’allenamento, un po’ di più che giocare nel cortile di casa, e l’istinto atletico era proprio quello. Ma non per Mark, ovviamente.

 

Danny sapeva bene perché era così facile odiarlo: perché per lui era sempre tutto troppo serio. Perché per Mark non si *giocava* mai. Era esasperante. Impossibile. Noioso. Pretenzioso fino allo sfinimento. Per lui erano tutte partite di finali da cui dipendeva la sua vita, più o meno. A volte era obiettivamente stressante stargli al fianco.

 

Era solo una stupidissima partita di benvenuto! Stavano *giocando*! Si divertivano, ridevano, ed erano concentrati come dei ragazzini con di fronte i compiti delle vacanze e fuori una spiaggia piena di propri coetanei che chiamavano a gran voce.

 

Mark come al solito non giocava.

 

In compenso, o aveva imparato a fare i miracoli con la palla, o era migliorato più di quanto chiunque di loro avesse mai immaginato si potesse fare.

 

Danny credeva la seconda.

 

La panchina non riusciva a parlare d’altro.

 

Tom ne era assolutamente entusiasta: “Ma hai visto come gioca?! E’ strepitoso! E pensa che fino a ieri ero preoccupatissimo per Holly.. bhè, anche se non potesse giocare da subito, per le prime partite possiamo contare tranquillamente su Lenders, no?”

 

“Già, sempre che abbia perso il suo brutto vizio di massacrare le gambe dei suoi avversari, passandogli sopra *apposta*. Saprebbe farsi espellere nell’arco di due minuti anche con un arbitro cieco. E se abbiamo Holly rotto e Mark fuori..”

 

“Seeee! Figurati se quel carrarmato ha perso i suoi brutti vizi! Guardalo! Cazzo, ma guardalo! – Bruce si sbracciò sporgendosi verso il campo -  Hei Lenders! Stai attento che se perdiamo anche Philip siamo nei casini! Sono tuoi compagni di squadra quelli!”

 

Ross sospirò sedendosi a braccia incrociate.

 

“Non avrei mai immaginato che Lenders potesse avere classe.”

 

“Classe? E’ solo un colpo di fortuna!”

 

“Certo che quando corre nessuno riesce a stargli dietro..”

 

“Ha le gambe che sembra un trampoliere, ovvio che corre!”

 

Danny si sedette accanto a Ed, appena arrivato alla panchina. Si lasciò cadere seduto guardandosi intorno.

 

“Cazzo!”

 

Danny si trovò a sorridere. “Appunto.”

 

Si scambiarono uno sguardo pieno di troppe cose poi Ed sospirò e Ross gli si sedette accanto.

 

“Lo sapevi?” con un cenno del capo indicò Mark che continuava a correre con la palla fra i piedi, incurante di tutto il resto.

 

“Sapevo che fosse migliorato. – Ed si infilò i guanti con uno strattone secco– Danny qui m’ha tenuto al corrente di qualunque suo miglioramento. Sai che lui è sempre stato un fanatico! – un sorriso sghembo, Danny si sentì arrossire fino alla punta dei capelli – Però devo ammettere che la tv non rende.”

 

“Decisamente.”

 

Danny osservò Ed prendere il suo posto fra i pali, urlare qualcosa. Qualcuno rise. Mark stesso si fermò, i pugni nei fianchi. Una nuova risata.

 

“Allora avete già deciso la formazione da far scendere in campo?”

 

Ross respirò fra i denti serrati.

 

“Questo – indicò il campo di erba verde di fronte a loro – non cambia molto, come puoi ben immaginare. Anche con Hutton in forma Mark non è certo uno di quelli che possiamo tenere in panchina. Nessuno sarebbe così scemo da sprecare una possibilità come lui facendolo riposare.”

 

“Ma?”

 

Ross socchiuse gli occhi.

 

“Ma è sicuramente una bella sorpresa. Mark è sempre stato strepitoso, ma tu sai meglio di me com’era il suo stile: forte, irruento. Violento quasi. Non so come abbiano potuto, ma gli hanno insegnato uno stile quasi pulito. Questo vuol dire che, se volesse, potrebbe lasciare tutti di stucco.”

 

Danny si ritrovò a ridere.

 

“Ci *sta* lasciando tutti di stucco, mi pare! – scosse il capo – Poi è un professionista, sai quanto lo pagano? Ho sempre pensato che lo giudicassimo spesso troppo poco. Non è uno stupido, e ha sempre avuto classe da vendere. Aveva solo bisogno trovare qualcuno che gli insegnasse come esprimere se stesso al meglio. Hanno fatto un ottimo lavoro.”

 

“Incredibile.”

 

Danny annuì.

 

“Notizie di Hutton?”

 

“Pare che l’infortunio sia peggio di quel che speravo. Se saremo fortunati potrà giocare un paio di partite. – storse le labbra – Ma arriverà comunque nel giro di una settimana. Rimane lui il capitano.”

 

Danny scosse il capo ma non disse nulla: lo sapeva, da sempre. Era come preferire Price a Warner. Oh, certo, se Holly non poteva scendere in campo, durante quelle partite la fascia di capitano sarebbe stata di Mark, ma il capitano ufficiale sarebbe rimasto Hutton. Sapeva che non poteva chiamarla un’ingiustizia in quanto decisioni di quel tipo erano normale amministrazione per tutti gli allenatori del mondo: era un modo per indicare chiaramente la ‘politica’ di una squadra, e di certo il savoir fair di Hutton era una moneta migliore che la forza ruvida di Lenders, però..

 

“Per fortuna non lo terrete fuori.”

 

Ross lo guardò, accorgendosi che gli era scappato dalle labbra contro la sua volontà. E sorrise, gentile.

 

“Per fortuna non è come coi portieri che possiamo metterne in campo uno solo!”

 

Danny annuì, sorridendo.

 

“A proposito di portieri, e Price? S’è perso in Germania?”

 

“No, dovrebbe arrivare oggi pomeriggio in aeroporto.”

 

“Devo litigare di nuovo perché Warner giochi?”

 

“Non credo. Sembra una maledizione! – Ross ringhiò – Sai che quello stupido s’è rotto una spalla? Warner sarà dentro da subito.”

 

Non avrebbe dovuto, ma Danny si trovò a sorridere soddisfatto.

 

___

 

#A tredici anni non si aveva paura di nulla.

 

Nonostante avesse sempre dovuto lottare e faticare quello che voleva agguantare. Nonostante avesse dedicato ore, giorni, anni della sua vita per il calcio. Per diventare quello che era ora. Nonostante tutto, a quell’età lo sforzarsi era .. leggero.

 

Si ricordava quando passava interi pomeriggi sul campo di calcio di famiglia a sudare, a migliorare, al posto di studiare, o di stare a giocare coi suoi amici. Lui si allenava da solo. Lui non aveva né voleva avere qualcuno intorno. Eppure il futuro era luminoso. Sentiva una forza adamantina dentro, si sapeva forte e non aveva bisogno di nessun altro per esserlo.

 

Ora lo sapeva: bravo e irremovibile, terribile e unico. E non solo per quello che lo pagavano. Non solo per il codazzo di fotografi, per una vita assediata di curiosi, per le belle macchine, le modelle che si portava a letto e le meraviglie che si poteva permettere, no. Lui si era sempre potuto permettere tutto quello che voleva ma celebrità era qualcosa che s’era costruita lui proprio perché essa non era lì a un passo, pronta ad essere colta. Era un testardo giovane ricco che era divenuto un indomita perla di bravura eccelsa.

 

Era diventato quello che sapeva già di essere, ma che aveva dovuto dimostrare. Però, ora, non sempre l’alba dell’indomani pareva limpida e chiarissima. C’erano mille domande, molte cose confuse che non trovavano risposta, e quello che si aveva ottenuto non bastava mai, bisognava lottare per riconquistarlo.. una conquista eterna che andava ribadita ogni respiro. Il suo stesso corpo, ora, a volte, reagiva come, forse, non avrebbe dovuto fare.

 

Ma era piacevole.. dannatamente piacevole. Un ghigno gli increspò le labbra: la lotta eterna, senza riposo, era un’idea che lo faceva sentire ‘a posto’, come se fosse giusto che tutto quello che possedeva fosse instabile come una manica a vento. Aveva troppo. Un uomo solo non avrebbe dovuto avere così tanto.

 

Un uomo solo.. socchiuse gli occhi.

 

Un uomo.. era terribilmente piacevole sciogliersi in quell’abbraccio forte.. non che lui fosse l’unico che condivideva il suo letto, però..

 

Quando era stato un ragazzino non aveva sentito mai quel peso dentro. Forse non era abbastanza maturo, anche se tutti l’avevano sempre considerato un bambino savio, attento, educato.. era sempre stato di poche parole, perché non servivano le parole per esprimere quello che gli importava.

 

La voglia di primeggiare che gli bruciava l’anima.

 

Il desiderio di essere il migliore.

 

*Era* il migliore.

 

Si ritrovò a sorridere apertamente.

 

La stanza era avvolta nella penombra ma essa sarebbe stata rotta presto: s’erano dimenticati di tirare le tende pesanti, la notte prima. Il cielo si stava schiarendo appena. Se avesse alzato gli occhi sulla sveglia avrebbe visto le lancette segnare le cinque, più o meno, ovviamente se avesse avuto un senso lasciar vagare lo sguardo su qualcosa che non fosse la forma nuda che gli giaceva al fianco..

 

Non riusciva a smettere di sorridere, nel silenzio che li avvolgeva: quando aveva tredici anni non avrebbe mai immaginato di trovarsi, un giorno, in un albergo ad Amburgo, dopo una partita di Champions League in cui la sua squadra non aveva vinto, dopo una notte passata con *lui*..

 

Che schiena meravigliosa.

 

La colonna vertebrale si muoveva sinuosa a tempo del respiro. Sembrava il dorso di una statua, o di un modello pagato per stare immobile lì, per ore, sotto lo sguardo attento di un artista. Era stanco, lo erano entrambi, a dire il vero, ma erano entrambi atleti, e avevano modi differenti per scaricare la tensione. E la fatica poteva essere cancellata con una manciata di ore di sonno. Quelle che avevano dormito.

 

La sua pelle era morbida e abbronzata, più di quanto fosse mai stato: appoggiò la mano sulla conca lombare, perfetta e ben definita dai muscoli. I mensili scandalistici avevano scritto che, durante l’ultima trasferta della sua squadra in Grecia per chissà che partita amichevole, si era preso dieci giorni di ferie, passate su un’isola dell’Egeo. I risultati si vedevano.

 

Addosso e in campo.

 

Era splendido.

 

Lo chiamavano la tigre, ma gli bastò premere un po’ di più i polpastrelli sulla sua pelle, perché si spalancassero quegli occhi neri e profondi come pozzi verso il centro del mondo, con un movimento rapido. Non aveva nulla della morbidezza fluida, l’ancheggiare languido di un grosso felino che ronfasse tranquillo, ma era sempre aggressivo e rapido, veloce e nervoso.

 

Non riusciva a trovare qualcosa a cui paragonarlo. Quegli occhi scuri brillarono pericolosi nella semi oscurità, le sue belle labbra si arricciarono, ma non gli sfuggì neppure un sospiro differente dagli altri.

 

Mark lo fissò a lungo, in silenzio.

 

Benjamin si tese al suo fianco sollevandosi appena, puntellandosi su un gomito.

 

Due dita a seguire la curva della sua schiena e sentì un tremito percorrergli la pelle. Si leccò le labbra, chinandosi verso di lui. Con la lingua tracciò leggeri arabeschi, assaporando quel sapore amaro, di muschio e sandalo, con uno strano sottofondo di orchidea.. di orchidea era l’aroma del suo proprio bagnoschiuma.

 

Rise di nuovo facendolo tendere dal lieve solletico e si sentì eccitato. Di nuovo.

 

Mark era bello e attraente, così oscuro, così perfetto, e duro: muscoli tesi e uno sguardo che sapeva spezzare in due un cuore.

 

Oscuro perché incomprensibile.

 

Perfetto perché di lui non sapeva nulla, mai una parola di troppo, mai uno sguardo che si potesse decifrare con semplicità.

 

Quando erano entrambi bimbi non esistevano certi pensieri, non esistevano certe .. tensioni. E non esisteva, neppure, l’immagine di certi piaceri.

 

Affondò delicatamente i denti in quella pelle: gli piaceva, un ottimo sapore. Il suo fiato si faceva denso su quella schiena scura, ed era eccitante pensare che la loro era una vita piena di sfide.

 

Che la loro era *sempre* una sfida. Anche ora. Anche .. sempre.

 

Gli morse una spalla con forza.

 

Mark ringhiò voltandosi di scatto. Intrecciò le sue gambe con quelle di Benji e, con un colpo secco di reni, invertì le posizioni.

 

Lo fissò e gli sorrise asciutto, di sbieco.

 

Benji affondò le dita in quei capelli neri e lunghi, fatti crescere in anni di pazienza e li trovò magnifici e setosi, come sempre.

 

Quelle gambe lunghe erano forti, contro le sue, e sembrava incredibile che un ragazzo giapponese fosse così *alto*. Eppure era più alto pure di Benji che aveva, nei rami collaterali della sua famiglia, un gran numero di stranieri.

 

Forse non solo per quelle gambe, ma anche per quelle, Mark aveva vinto contro la squadra di Benji. Tre goal che gli aveva sbattuto dentro con classe e forza.

 

Avrebbe dovuto odiarlo, ma non ci era mai riuscito. Ad odiarlo *davvero*.

 

Si erano sfidati, avevano ‘combattuto’ l’uno contro l’altro, l’egocentrismo di uno contro l’adamantina arroganza dell’altro.  Si erano provocati, avevano dato tutto di se stessi per prevalere sull’altro, sempre, in ogni istante, con ogni espiro. E guardarsi di fronte in un campo di calcio era come, quasi, guardarsi in uno specchio.

 

Ora entrambi in Europa.

 

Ora entrambi in squadre eccellenti.

 

Ora, ancora, avversari.

 

Sul campo.

 

Adorava la sua pelle, il suo corpo. Il suo sguardo.

 

Le sue labbra.

 

E i suoi sorrisi pallidi e terribili.

 

“Quanti gol t’ho infilato oggi?” Benji rise.

 

“Quanti te ne ho infilato io?”

 

Un ringhio soffocato in uno sbuffo poi braccia a cercare le braccia, e con forza stringersi, avvolgersi l’uno addosso all’altro.

 

“Come sei diventato volgare, Lenders!”

 

Benji rise.

 

“Non sono io il bambolotto ipereducattissimo, Price. Non sono mai stato a mio agio nei panni del principe azzurro.”

 

“Lo so. – rise, sussurrandogli sulle labbra con una lussuria velata – E’ per questo che mi piaci.”

 

Mark sollevò appena un sopraciglio ma accettò il bacio, con passione e fuoco.

 

Benji adorava quel fuoco. Beveva quel fuoco, si nutriva di esso: e si sentiva quel fuoco ardergli appena sotto la scorza della pelle. Ed anche se sapeva, sapevano entrambi, che quello non era null’altro che desiderio, piacere condiviso e forse un modo tortuoso per .. riconoscersi e continuare la loro personalissima battaglia, ecco, in quel momento tutto quello non aveva alcuna importanza. Anzi.

 

Andava più che bene. Era per quello che voleva Mark. Era per quello che, quando si guardavano in un determinato modo, dai lati opposti di un campo di calcio, bastava quello per sapere dove avrebbero dormito quella notte. Era per quello: perché non c’era niente più che loro stessi.

 

Di persone che avrebbero voluto infilarsi sotto le loro lenzuola ce n’erano a dozzine, avrebbero entrambi potuto scegliere, ogni istante, un partner diverso. Però c’erano sempre pretese, nel fondo di quegli occhi, c’era una sensazione di pretesa malcelata, c’era desiderio come di avere qualcosa in cambio perché a stare con un calciatore così famoso si *doveva* ottenere qualcosa.. non che a Benji desse particolarmente fastidio, a volte, essere trattato come una cosa, come un campione e non come una persona, ma c’erano momenti, come quelli, in cui il desiderio di affogare non poteva avere gli argini di pretese e sogni altrui. In cui aveva bisogno di sentirsi al centro, lui, e lui solo, del piacere.

 

E con Mark c’era questo: tra pari si guardavano e si trovavano. Traevano piacere l’uno dall’altro durante le parentesi fragili che riuscivano a ritagliare dalle loro esistenze e null’altro. Non il passato, non il futuro. Battute sulle partite appena giocate, poche frasi, nessun pensieri su quello che sarebbe venuto dopo, il giorno successivo, o il pomeriggio stesso.

 

Nessun problema se il telegiornale della sera diceva che Benji stava per sposarsi con una modella americana di colore che si metteva a fare scenate durante ogni sfilata perché il portiere si faceva vedere in giro sempre con una tipa diversa. E a volte erano le stesse tipe che si faceva Mark.

 

Nessun problema se i rotocalchi erano piene di starlette che giuravano un flirt con la tigre d’oriente che le aveva sedotte ed abbandonate senza pietà. Ed a volte erano le stesse persone con cui usciva Benji. 

 

Nessuna gelosia. Nessuna domanda. Era solo andare a letto, il loro. Era .. essere vicini. Essere.. amici, quasi. In un certo modo. Non tanti avrebbero compreso, forse nessuno, visto che neppure loro due davvero riuscivano a capire cosa li univa. Erano lì, l’uno per l’altro, un fine settimana al mese, più o meno, nel frattempo che le loro squadre si incontravano in partite di lega.. Nient’altro.

 

Punto.

 

Basta.

 

Benji si lasciò passare una mano fra i capelli tenuti corti, sussurrando appena a quel contatto. Uno sguardo scintillante e divertito fu scambiato fra di loro ma non c’era tempo per altro.

 

L’abbraccio divenne forte, i loro corpi si unirono, intrecciandosi nel letto, avvinghiandosi fra le lenzuola, per far in modo che più pelle possibile fosse in contatto con la pelle dell’altro. Toccarsi, sfregarsi, tenersi, stringersi.

 

I loro bacini si strinsero, le loro eccitazioni bollenti si sfregarono. Mani veloci a toccare, sfregare, stringere. Non c’era alcun desiderio, né la forza semplice, di possedersi davvero, così rimasero entrambi, fianco a fianco, le mani addosso all’altro, cercando di strappare alle labbra altrui sussurri e gemiti, dando ed ottenendo piacere, strappando seme e singhiozzi dal proprio avversario.

 

In quegli occhi si rifletteva il rivale di una vita, ed era così per entrambi. Entrambi non riuscirono a soffocare il sorriso che increspò le labbra, nessuno dei due riuscì a cancellare il piacere. L’orgasmo come una scudisciata che dai lombi si spandeva in ogni frazione del loro corpo.

 

Era un buon modo per festeggiare una partita terminata. Per quella volta, come spesso accadeva tra di loro, cosa fosse accaduto sul campo aveva poca importanza.

 

Quando erano bambini, ed entrambi già avversari, non avrebbero mai potuto immaginare.. quello. Ma era un bel pensiero. Era una bellissima sensazione.

 

Mark lasciò andare, dalle labbra, un sussurro profondo. Il segno suo peculiare di essere giunto all’orgasmo. Benji non riusciva a vedere con chiarezza ciò che lo circondava. Solo il calore, e le mani di Mark addosso che si strinsero in un abbraccio, traendolo vicino, tenendolo accanto.

 

Benji non si domandò nulla, si limitò a chiudere gli occhi perché, in fondo, cosa mai si poteva cercare di più o di diverso?#