NOTE: I pg non mi appartengono e li uso
senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del
cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa!
#flashbach#
La Tigre
parte III
di Dhely
# Il tiepido calore delle lenzuola, unito al
tocco di qualcuno, addosso.
Mark non si tese, mosse appena il capo di lato
socchiudendo le palpebre. I suoi fratelli gli stavano sempre addosso quando
dormivano, era abituato a svegliarsi con loro tra i piedi. Ma la sveglia non
era ancora suonata, e quello era un piccolo miracolo per lui. Adorava
svegliarsi in quel modo, lentamente, scivolando fuori dal nebbioso confine
del sonno come se non avesse nulla che lo chiamasse a gran voce, come se
avesse potuto semplicemente rimanere lì, steso, senza fare null’altro se non
godersi quelle sensazioni piacevoli. Era sempre qualcosa che gli capitava
ormai troppo di rado, però … trattenne il fiato sibilando una maledizione
quando una fitta gli trapassò un polpaccio. Poi un’altra spina ghiacciata
nella schiena, un brivido.
Cazzo!
Lui non era mai stato male! Non si ricordava
di aver saltato un solo giorno di scuola, o di lavoro, tantomeno di
allenamenti per una cosa idiota come… e poi, il corpo al suo fianco, era
*uno* e grande … e si ricordò della pioggia, della bicicletta, della caduta.
Chi?
Spalancò lo sguardo su uno sguardo.
“Chi cazzo sei?!”
“Bensvegliato Lenders! – l’altro sorrise,
aveva una voce che a Mark ricordava qualcosa anche se non riusciva a capire
cosa. Sentì una mano posarsi sulla sua fronte. – Vedo che l’educazione è una
delle tue doti.”
Mark aggrottò la fronte. Conosceva quella
voce, anche se non riusciva a riconoscerla e nel buio il volto era
nient’altro che una macchia più scura di tutto il resto, ma se avesse avuto
il nome avrebbe potuto cercare di capire tutto quel casino in cui era
precipitato.
Un nome.
Quel nome.
L’accento, il tono. Il sarcasmo dietro a ogni
sillaba. Ma sì, era … Warner, il portiere! Quello che una settimana prima
era venuto nel loro campo a far vedere a tutti com’era bravo per poi
lasciarli lì con un palmo di naso. Quello che lui aveva deciso sarebbe
diventato il loro portiere.
“Warner, che ci faccio qui?”
La sua voce roca gli graffiava la gola, ma non
vi fece caso. Aveva sete.
“Sei svenuto lungo tirato di fronte alla porta
di casa mia. Fortuna che me ne sono accorto se no eri ancora là sotto la
pioggia.”
Allargò le dita premendo un poco contro il
materasso e fece per mettersi seduto. La testa prese a girare come una
trottola.
“Devo chiamare…”
“Ho già chiamato il tuo datore di lavoro,
c’era il numero di telefono sulla bici e mi ha detto di non preoccuparti. Ti
aspetta dopodomani. “
Mark sollevò il viso verso di lui cercando di
fargli credere che riuscisse almeno a mettere a fuoco quello che aveva di
fronte agli occhi.
“La mia …”
“Ho chiamato tua madre, ho detto che sei stato
male e che eri rimasto a casa mia. E sono a casa da solo, se ci fosse stato
mio padre ti avrebbe accompagnato a casa in macchina, ma così non mi
sembrava proprio il caso di farti bagnare. E’ stata molto gentile, sembrava
preoccupatissima sia per te che per il disturbo che avresti potuto darmi. Tu
non hai preso da lei, pare.”
Prese un respiro profondo e cercò di muoversi.
Il capogiro fu più forte, tanto che dovette chiudere gli occhi. Un gomito
gli cedette e delle mani lo sostennero prima che si accasciasse senza grazia
sul materasso.
“Che ci faccio qui?”
“Te l’ho detto…”
“*Qui* intendo in questo letto!” Sembrava
arrabbiato, o allarmato, Ed non seppe dirlo.
“Questo è il *mio* letto, prego. Ho chiamato
pure il medico, se ti interessa saperlo, perché avevi la febbre altissima.
Mi ha dato delle medicine e ha detto che devi riposarti e stare al caldo.
Non potevo farti dormire sul divano così come non avevo alcuna voglia di
dormire *io* sul divano, e il mio letto è abbastanza grande per tutti e due.
Tutto qui.”
Lo aiutò a rimettersi giù coprendolo di nuovo.
“Tutto qui?! – gli sembrava tutta una farsa. O
uno stupido scherzo. Lui che stava male per la strada e veniva salvato da
quell’idiota che quasi quasi era meglio se fosse stato quel demente di
Hutton . . – Credo che…”
“Stai male, Lenders, hai la febbre alta per
cui piantala di dire cazzate e cerca di dormire. Domattina starai di certo
meglio.”
“Domattina devo andare a lavorare! – ringhiò –
e poi ci sono la scuola e gli allenamenti, o voi karateki queste cose
triviali non le fate?!”
Ed sorrise.
“Domani è domenica, e non c’è scuola e non c’è
lavoro. E per una volta puoi anche evitare gli allenamenti. Devi guarire
prima, pensa che il medico voleva portarti in ospedale.”
“E perché dovevo andare in ospedale?! Per un
po’ di febbre!”
“Bhè, visto il tuo caratteraccio, in effetti
non c’è alcun motivo perché qualcuno si preoccupi per te, no?!”
Mark strinse con forza le lenzuola, fece per
rispondere ma la lingua gli si aggrovigliò. La stanchezza non se ne era
andata, aveva solo mutato forma: era come una scorza sottile ma dura che gli
premeva sui polmoni, sul costato, sulla fronte. Non l’avrebbe mai ammesso a
nessuno, neppure sotto tortura, ma non era certo che in quel momento sarebbe
riuscito a reggersi in piedi.
Chiuse gli occhi lasciando che i muscoli del
collo si distendessero contro il cuscino. Un lieve pulsare contro le tempie
era l’unico fastidio che percepiva, ed era l’unico fastidio che sarebbe
riuscito a sopportare. Almeno per un po’. Almeno per un paio di minuti in
cui si sarebbe riposato, avrebbe ripreso fiato per poi andarsene. Sì, prese
un respiro profondo, gli sarebbe bastato poco perché la stanchezza si
dissolvesse, almeno da lasciarlo in grado di camminare e allora se ne
sarebbe andato e sarebbe stato tutto a posto.
Non aveva bisogno che qualcuno si preoccupasse
per lui, figurarsi poi se si trattava di quello sconosciuto di Warner! Chi
diavolo gli aveva chiesto nulla? Chi lo conosceva?
Preoccuparsi… la preoccupazione era una cosa
di donnicciole, senza alcuna importanza. Lui non sapeva che farsene della
preoccupazione altrui… lui non …
Soffocò uno sbadiglio e le palpebre erano
sempre più pesanti. Ma non importava: solo pochi minuti e poi se ne sarebbe
andato. Oh sì, sarebbe tornato a casa… a casa…
Il buio divenne sempre più fitto nella notte
che era pregna solamente del ritmico ticchettio scrosciante della pioggia
che crollava dal cielo.
…
Quando riaprì gli occhi dalla finestra entrava
una luce grigia. Il monotono ticchettio delle gocce di pioggia era ancora
lì, sottofondo perenne, ma l’aria era più chiara e i rumori che provenivano
da fuori parlavano di una città desta, anche se lenta, come era normale
aspettarsi da una domenica.
Sbatté le palpebre puntellandosi sui gomiti.
Messosi seduto si guardò intorno: la stanza era enormemente grande per
essere di una persona sola, o almeno secondo i suoi canoni. Ma, a parte lui,
era vuota.
C’erano trofei polverosi su una mensola, un
paio di foto con Warner che ritirava premi in divisa da karate, la scrivania
ingombra di quaderni, libri, fogli, tutto in un disordine terribile, così
come i vestiti, ammucchiati in pile senza senso sul pavimento, qui e là. Il
resto, se c’era altro, Mark non lo vide.
Chiuse gli occhi rimettendosi coricato.
Ritornato padrone e pienamente consapevole del suo corpo ora Mark poteva
giudicare cosa fosse saggio pretendere e cosa no. E anche se, era vero, non
era mai stato malato, per quanto si ricordasse, sentiva che non avrebbe
potuto … no, balle! Era comodo quel materasso.
E poi: solitudine.
Finalmente un po’ di benedetta solitudine:
nessuno che ti dorma addosso, nessuno che ti giri tra i piedi, nessuno che
chieda, nessuno che urli, nessuno che chiami. Per un attimo, quell’attimo
che era fragile come un cristallo e altrettanto sottile, aveva solo il
piacere della trapunta tiepida da assaporare e il letto, la luce non
fastidiosa che entrava dalla finestra. Il silenzio. E la stanchezza che era
un piacere far sciogliere in quel tepore. E la mente che era una gioia
lasciare vagare in un universo in cui per una volta non c’era nulla di
improrogabile, di faticoso, di impositivo. Solo lui e la sua stanchezza.
Solo lui e quelle sensazioni senza voce.
Silenzio.
Niente rumori. Niente parole.
Niente…
“Hei, Lenders, stai meglio?!”
Mark spalancò gli occhi di scatto e si trovò a
fissare un Warner lievemente chino su di lui, in tuta e mani sui fianchi,
uno strano sorriso sul volto e i capelli lunghi, spettinati, che gli
ricadevano in avanti. Fastidiosa *fastidiosissima* creatura!
“Sono sopravvissuto, sembra. – non riuscì a
impedirsi una strana inflessione amara nella voce, ma che Warner la
interpretasse come più gli importava! Non erano affari suoi! Si mise
lentamente seduto e la testa non girava più, muovendosi verso il bordo del
letto. – Adesso me ne vado.”
“Dove vai?! – Warner era divertito – Piove
ancora e non …”
“Due gocce di pioggia non hanno mai ammazzato
nessuno!”
Un ringhio a cui Ed rispose con un sorriso.
“Ammazzare no, però possono far diventare
un’infreddatura una bella polmonite e poi vedrai se non ti sbattono in
ospedale! – gli occhi del suo ospite scintillavano davvero pericolosi,
dovette ammettere Ed. L’aveva visto in campo, comportarsi come un Capitano
severo e aggressivo, ma molte volte aveva avuto a che fare con persone che,
sul terreno agonistico si mostravano persone completamente diverse da quelle
che erano. Ora si ritrovava di fronte a un suo coetaneo che aveva la serietà
pedante di suo nonno quasi centenario e una forza interiore che sembrava uno
tsunami. Impressionante. In più, possedeva un corpo da bronzo di Riace.
*Decisamente* impressionante. Si trovò molto più divertito di quanto la
pericolosità istintiva di Mark gli avrebbe forse dovuto permettere – E poi
vuoi uscire *nudo*?!”
Mark abbassò di scatto lo sguardo, e come
poteva non essersene accorto non lo sapeva neppure lui! Non riuscì a
impedirsi di arrossire affondando le unghie nella stoffa delle lenzuola.
“Dove sono i miei vestiti?”
“Ad asciugare. Ieri sera eri fradicio: ma
quanto tempo sei stato a prendere la pioggia?”
Mark ringhiò.
“Il tempo che mi serviva! E ora dammi qualcosa
da mettermi addosso!”
“E perché? – Warner stupì se stesso, sedendosi
pacato sulla sponda del letto – Non sei così brutto da doverti coprire a
tutti i costi. Anzi.”
Mark Lenders. La tigre. Il più devastante
cannoniere del campionato giovanile, il più impossibile arrogante di tutto
il comprensorio scolastico, il più terrorizzante egocentrico fissato con il
calcio che generazioni di insegnanti avessero mai visto rimase… interdetto.
E arrossì.
Mark Lenders che arrossiva: Ed Warner non se
ne compiacque quanto avrebbe potuto viso che non sapeva che era praticamente
impossibile imbarazzare il Capitano della Toho. O che, per lo meno, nessuno
c’era mai riuscito. Fin’ora.
Mark ringhiò di nuovo e i suoi occhi, ora,
ardevano d’una rabbia che anche un cieco avrebbe potuto notare: era una
fiamma perenne e intimidente. Di solito respingeva le persone col solo
riverbero di quello sguardo.
“Piantala di dire stronzate! Anche se da uno
che, per gioco, voleva fare il portiere non posso aspettarmi molto…”
Acido corrosivo. E artigli infilati nella
carne. Ed sussultò.
“Bhè, che c’è di male a fare il portiere?”
“Nulla. – Mark sogghignò – Sta di fatto che i
portieri non sono troppo a posto, sei solo l’estrema dimostrazione di quello
che ho sempre pensato.”
“Che idiota!”
“E tu sei una testa di cazzo, Warner, e per
due motivi. – rinacque il Capitano della Toho: anche nudo come un verme
quegli abiti gli erano cuciti addosso, quel ruolo era suo, come se fosse
stata una seconda pelle. – Primo: perché hai ‘giocato’ a fare il portiere.
Si gioca a fare il centrocampista, l’attaccante, l’ala al massimo, ma *mai*
il portiere. Secondo: sei *fottutamente* bravo a fare il portiere e si
vedeva pure che ti piace. Non puoi mollare così.”
Silenzio.
Avvolgente. Incredulo. Lì, di fronte a lui, un
perfetto sconosciuto l’aveva visto muoversi su un campo da calcio per dieci
minuti e aveva visto, aveva scoperto … tutto quello che Ed non avrebbe mai
voluto esistesse.
“Cosa cazzo ne sai?!”
“Riconosco la passione quando la vedo. E la
stoffa anche.”
“Da quando ti intendi di portieri idioti?”
“Ho fatto gol al miglior portiere del
Giappone, io. So come deve essere un portiere per essere bravo. So cosa gli
deve bruciare dentro.”
Warner aprì la bocca per replicare ma non
trovò nulla di intelligente.
“Sei un coglione.”
Mark sorrise.
“Vieni agli allenamenti: ti chiedo una
settimana, una settimana sola e poi potrai andartene se vuoi. Ma per una
settimana dovrai fare come se fossi il nostro portiere.”
“E tu che ci guadagni?”
Mosse appena la testa di lato. Chissà perché
il desiderio di prenderlo a botte, quel coglione, era svanito, e l’imbarazzo
di essere nudo nel suo letto … oh bhè, faceva la doccia *nudo* con i suoi
compagni di squadra tutti i giorni, non era poi così pudico come le sue
reazioni iniziali potevano far supporre. Sinceramente delle tendenze di
Warner non gliene fregava un accidente: la Toho aveva bisogno di un buon
portiere, e Warner avrebbe potuto diventarne uno *ottimo* se solo si fosse
messo d’impegno.
“Ci guadagno sempre, io. – sorrise appena – Ti
basterà sentire appena il sapore del calcio e non potrai farne a meno. Anche
se vuoi fare il portiere.”
“E’ una scommessa?!”
“Non scommetto mai, è una cosa futile. E’ una
sfida, Warner. Se avrò ragione io starai con noi. Prometto che ti aiuterò ad
uscire da qualunque contratto, legame, promessa tu possa aver contratto con
quelli di karatè e che diventerai uno dei migliori portieri del Giappone. Se
invece, avrò torto, te ne potrai andare e non ti infastidirò più.”
Warner fissò quello strano ragazzo e non
riuscì a capire del tutto quello che era successo: era febbricitante, nudo,
l’aveva raccolto per strada come se fosse stato un barbone, con un gesto di
estrema magnanimità l’aveva accolto e curato, e ora gli faceva quella
proposta? Se non fosse stato più che certo che Mark, la notte prima, stava
davvero male, avrebbe quasi potuto pensare che fosse tutta una messinscena.
Era strano: la proposta era … allettante.
Troppo allettante per essere fatta da uno che non conosceva un accidente di
lui, della sua vita, delle sua aspirazioni…
“Sono un campione di karatè, cosa ti fa
credere che cambierò idea in una sola settimana?”
“Tu hai *già* cambiato idea, Warner, solo che
non lo vuoi accettare. O non lo sai come dire alle persone che tifano per
te.”
Ed, istintivamente, furioso e ferito, sollevò
una mano e fece per colpirlo. Offeso da quello che aveva detto, da quello
che aveva pensato.
Non lo colpì per lo sguardo in quegli occhi
scuri: braci ardenti. Disarmante verità, senza compromessi, decisione
nell’andare a segno, forza nel sopportarne le conseguenze. In breve:
testardaggine, arroganza, forza. Un miscuglio insopportabile.
Eppure Mark non aveva fatto il minimo gesto di
fermare il colpo o di spostarsi dalla sua traiettoria. Ed seppe, in quell’istante,
che se l’avesse colpito Mark avrebbe reagito anche se sapeva che lui era un
campione di karatè.
Come poteva essere così matto?
Come poteva essere così…
“Perché no? Mi piacciono le sfide che sono
destinato a vincere.”
“Bene. Ora puoi darmi dei vestiti?”
“Non puoi andare a casa!”
“Anche solo per alzarmi ed andare in bagno non
sarebbe male!”
Ed rise.
…
Era tornato il medico, e l’aveva visitato.
Era venuta la madre di Lenders, preoccupata
per il figlio e per il disturbo che stava arrecando.
L’avevano dovuto obbligare a prendere le
medicine perché Mark era convinto che quelle cose gli facessero più male che
bene e sua madre era stata costretta ad acconsentire che stesse lì, almeno
un’altra notte, finché non fossero di ritorno il signor e la signora Warner,
che avrebbero potuto accompagnarlo a casa in macchina perché aveva davvero
la febbre troppo alta.
Ed sorrise.
Si sentiva uno stupido, cos’aveva poi da
sorridere? Mark era… insopportabile!
Però aveva ragione: con la febbre alta parlava
e riusciva ad essere lucido, sotto antibiotici, come era ora, invece, non
riusciva a stare sveglio e il suo sguardo, quando si apriva, lentamente, era
lucido, spiritato quasi.
Ed non era certo che Mark fosse realmente
consapevole di dove fosse, o ricordasse cosa era successo. Era un peccato:
quel ragazzo era strano. Pareva sempre assolutamente chiuso nel suo mondo,
obblighi e pallone e una vita così lontana da quella degli altri suoi
coetanei che doveva avere più cose da dire a un marziano che non a un suo
compagno di scuola, e invece aveva uno sguardo acuto e una sensibilità
aperta sul mondo.
Incredibile: parlava. Ancor più incredibile:
l’aveva incastrato per bene con una sfida idiota che Ed sapeva non avrebbe
mai potuto vincere.
Gli piaceva il calcio più di quanto avrebbe
mai potuto ammettere con chiunque, e, fino a quel momento era stato certo
che il suo segreto sarebbe stato al sicuro chiuso nella sua mente, nel suo
cuore. Come avesse fatto non lo sapeva, però Mark, invece, l’aveva intuito.
E l’aveva colpito proprio lì.
Ed sospirò voltandosi verso di lui. La sua
schiena era lì vicina, allungò la mano e la sentì dura di muscoli. Se
qualcuno aveva mai affermato che il calcio era uno sport non adatto ai
ragazzini perché rischiava di sviluppare eccessivamente solo una parte di
muscolatura, lasciando da parte l’armonizzazione della parte superiore del
corpo, bhè, non aveva mai visto Mark.
Sembrava in tutto e per tutto uno sportivo
completo. La schiena, le spalle, il petto. Tutto in lui denotava una forza
che non era facile associare ad un ragazzino. Eppure i suoi tiri erano
devastanti e i suoi stessi movimenti trasudavano un’energia difficile da
spiegare ma incantevole.
Non era certo che fosse adatto utilizzare il
termine ‘incantevole’ per Mark, però…
C’era la sua maglietta a coprirgli le spalle,
la schiena. Sotto le dita scivolò il cotone, lentamente, fino a che i
polpastrelli raggiunsero la spalla, l’avambraccio. L’orlo delle manica della
tshirt.
Ed prese un respiro prima di toccare quella
pelle che se l’aspettava così calda, e così tesa, sì, ma non così *morbida*.
Eppure lo era: morbida e invitante. Era scuro,
lo sapeva, sembrava portare addosso ancora segni dell’abbronzatura estiva, e
la sua carnagione era color cappuccino che, con quella consistenza, veniva
solo voglia di assaggiarla…
Chissà come avrebbe reagito Mark se avesse
saputo… o, almeno, se fosse stato sveglio? Male, di sicuro. Non sembrava un
tipo molto tollerante, a dire il vero.
Seguì lentamente il contorno del muscolo, poi
ritornò su: aveva delle belle spalle, che era un piacere toccare, impastare,
sarebbe stato bello massaggiarlo e… Ed schioccò le labbra puntellandosi su
un gomito.
Gli passò la mano sul petto per poi salire sul
collo. Allargò le dita a ventaglio, sfiorandogli il mento, seguendo i
contorni del suo viso. Era bello, di una avvenenza selvatica, ruvida.
Si leccò le labbra.
Peccato che dormiva.
Era proprio carino. Sembrava… indifeso e la
cosa suscitava uno strano contrasto con il ricordo che aveva di lui.
Mark era infastidito, si vedeva, aggrottava
appena la fronte, ma non si muoveva. Aveva molti fratelli, gli aveva detto
sua madre, doveva essere abituato a dormire con loro.
Che dolce.
Ed sorrise.
Gli morse appena il lobo dell’orecchio, tanto
per sapere che gusto avesse.
Non si stupì a trovarlo buono.
Profumava di pioggia, ovviamente, e sapeva di…
di … non trovò un paragone azzeccato e smise di cercarlo.
Una piccola leccata sul collo. Lo vide
rabbrividire, muovendosi appena, borbottando qualcosa fra i denti.
Non si mosse.
Dannazione!
Non è che si poteva voltare?!
Gli afferrò una spalla, obbligandolo a girarsi
verso di lui.
Mark socchiuse appena un occhio, sbuffando.
Disse qualcosa di roco, incomprensibile. Ed non lo fece finire, qualunque
cosa avesse da dire poteva aspettare.
Posò le labbra su quelle di lui.
Immobile.
E attese.
Attese che Mark se ne accorgesse.
Attese che Mark facesse qualcosa. Qualsiasi
cosa.
Che si tirasse indietro. O che rispondesse al
bacio.
Qualcosa, insomma.
Niente.
Ed si rabbuiò, staccandosi da lui. Lo vide
fissarlo e si sentì a disagio di fronte al suo subire in silenzio, di fronte
al suo non reagire, al suo non dire niente.
“Bhè, che hai da guardare?!”
Mark chiuse gli occhi e un fantasma di un
sorriso gli piegò le labbra. Ed non l’aveva ancora visto sorridere in quel
modo.
“Sei proprio scemo. – sussurrò – Sei un
maschio,Warner, e i maschi baciano le femmine non lo sai?”
Uno sbadiglio, poi Mark parve affondare ancor
di più sotto le coperte.
Ed rimase interdetto. Sbuffò mettendosi
supino, acido.
“Sono un portiere idiota, no? Che pretendevi?”
Mark non rispose. Ed non sapeva se stava
dormendo o era solo una scusa per non rispondere. Ma se era un coglione non
ci poteva far nulla!
Gli voltò la schiena, sicurissimo che quella
notte l’avrebbe passata di sicuro in bianco.
Dopo un attimo dormivano entrambi.
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