NOTE: I pg non mi appartengono e li uso
senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del
cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa!
#flashbach#
CREDITS:
‘Marlene’ esiste, anche se non si chiama Marlene! Fidatevi!!!
La Tigre
parte II
di Dhely
Danny non disse nulla per tutto il viaggio.
Troppo assorto nei suoi pensieri o nella contemplazione, o entrambe le
cose.
La macchina di Ed era la solita confusione
inenarrabile, con riviste, magliette abbandonate sui sedili, bottigliette
d’acqua mezze vuote, uno stradario sgualcito, occhiali da sole dimenticati
da chissà quale estate, che aveva imparato a conoscere. Mark invece rimase
un po’ interdetto: bisognava capirlo. Quando se n’era andato, con il primo
ingaggio serio stretto in un pugno, nessuno dei due aveva ancora preso al
patente, tanto meno l’idea di comprare una macchina era in cima alla
classifica delle ‘cose più urgenti da fare’.
Ora invece...
“Cos’è questo ferro vecchio?”
Ed scosse appena la testa con un fare di
sufficienza estrema sistemando lo specchietto retrovisore. Ovviamente lo
specchietto era già perfettamente sistemato, se avesse dovuto servirgli per
guardare le macchine che avrebbero potuto essere dietro. Ma la sua
attenzione girava intorno ad altro, ora, e allora dovette metterlo a posto
per inquadrare lo sguardo di Mark, a metà fra il divertito e il disgustato,
seduto comodo sul sedile posteriore mentre con un piede spostava chissà
cosa, ficcandolo con cura sotto il sedile di Ed.
“Questa è Marlene, non un ferro vecchio,
ignorante!”
Fosse stato chiunque altro sarebbe stato
ucciso all’istante dal portiere anche solo per aver *pensato* una
cosa simile della sua adorata macchina. Mark poteva permetterselo: nessuno
dei due, né Ed né tantomeno Danny, riusciva ancora a non considerarlo, se
non addirittura chiamarlo, ‘Capitano’. Come se le loro vite non avessero
preso strade divergenti da troppo per potersi tenere stretti ancora a certi
appellativi.
“Marlene? Deve avere più o meno l’età di mia
nonna..”
“E allora sii cortese con le vecchie signore!.
– accese il motore che rombò rumorosamente, come solo le Wolkswagen vecchie
di cinquant’anni sapevano fare. Tossendo un po’, insomma. – Primo: ringrazia
il cielo che sono venuto a prenderti con lei al posto di farti fare la coda
di ore per aspettare un taxi mentre venivi assalito da torme di ragazzine
urlanti. Secondo: sei seduto su un gioiellino inestimabile e quindi sii
riconoscente. Terzo: è sempre una gioia notare che il tuo caratteraccio non
ha fatto che peggiorare col passare del tempo!”
Mark sbuffò quello che Danny riconobbe essere
un sorriso. Si voltò verso di lui e lo osservò un poco, le braccia aperte
appoggiate allo schienale, quasi steso, per quanto l’abitacolo permettesse,
le gambe aperte, la testa riversa all’indietro ad osservare, attraverso le
lenti nere, quello spicchio di cielo che doveva essere lì sopra di lui. O
forse stava solo pensando. O forse era solo stanco del viaggio. Forse.
Nonostante il suo temperamento, la sua assoluta mancanza di scrupoli,
chiunque aveva sempre fatto fatica a capire cosa passasse per la testa di
Mark in momenti come quelli in cui sembrava rilassato, e osava mostrarlo al
mondo.
“Sempre pensato che fossi un hippy mezzo
matto, Ed.”
“Mfh. Grazie del complimento! Vorrei proprio
vederla la tua di macchina! Chissà che patacca ti sei preso, già
m’immagino...neppure la metà della classe di Marlene!”
“Di sicuro!- e rise di nuovo. Mark era
terribilmente di ottimo umore. – Comunque non ce l’ho la macchina.”
Ed sibilò un accidente a un disgraziato che
gli aveva appena tagliato la strada.
“E che? Adesso sei troppo ricco per guidarti
una macchina?”
“No, certo che no! Una macchina è una enorme
scocciatura e un’infinita perdita di tempo. E poi è noiosa. Giro in moto.”
In moto?! Danny cercò di pensare a Mark con
una moto di grossa cilindrata e gli venne male: era sempre stato un po’
troppo aggressivo anche in bicicletta...
“Ti sei preso una moto?! Caspita.. e sì che
l’avevi sempre detto che volevi una moto... quante volte sei già andato ad
ammazzarti?”
“Io? Mai. *So* guidare.”
“Ho sbagliato domanda: quanti hai già
accoppato?”
Uno sbuffo, Ed sorrise, Danny rimase in
silenzio. Era sempre stato così tra loro tre.
Mark era... era sempre stato *spaventoso* per
tutti: il suo carattere, la sua scarsa simpatia, la sua ruvidezza. Aveva un
modo pessimo di pararsi di fronte al mondo e pareva non fregargliene niente
degli altri, si imponeva, a parole, a gesti, a sguardi, sempre. Ed, invece,
era schivo, riservato, parlava pochissimo ed era un’impresa strappargli
qualcosa dai denti se non era proprio più che convinto che fosse necessario.
Quando erano insieme, invece, diventavano così: delle persone quasi normali
che parlavano di tutte le cose più inutili che sapevano farsi venire in
mente.
Mark poteva essere davvero cambiato da quello
che era stato? Danny non poteva crederci: da parte sua Ed era forse
diventato un po’ meno selettivo nei confronti dei pochi miracolati a cui
erano destinati le sue parole. Ma parlava in quel modo solo a Mark.
Sembravano due amici che si fossero lasciati appena il giorno prima.
E come sempre Danny era lì, e stava in
silenzio, a guardare quel doppio miracolo compiersi di fronte ai suoi occhi,
quei due che si rivelavano attraverso il niente che erano quei discorsi,
banali come quelli di chiunque ragazzo della loro età. Non campioni di
calcio che passavano metà della loro esistenza dall’altra parte
dell’emisfero in cui erano nati. Non celebrità in grado, se avessero davvero
voluto, di guadagnare così tanti soldi per un singolo sbadiglio da non
saperli poi spendere in una intera vita.
Eppure… eppure, no, neppure Mark era cambiato.
Furente, aggressivo. Arrabbiato. Sempre, con
chiunque. Una tigre pronta a sbranare senza il pur minimo motivo. Se
qualcosa in lui era metodico e preordinato, era solo la durezza delle
maschere con cui si copriva il volto e il suo spirito che diventava
adamantino quando aveva deciso una meta.
Non importava null’altro, solo quello che
s’era prefisso. E se era divenuto così famoso in una terra dove erano aperti
agli esotismi ma forse, in questo caso, ancor più pretenziosi, ecco, allora
Danny non poteva non vedere Mark che combatteva la sua guerra tutti i giorni
con la stessa luce negli occhi la rabbia, il fuoco: ciò che lo rendeva
speciale e unico. Per quel fuoco l’avevano scelto e l’avevano eletto. Per
quel fuoco l’avevano ammirato, e pagato. Per quell’arroganza era diventato
personaggio, non solo un semplice calciatore.
La tigre.
Mark non era cambiato perché non poteva farlo:
era solo sé stesso, sul campo e fuori, quando dava tutto per vincere, anche
negli allenamenti, anche nelle cose di nessuna importanza. Lo ricordava
stremato e sfatto al termine del campionato giovanile: per mesi aveva
affrontato gli allenamenti, la scuola, il lavoro come se ogni giorno fosse
l’ultimo concessogli da vivere, come se da quello dipendesse tutto. Per mesi
Danny era stato certo che fosse stato sul punto di accasciarsi al suolo,
stremato, e invece non aveva mai esitato a muovere un solo passo. E la
passione che intorno a lui era sempre forte e vibrante, impossibile da non
notare, e la forza, la sicurezza, la .. la disperazione, anche. Ma Mark era
sempre stato più forte di tutto questo.
Mark era sempre stato più forte *nonostante*
tutto: nonostante la fatica, il sudore, le sconfitte, il dolore.
*Nonostante* fosse la tigre.
Se fosse bello Danny non sapeva dirlo. Era
come se non riuscisse a giudicarlo secondo i canoni estetici comuni agli
altri esseri umani. In lui, nei suoi movimenti, nelle sue espressioni, nei
suoi gesti trasparivano cose che rimandavano ad altro.
Un bel corpo vuoto non è altro che una statua
mediocre. Un corpo in cui alberga un’anima eccezionale riflette quest’ultima
prima di tutto il resto. E può piacere o no, e può suscitare invidia, o
paura, o fastidio, ma Mark aveva un carattere che s’imponeva sul suo
semplice esserci. Ed era forte, aggressivo. Forse anche ‘cattivo’. Ma era
una tigre, e non era mai crudele: una tigre uccide solo per mangiare non per
divertimento. Mark lottava per vincere, per essere il migliore, perché
questo era il suo *scopo*.
Danny si trovò a sospirare, quasi triste:
questo significava che Mark rimaneva una persona con la quale non si potesse
ragionare, un testardo maledetto al quale non si poteva far cambiare idea e
che, sicuramente, si sarebbe buttato a capofitto nella cosa più stupida e
autogratificante avesse trovato. Sapeva bene com’era in campo, aveva visto i
suoi miglioramenti –i miracoli della tv via satellite- e ne era rimasto
colpito. Chissà quanto, questo, aveva gratificato il suo ego? Sarebbero
riuscito a tenerlo sotto controllo almeno un minimo, lui ed Ed?
Danny non disse nulla ma non gli sfuggì lo
sguardo che Mark e il portiere si scambiarono attraverso lo specchietto
retrovisore. Un tocco fugace e silente. Qualcosa che lo fece avvampare al
punto da dover distogliere gli occhi.
Mark sbuffò assonnato.
“Mph, portieri. Non sapete neppure guidare…”
“Sei tu quello che dice sempre che noi
portieri non capiamo un accidente, no Mark? Ecco, adesso non lamentarti!”
E sembrò una battuta destinata a loro due
soli.
___
Mark li aveva lasciati nella hall dell’albergo
destinato al loro ritiro.
Mancavano ancora molti della squadra, i pochi
che c’erano stavano giocando una partitella di allenamento nel campo alle
spalle dell’hotel, oppure erano a spasso, in città.
Price doveva arrivare l’indomani sera con un
volo da Colonia e Hutton non si sapeva se e quando si sarebbe rivisto visto
che, all’ultima partita del campionato brasiliano, dove ora giocava, un
brutto fallo lo aveva messo quasi fuori uso. Quando l’aveva saputo Mark non
aveva detto nulla di inaspettato, s’era stretto nelle spalle e: ‘tipico di
quello scemo, farsi male prima dei mondiali’.
Ma non aveva aggiunto una sola parola quando
Ed, ridendo, l’aveva informato che Danny era diventato il responsabile
legale della squadra giapponese.
“Bhè, io sono stanco. – aveva chiamato
l’ascensore con un gesto asciutto. – Salutatemi l’allenatore quando lo
vedete. Vado a dormire.”
“Ma la cena…”
“Ho bisogno di ore di sonno. – la
sottolineatura ruvida del suo punto di vista fece istintivamente arretrare
Danny di un passo. – Domattina sarò in forma come mai. Ed, non fare casino
quando torni in camera.”
Le porte dell’ascensore si chiusero alle sue
spalle con gli altri due che non avevano avuto di dire nulla, o di
aggiungere chissà che. Ed sospirò.
“Dannazione, e io che speravo che il
cambiamento di clima gli avesse fatto bene!”
Danny sorrise.
“Non lamentarti! Pensa a quanto sei fortunato
a paragone mio: devo andare a dire al mister che Lenders è arrivato ma che
non si degna di muovere il suo fondoschiena per andare a salutarlo. Julian
rischierà un nuovo infarto!”
“Come se si poteva aspettare altro da lui!”
Danny rise di nuovo e si sentì giovane come
quando era in squadra con loro due, con Ed e Mark. Erano rimasti da sempre i
suoi migliori amici. Era come se non fosse passato neppure un giorno, ed era
quello che sentiva dentro, quella strana sensazione di abitudine e di
tranquillità che sapevano trasmettergli. Anche se ora non li avrebbe più
aspettati sulla panchina in campo. Anche se ora non avrebbe più diviso con
loro una stanza d’albergo, o gli armadietti degli spogliatoi. Anche se Mark
non avrebbe avuto più alcun motivo di urlargli dietro di muovere di più il
culo e di *correre* che dannazione ce le hai le gambe no?! Anche se ora i
suoi problemi erano altri.
Anche se…
Di nuovo insieme: era un bel pensiero.
Guardò Ed e lo rivide con la sua solita
espressione, quella espressione che aveva indosso anche il primo giorno in
cui si erano incontrati: loro, una squadra di calcio e lui un esperto di
arti marziali che, per far passare il tempo aveva deciso di provare ad
affrontare le selezioni per diventare portiere.
Un gatto: Mark l’aveva guardato muoversi,
parare, giocare per una manciata di minuti e aveva deciso che il loro
portiere doveva essere quello. Non era servito a nulla che Ed gli ridesse in
faccia dicendo che per lui quelle erano solo sciocchezze e che era un
promettente campione di karate e che, di certo, non avrebbe buttato a monte
tutto solo per uno sport così insignificante come il calcio. Che non sarebbe
mai stato il *loro* portiere perché lui non voleva, non poteva farlo, il
portiere. Il suo club lo stava aspettando per gli allenamenti e lui si era
solo divertito, così, senza un motivo.
Non era servito neppure che Mark lo lasciasse
andare, a tornare al suo club, ai suoi allenamenti. Non era servito nulla:
dopo una settimana era lì, in campo con loro. Mark, Ed non lo sapeva ancora,
otteneva sempre quello che voleva.
Come avesse fatto Danny non lo aveva mai
saputo ma aveva visto l’occhiata che si erano scambiata i due ragazzi: come
chi si riconosca anche senza essersi mai conosciuto prima.
Danny era divenuto amico di Mark negli anni,
nel lento passare del tempo che avvicina e lega coloro che hanno qualche
tratto in comune, e livella in parte le asperità e permette una conoscenza
che non sia solo superficiale. Ed lo era divenuto con un occhiata, un
respiro, un movimento, forse inconsapevole: i loro spirito probabilmente
risuonavano secondo la stessa nota e questo aveva suscitato il legame prima
che la mente se ne accorgesse.
Ed e Mark erano *legati*: lo erano sembrati da
subito. La sintonia che mostravano, senza parole, senza aver bisogno di
parlarsi o di consultarsi. La convinzione che entrambi mostravano al mondo e
la decisione che, se bisognava affrontare delle battaglie, l’uno le avrebbe
affrontate al fianco dell’altro.
Quando Ed aveva detto a suo padre che il
karate e il suo maledetto dojo di famiglia poteva andar a quel paese perché
lui voleva fare il calciatore, era Mark che era stato al suo fianco. Quando
Mark era stato espulso dalla squadra per il suo comportamento, era stato Ed
a difenderlo, e ad aspettarlo, indifferente a tutto quello che chiunque
altro avrebbe potuto dire.
Era Ed che consigliava Mark, l’unico che osava
fargli presente, ogni tanto, che non poteva continuare così, ad allenarsi in
quel modo e a lavorare, e a studiare insieme. Era stato Mark che aveva dato
la forza ad Ed di lasciare il suo mondo, già preordinato, per fare ciò che
più gli piaceva.
Danny si chiese, come già molte volte prima,
se avesse avuto senso, da parte sua, esserne geloso. Eppure già sapeva la
risposta: ci sono cose che sono in nostro possesso, cose che dipendono da
noi, e altre che, semplicemente, ci capitano.
Mark era ‘capitato’ ad Ed proprio come Ed era
‘capitato’ a Mark.
Di cosa essere gelosi?
Erano insieme, legati, loro tre, lo sapeva,
ognuno in maniera differente, proprio come erano differenti loro. Era giusto
così.
___
# Ogni spinta sui petali era un respiro. Era
un colpo. Era un’affermazione netta della volontà sul corpo.
Era espressione della fermezza e del rigore
sui muscoli che facevano male, della stanchezza che annebbiava i sensi, del
freddo che scendeva dal cielo insieme a quella pioggia fitta dentro la quale
sembrava ci si potesse annegare.
Era fradicio: ma non si sarebbe fermato per
così poco.
Era stravolto dalla stanchezza: ma niente di
così .. *stupido* avrebbe potuto farlo desistere. Rallentare la sua corsa.
O, tanto meno, farlo fermare.
E il suo corpo si muoveva, come sempre,
sfiorando perpetuamente il limite estremo che divideva la fatica dal dolore
davvero distruttivo: Mark era quello, una macchina che si muoveva, perfetta,
sotto la guida di uno spirito indomabile, e di una mente che non sapeva, non
voleva scendere a patti, contemplando le infinite di sfumature di grigio che
esistevano tra il bianco o il nero. Meglio: non avrebbe voluto scendere a
patti, perché la vita era uno schifo e a lui non era concesso il lusso di
tanti ragazzi della sua età, di concentrarsi su ciò che amavano fare, su ciò
che era richiesto loro.
Avrebbe voluto poter avere il lusso di alzarsi
alle quattro del mattino per allenarsi a calcio, invece la sveglia suonava
alle quattro meno cinque, ed era perché doveva andare a consegnare i
giornali. Un’ora e mezza di corsa, poi su una bicicletta per la
distribuzione del latte. Tre volte a settimana andava ad aiutare i vari
piccoli negozi del quartiere a scaricare la roba ordinata, e sistemarla nei
magazzini. E *sempre* arrivava a scuola già stanco.
Fosse stato un altro si sarebbe addormentato
sul banco, ma lui non si poteva permettere di pagare la retta di una scuola
superiore come quella, quindi doveva studiare per la borsa di studio, e poi
c’erano gli allenamenti. Il campo. Le partite. I tornei. Il campionato.
L’allenatore che pretendeva sempre, ogni giorno qualcosa di più, i suoi
compagni che non si impegnavano abbastanza, non ci mettevano abbastanza
grinta, abbastanza rabbia e lui che di rabbia e furia ne aveva da vendere
era sempre lì, sempre pronto a correre, a sputare sangue, e bruciava di
orgoglio e rabbia e di desiderio di arrivare.. dove? Dove, non lo sapeva
anche lui bene, doveva farlo perché doveva essere il migliore, e non
importava il resto. Il futuro, se mai ce ne fosse stato uno per lui, era lì,
non poteva che essere lì, su un campo dove le regole erano chiare, semplici.
Dove il destino ti fregava, sì, ma dove tu potevi mostrare il tuo valore,
guardando un avversario negli occhi, e gli sforzi, il sudore versato prima o
poi venivano ripagati, in un modo o in un altro. Lì, su un campo e un
pallone tra i piedi.
Perché per cos’altro mai affaticarsi in quel
modo? Per cosa faticare e arrivare a casa, la sera, così stanco da piangere
e avere ancora la forza di sorridere ai suoi fratelli, farsi vedere
tranquillo, saldo come una roccia, uno di cui nessuno avrebbe dovuto
preoccuparsi? Perché Mark è in gamba. Perché Mark è il fratello maggiore.
Perché Mark è speciale.
E di nuovo sedersi a tavola e vedere in un
angolo la pila di bollette da pagare, che quell’inverno era stato freddo e
il riscaldamento era aumentato, e la piccola aveva preso un’influenza
bruttissima e avevano dovuto portarla in ospedale e allora prendere fiato e
sorridere a propria madre, o cercare di farlo: ‘sai mamma, il ristorante
cinese qua all’angolo? Stanno cercando un ragazzo per le consegne serali.
Non pagano male. Forse potrei…’
Sapeva il suo rifiuto. Sapeva bene, ogni
volta, che lei gli avrebbe detto di no, che non poteva continuare a lavorare
così tanto per loro, che era troppo faticoso, e non era giusto, che avrebbe
aumentato lei gli straordinari ma che lui non aveva da preoccuparsi così.
Sapeva bene che poi, dopo aver accompagnato tutti a letto, l’avrebbe sentita
piangere, piena di rimorsi per quello che faceva patire ai suoi figli.
Lo sapeva, ma era quella la sua vita. Una
gabbia in cui il destino l’aveva rinchiuso. Ma lui non era il tipo che si
sarebbe accasciato, annientato. Lui combatteva, e avrebbe continuato a
farlo. Non c’erano limiti che non si potevano superare con la costanza e la
giusta determinazione. Non c’era nulla di impossibile per lui.
Era da tre mesi che lavorava la sera per quel
ristorante e davvero il guadagno era buono. E presto sarebbero cominciati i
campionati.
Non sentiva più i muscoli delle gambe.
Il direttore del ristorante, che, a dire il
vero era poco più che una trattoria, gli aveva offerto di lavorare come
cameriere. Stessi orari, paga più alta: cosa lo tratteneva dall’accettare?
Mark lo sapeva bene: tutti gli altri lavoretti che riusciva a tenere in
piedi tra la scuola e gli allenamenti erano .. utili. Servivano al suo
corpo, allenavano i suoi muscoli, lo rendevano forte. Non era solo una
questione di soldi, era cercare di trarre il massimo da qualunque
situazione. E se i soldi servivano a tutta la sua famiglia, forse il calcio
aveva più bisogno che lui continuasse a pedalare come un matto per quelle
schifose stradine deserte sotto al pioggia battente, con qualunque parte di
sé che lo tormentava dal dolore e dalla fatica…
Era stanco.
Era *troppo* stanco.
Si passò un braccio sugli occhi. Aveva freddo.
Era strano: aveva fatto così tanto movimento che i suoi muscoli dovevano
essere di brace e non avrebbe dovuto percepire freddo. E da quando poi si
sentiva così dannatamente stanco?! Era solo stata una giornata di routine,
banale, schifosa, noiosissima routine, per lui.
La bicicletta era pesante, come se fosse fatta
di ghisa, anche se era al ritorno, anche se aveva già consegnato tutto.
Doveva solo tornare al ristorante, appoggiarla contro il muro, salutare il
capo e filarsela a letto.
Il suo letto.
Aveva sonno.
No, non era sonno vero e proprio, era così
abituato a dormire poco che ormai non sentiva quasi più lo stimolo ad
addormentarsi, era proprio stanco.
Mark strinse i denti anche se ad ogni pedalata
la catena diventava sempre più pesante. E dal cielo pareva che stessero
cascando giù pezzi di piombo e non gocce d’acqua.
Cosa cazzo…
Il mondo oscillò sotto di lui.
Mark si fermò posando i piedi a terra.
Un terremoto?
Vedeva delle farfalle scure danzargli davanti
agli occhi. Un brivido lungo la schiena e la maglia appiccicata alla pelle.
Faceva freddo e la bicicletta era così dannatamente pesante…
Dov’era? Al buio quelle dannate strade si
somigliavano tutte: doveva già essere arrivato al ristorante, non era poi
così lontano da quel carino quartiere residenziale in cui si trovava ora, in
cui tutte le casette graziose avevano il loro bel giardino con gli alberi e
una cancellata che faceva appena intuire l’esistenza d’un prato, al di là.
Erano case belle e grandi: Mark non era mai entrato in una casa così.
Pensò alla sua, di casa, e gli venne da
vomitare. Stranamente il fuoco che gli bruciava sempre dentro si era spento,
e non riusciva ad arrabbiarsi, a sentirsi offeso, incazzato col mondo. Era
un idiota.
Stava perdendo tempo.
Stava perdendo minuti di riposo.
Doveva tornare al ristorante, e poi a casa.
Era tardi.
Al posto di riprendere a pedalare la sua gamba
si alzò da sola smontando dalla bicicletta.
E che cazzo…
Il manubrio gli scivolò dalle mani, divenute
improvvisamente cedevoli. La lamiera si schiantò contro il cemento. Mark
rimase lì, a guardare la scena con sguardo vuoto.
Il freddo era lance acuminate che lo
trapassavano da ogni angolo, suscitando brividi strani. E quella dannata
pioggia che non smetteva! Urlò a sé stesso, nella sua testa, di muoversi da
lì, di non fare il coglione, che doveva andarsene, e subito! Che aveva un
sacco di cosa da fare l’indomani mattina e che sua madre si sarebbe
preoccupata troppo se non fosse stato di ritorno presto.
Presto. Presto. Doveva correre, Mark, che
doveva sempre fare qualcosa, arrivare da qualche parte. Non poteva fermarsi
lì, imbambolato a guardare… a guardare cosa?
Il mondo gli tremò di fronte agli occhi, di
nuovo. Per un attimo la strada gli scivolò via da sotto i piedi. La visuale
si riempì di lucette colorate come quelle degli addobbi natalizi nei negozi
del centro.
Poi ci fu una luce, una scudisciata chiara che
gli arrivò da un lato e quella lo lasciò cieco. Chiuse gli occhi e si sentì
stanco, così acutamente stanco che il mondo parve volergli scappare dalle
mani.
Fu solo un attimo prima di colpire il cemento
che si accorse che non era il mondo che se ne stava andando, era il suo
corpo che non gli rispondeva più.
Come lui non poteva rispondere a una voce
lontana che lo chiamava.
“Lenders?!”#
___
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