NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa!

Questa serie è una mia fissazione. L’ho amata per anni tanto quanto l’ho odiata, ma alla fine mi sono arresa all’evidenza che, scrivendo fic su praticamente qualunque cosa mi stia, o mi sia stata minimamente a cuore, non ce la facevo a impormi di non scrivere su *questa* serie. Anche se continuo a credere che *pochissime* coppie siano credibilmente yaoizzabili, e nessuna di queste ho intenzione di prendere in considerazione, ho sospeso il giudizio, e ho scritto quello che *avrei voluto* poter vedere tra le righe durante gli episodi. In questo senso è un Universo Alternativo.

PS: di calcio non ne capisco un gran che. Dopo Holly&Benji qualunque partita vera mi è sempre parsa d’una noia mortale visto che mai nessuno rischia di morire sul campo, non c’è un bollettino di fine partita con morti e feriti – se non quando se le danno sugli spalti - , non ci sono drammi psicologici e il campo è troppo *corto*. Lettore avvisato…

 



La Tigre

parte I

di Dhely

 

Danny era così emozionato che non gli pareva vero.

 

Era più che emozionato. Era… scosse appena il capo ed abbassò lo sguardo sull’orologio dopo dodici secondi dall’ultima volta sentendosi lo stomaco sottosopra e un lieve senso di nausea in fondo alla gola. Era certo di avere la voce rauca, e gli tremavano le gambe, sentiva le ginocchia molli ed era così impaziente che stava per mettersi a urlare.

 

Il volo da Roma via Shangai era in orario.

 

Avrebbe dovuto atterrare entro dieci minuti.

 

Poi il controllo del passaporto, il ritiro dei bagagli.

 

In tutto quanto? Mezz’ora? Quaranta minuti?

 

Quanto potevano dilatarsi quei minuti, che erano nulla in confronto agli anni trascorsi?

 

Doveva distrarsi … quanti anni erano passati dall’ultima volta? Due. Quasi tre.

 

Danny arrossì al pensiero di sapere benissimo quanto tempo fosse passato *esattamente*: due anni, sette mesi, venticinque giorni. Ed era partito con l’aereo delle 10 e 43, se lo ricordava bene. C’era anche lui all’aeroporto e lo aveva salutato e aveva fatto infiniti sforzi per non mettersi a piangere lì davanti a tutti, o per lo meno, davanti a lui.

 

Il loro capitano.

 

Un sorriso gli scappò dalle labbra. Tossicchiò cercando di tornare serio. Ed, seduto sulle scomode poltrone della sala d’aspetto, il naso affondato in un giornale, lo degnò appena d’uno sguardo, a metà fra l’infastidito e l’ironico. Danny ringraziò il suo silenzio: non avrebbe sopportato una delle sue solite battutine ironiche.

 

Ah, il *suo* capitano.

 

O meglio *Capitano*, con la ‘c’ maiuscola. E forse anche tutte le altre lettere.

 

Avrebbe dovuto essere qualcosa in più, qualcosa di diverso. Danny conosceva Mark dalle scuole elementari. Avevano giocato insieme per dieci anni attraverso le varie classi, gli istituti. In un modo o in un altro, per quanto provenissero da famiglie così differenti, da ceti sociali divisi da un abisso, Mark era sempre stato il suo capitano, e lui … oh bhè, Mark non poteva fare molto altro oltre il capitano, a dire il vero. Per la sua bravura, un vero e proprio ‘dono’, forse non classe ma forza, determinazione, e una spiccata predisposizione per il calcio. Ed era testardo. Cocciuto. Caparbio. Irriducibile. Per fermarlo, quando si metteva in testa una cosa, probabilmente si sarebbe dovuto sparargli, sperando di avere una buona mira e di ammazzarlo sul colpo, altrimenti sarebbe andato avanti comunque, indifferente a tutto.

 

Non era una cosa rispettosa da pensare, però davvero sapeva essere insopportabile, quando voleva. E Mark lo voleva abbastanza spesso da far sorgere istinti omicidi in chiunque.

 

Danny l’aveva sempre ammirato, idolatrato quasi, nonostante quel suo brutto carattere. Di più, in un certo senso: l’aveva… amato. Era la sua guida inconsapevole, gli bastava alzare gli occhi e ce l’aveva lì, e vedeva quello che avrebbe voluto essere ma che non era, e che non avrebbe mai potuto essere. Incredibilmente però questa consapevolezza non lo riempiva di rabbia, anzi. L’idea che lui fosse lì, sempre, per lui e per la squadra, che lui, qualunque cosa fosse successo, li avrebbe trascinati avanti, sempre avanti, ecco, quello era un pensiero dolce, avvolgente. Seducente.

 

Non si ricordava di preciso quando, per la prima volta, si era reso conto per davvero che Mark possedeva quel qualcosa che lo avrebbero fatto arrivare dove voleva. Aveva sempre saputo, in una maniera istintiva, che lui era speciale, e quando era sul campo era uno spettacolo per gli occhi e il cuore. Per quei dieci anni gli era sempre stato al fianco. Non aveva mai perso una sola partita. Era sempre lì, sforzandosi di tenere il suo ritmo, il suo passo anche se era consapevole che con le sue gambe corte non poteva sperare di tenere testa alle falcate di Mark.

 

Andava bene, andava bene così.

 

Per dieci anni aveva corso, aveva sudato, si era allenato, aveva pianto, sofferto, gioito, aveva vissuto solo quando era su un campo di calcio che poteva dividere con lui. E dentro di sé aveva sempre saputo che Mark, al contrario di lui, si stava solo facendo le ossa per spiccare un balzo che non era per lui, eppure non aveva mai smesso di sognare che quell’essere l’uno al fianco dell’altro potesse durare indefinitivamente.

 

Poi era finita.

 

Lentamente, come finiscono i sogni nel dormiveglia: la convocazione in nazionale, i campionati juniores a cui aveva partecipato anche lui. Metà del tempo era stato in panchina ma gli era bastato. Certo che gli era bastato! Poteva guardarlo, poteva sentirlo.

 

Soprattutto *sentirlo*.

 

Mark parlava poco, ma sapeva come litigare per ogni minima cosa. E lì sì che parlava! Fin troppo… quante volte gli aveva rivolto la parola per calmarlo, per cercare di ficcare un po’ di buon senso in quella testaccia dura che si ritrovava? Quante volte l’aveva pregato di non prendere a pugni Benji che poi l’allenatore l’avrebbe espulso dalla rosa dei giocatori? Quante volte gli aveva fatto presente che se avesse torto il collo a quell’anatra starnazzante e sempre sorridente di Oliver –Mr Holly, il dio del calcio- Hutton il coach lo avrebbe spellato vivo? Quante infinite volte gli aveva ricordato che ammazzare pure l’allenatore non sarebbe stata una soluzione?

 

Ovviamente Mark non era mai arrivato a mettere in atto i suoi propositi omicidi, però il coach l’aveva espulso comunque dalla rosa dei giocatori per quattro o cinque partite e Danny aveva creduto che lo avrebbero definitivamente radiato quando se n’era scomparso per andare chissà dove proprio durante i campionati, ed era stato via due settimane intere senza avvisare nessuno, neppure *lui*!

 

Era quasi morto dallo spavento e dal crepacuore!

 

Aveva passato quelle due infernali settimane a piangere, tutte le notti, in quella schifosissima stanza che divideva con quel rincoglionito di Bruce che russava come un mantice, indifferente e beato come se a lui, che Mark non tornasse, non potesse fregargliene di meno!

 

Aveva sempre creduto di potersi definire il suo migliore amico.

 

Va bene, forse ‘migliore amico’ era un termine troppo forte per quella bestia istintivamente solitaria che era Mark, però si sentiva un po’ il suo … mhm … confidente, ecco. Danny era la sua spalla, lo era sempre stato, sul campo e fuori. Una volta, preso tutto il coraggio che era riuscito a radunare in un tempo sufficientemente lungo, gli aveva anche detto che era un idiota irresponsabile.

 

A Mark.

 

Già.

 

Tutti quelli che avevano sentito –ed erano in tanti perché gliel’aveva urlato in mezzo al campo, durante un allenamento- avevano di sicuro pensato che Mark lo facesse fuori lì su due piedi. Anche Danny, dopo aver *ascoltato* quello che gli aveva detto, ebbe davanti agli occhi l’immagine definitiva della sua morte.

 

E invece, Mark, aveva lasciato tutti di sasso, per l’ennesima volta. L’aveva guardato con uno sguardo tale che definirlo ‘omicida’ sarebbe stato peccare di leggerezza, aveva stretto i pugni, serrato i denti con una forza tale che Danny li sentiva ancora scricchiolare, sfregandosi fra di loro, in un modo da far accapponare la pelle. Ma *non* l’aveva colpito.

 

*Non* gli aveva risposto.

 

Aveva ringhiato, un suono soffocato in gola, da tigre furiosa. Ma si era allontanato di un passo, e poi gli aveva voltato la schiena.

 

Danny aveva sentito dei coltelli conficcarsi nel cuore.

 

Era stato quello l’istante in cui aveva capito, forse, che, tra le molte cose che lo tenevano legato a quel ragazzo impossibile e insopportabile, c’era attrazione. Desiderio. Forse… forse amore.

 

L’amore che può provare un bambino nei confronti di uno che è più grande e più forte di lui. Un qualcosa di immaturo che mischia desiderio di protezione e tensione d’emulazione e aspirazione di possesso.

 

Qualcosa, comunque, di acerbo, e di impossibile da considerare per uno  che, al contrario di lui, era sempre stato maturo, e deciso a prendersi tutto quello che voleva senza chiedere il permesso a nessuno.

 

Danny si ritrovò a sorridere amaro pensando che, probabilmente, se non fosse stato per il calcio, Mark sarebbe stato solo e sempre un bulletto di quartiere, aggressivo e determinato. Se fosse finito nel giro sbagliato sarebbe divenuto uno jakuza o qualcosa di altrettanto terribile o forse sarebbe già morto di overdose in un qualche parco squallido della periferia. Tutta quella passione, quella forza, quella determinazione, sprecate.

 

Invece: convocazione in nazionale, poi l’estero, contratti pesanti con una squadra europea, e poi sponsorizzazioni, interviste. Era finito sui giornali, Mark, nonostante quello che tanti pensavano di lui: non un fondo di tre righe sulla cronaca nera della città ma la prima pagina dei quotidiani sportivi europei. Lo stupore che un orientale sapesse giocare meglio di tanti di loro, che il calcio l’avevano inventato.

 

Nonostante tutto Danny si sentì felice per Mark: aveva trovato un posto dove avevano visto il suo orgoglio, il suo brutto carattere, la sua determinazione, la sua forza, la sua cocciutaggine e la sua insofferenza e lo  *ammiravano* per tutto quello che era.

 

Danny non aveva perso un passo di Mark, al di là del mondo. Internet, giornali specializzati, tutto quello che avrebbe potuto fargli sapere cosa stava accadendo al *suo* capitano andava bene.

 

Fino a quella mattina, poi, era convinto che la sua fissazione infantile per Mark, la sua sempiterna adorazione per quel suo coetaneo che già viveva come se fosse un adulto, non fosse null’altro che quello: una fissazione, una cotta da ragazzino. Dopo tutto non era successo come nelle favole, lontano da lui Danny era riuscito a sopravvivere, anzi.

 

Il calcio da hobby era diventato lavoro, non sul campo, ma come procuratore legale, ed era pure bravo.

 

S’era trovato una ragazza che lo amava e che lui ricambiava.

 

Aveva amici affezionati che non gli facevano passare giorni e notti di ansia infinita.

 

L’idea di rivederlo, fino al giorno prima, era stata eccitante, ma non sconvolgente. Era un suo amico, dopo tutto.

 

Un suo amico, già.

 

E allora perché quell’ansia che bloccava lo stomaco e gelava il sangue nelle vene? Perché quella cosa strana che gli serpeggiava dentro, alla quale non voleva e non poteva dare nome?

 

E perché…

 

Ed Warner, il portiere capitano della migliore squadra del campionato giapponese si tirò in piedi con la sua solita indolenza elegante e gli agitò una mano davanti agli occhi.

 

“Danny? Ma stai bene? Non hai sentito che l’aereo è atterrato dieci minuti fa? Sarà meglio andare ad aspettarlo nella hall che, se non ci trova, sarebbe capacissimo di fare chissà che piazzata. Non credo sia migliorato molto, con la  lontananza.”

 

Un mezzo sorriso e Danny dovette affrettarsi alle sue spalle.

___

 

Non vederlo.

 

Non sentire la sua voce.

 

Ma *percepirlo*.

 

Quella fu la sensazione che provò Danny, e fu come una frustata che lo lasciò attonito e confuso. Era come se, per un attimo si fosse trovato non nell’aeroporto di Tokyo, circondato da alluminio, plexiglass, vetro e aggeggi elettronici, ma nel bel mezzo della giungla ed avesse avvertito gli occhi di una tigre addosso.

 

Una tigre.

 

Lo chiamavano così: la tigre. Fin dai tempi delle elementari.

 

E Mark era una tigre: un grosso felino, pericoloso, veloce, forte. Dominatore.

 

Abbronzato.

 

Era sempre stato più scuro dei suoi compagni, esattamente come era più alto e più muscoloso, ma ora la sua pelle pareva brunita, tesa sopra muscoli che erano esattamente come Danny aveva *sempre* pensato dovessero essere.

 

I capelli portati più lunghi di quando era partito, nerissimi, tirati indietro con un elastico e gli occhi che neppure gli occhiali neri potevano schermare davvero.

 

Incedeva tra la folla come chi abbia il potere di far dividere le acque in virtù di un suo semplice passo.

 

Un bimbo gli piombò di malagrazia fra le gambe: Mark, inaspettatamente sorrise, chinando appena lo sguardo. Firmò il foglio che gli veniva porto mentre una ragazzina piangeva e suo padre –pareva suo padre- scattava delle foto.

 

Danny sentì, al suo fianco un paio di persone afferrare il proprio cellulare e raccontare, a chi stava dall’altro lato che avevano visto Mark Lenders in aeroporto, ma pensa che fortuna, era proprio lì, ma sì ti dico era lui, era lì e io ero qui ed è proprio come in tv e no, non gli ho chiesto un autografo! e come facevo? io sono in ritardo, lui era in ritardo, non abbiamo tempo da perdere e poi non sai com’è a vederlo dal vivo e poi non sai come ti guarda e poi non sai come è…

 

Bello.

 

Terribile.

 

Sicuro. Arrogante. E mille altre cose che non avevano senso, che non avevano la minima importanza. Mark era lì e li aveva visti.

 

Danny avrebbe voluto essere uno dei tanti, che avrebbero potuto tranquillamente farsi da parte senza che lui se ne curasse minimamente. Non poteva.

 

Ed sollevò una mano in segno di saluto.

 

Mark sorrise, questa volta con un po’ più di calore di quando s’era rivolto al bambino. Lasciò che gli occhiali gli scivolassero un poco lungo il naso, chinando appena in avanti il capo, mostrando a loro, e solo a loro, il suo sguardo nudo.

 

“Ciao Lenders. Fatto buon viaggio?”

 

“Noioso. Ciao Ed. – si sistemò con un dito gli occhiali sul naso poi un piccolo cenno – Danny.”

 

Danny non rispose. Non poteva. Forse a Mark sembrò solo che non ne ebbe il tempo. Un uomo gli chiese un autografo, e dopo di lui un gruppo di ragazzine con i capelli fluorescenti e lo sguardo spalancato e tre ragazzi che cercarono di mostrarsi competenti sulle sue ultime partite. Qualcuno gli chiese una foto con sua figlia, con la moglie, la zia, il fratello, il cane.

 

Ed, tranquillo come se non stesse succedendo proprio nulla di strano, rise, strappando la sacca dalle mani di Mark con uno strattone deciso.

 

“Andiamo campione, o qua ti spolpano vivo! E pensare che, se ci sei tu, nessuno *mi* considera.”

 

Uno sguardo scambiato di sfuggita, l’intesa profonda che si era creata immediatamente, anni prima, senza bisogno di null’altro che lo scrutarsi da capo a piede in un respiro, si riallacciò come una corda che in effetti non fosse mai stato tagliata. Le labbra di Mark si arricciarono un uno strano ghigno malizioso che tagliò fuori tutto il resto del mondo.

 

Per un attimo, di fronte agli occhi di Danny, di fronte agli occhi di tutti, per Mark esistette solo Ed.

 

“Chi diavolo dovrebbe considerarti, Warner? Sei solo un portiere!”

 

Danny si sentì geloso. E non *volle* chiedersi il motivo.




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