La carezza del diavolo parte
VIII
di Lan
8. IL 21 GIUGNO.
Scrutai dalla
finestra il piazzale antistante il portone massiccio, ma nulla riuscii a
distinguere. Poi i miei sensi si abituarono all’oscurità, o forse un potere
divino si incarnò in me affinché vedessi non con gli occhi del corpo, ma con
quelli dell’anima…
Difatti non vidi
propriamente ciò che stava accadendo ma qualcosa riuscii a percepire: OMBRE.
Delle ombre si
aggiravano furtivamente nel piazzale, delle ombre che emettevano degli
strani suoni… soffocati, forse sofferenti… delle ombre che sembravano
stessero invocando silenziosamente il mio nome affinché le accompagnassi
verso la loro meta oscura… delle ombre che sconosciute e infide che mi
avrebbero condotto all’inferno…
Un forte rumore mi
ridestò da questi pensieri allucinanti. Un rumore conosciuto: il rumore del
portone chiuso con forza. Qualcuno era entrato a palazzo. Ma chi? Certamente
si trattava di ladri, pensai e, subito afferrata una candela, scesi per
assicurarmi che quei bastardi lasciassero in tutta fretta il palazzo senza
osare disturbare il prezioso sonno del mio signore.
Man mano che
scendevo le scale silenzioso e leggero per evitare qualunque scricchiolio
traditore, udii suoni soffocati e scalpiccii veloci farsi sempre più
distinti e vicini.
Sussurri sommessi,
passi frettolosi, sospiri angosciosi, voci malvagie…
Capii dunque che
non era solo un mio vago sentore, ma in quella casa succedevano davvero
cose strane e che quelli che credevo essersi introdotti a palazzo non erano
affatto sconosciuti. Mi acquattai nell’ombra e oscurai la candela con la
mano. Non avevo bisogno di vedere… Hiro e Theodore, il maggiordomo,
camminavano per i corridoi del pian terreno parlottando sommessamente.
Vicino a loro qualcuno o qualcosa emetteva dei suoni strozzati.
Confesso che non
ero affatto tranquillo. Per quanto fossi deciso ad andare fino in fondo a
quella storia, a smascherare i loschi traffici di quei brutti ceffi, a
denunciare le loro malefatte al mio signore, non mi sentivo sicuro di ciò
che stavo per fare. Io non ho mai avuto paura degli imprevisti o delle
avversità cui la vita mi ha messo di fronte, ma ammetto che in quella
circostanza qualcosa mi tratteneva. Un brutto presentimento. E avevo paura.
“Non andare” sembrava urlare qualcosa nella mia anima. Non la ascoltai e li
seguii.
Scesi le scale e
pedinai quei due sciagurati addentrandomi per i corridoi del piano terra ai
quali solo la servitù aveva il potere di accedere.
E già questo
aggiunse timore al mio timore.
Per niente al mondo
Theodore il maggiordomo aveva mai voluto che io mi avvicinassi alle cucine e
io avevo sempre pensato che volessero evitare che mi pappassi tutti dolci
della fornitissima dispensa di palazzo, o che non ammettessero intrusioni
nel loro regno. E in fondo nessun servo o quasi mettevano piede, solo la
cuoca e forse qualcun altro. Ma capii che invece volevano tenere lontani i
curiosi…il motivo era tutto scoprire! Oramai era troppo tardi per tirarmi
indietro. Mi nascosi nella dispensa, sperando che a quell’ora quei due non
avessero voglia di farsi uno spuntino, e aspettai.
Sentii i loro il
suono dei passi e dei mugolii allontanarsi e sparire in una stanza che si
trovava alla fine del tetro corridoio, e, quando avvertii i passi tornare
indietro e di nuovo il portone aprirsi e chiudersi, mi feci coraggio e
uscii dal mio nascondiglio, deciso ad arrivare in fondo a quel corridoio
sconosciuto e oscuro.
Aprii la porta e
subito vidi delle scale scendere dabbasso. Discesi i gradini e mi ritrovai
in cantina. Ora i mugolii si fecero sempre più forti e sofferenti, simili al
pianto di bambino, e assieme a questi sentii mescolarsi dei sospiri, ansiti,
come quelli di un animale in calore.
Avanzai dunque
verso il chiarore proveniente da una porta semiaperta per vedere chiaro nei
misteri che quel luogo nascondeva, ma già avevo capito…
Fregandomene del
rumoroso battito del mio cuore, talmente forte da potermi scoprire, mi
avvicinai e scrutai all’interno… E vidi LUI.
I lunghi capelli sciolti, il viso imperlato di
sudore, il corpo nudo, lo sguardo una maschera di lussuria. Si muoveva
freneticamente dentro il corpo di un ragazzino i cui polsi erano legati alla
spalliera del letto, la bocca imbavagliata e gli occhi colmi di paura.
Rimasi paralizzato, ipnotizzato, incredulo
davanti alla scena, tanto inconcepibile che ancora oggi mi è difficile
credere che ciò che si presentava ai miei occhi fosse vero. È difficile
crederci, ma non c’era scampo: non stavo sognando!
Il giovanetto gemeva
impotente, strattonando i polsi, strattonando il suo corpo per liberarsi
alla presa brutale di lui, ma era tutto inutile, lo capii dagli occhi del
suo aguzzino. Gli occhi nerissimi del mio amore, così belli, ora erano pozzi
di cattiveria. No, i suoi occhi parlavano per lui: non avrebbe lasciato
andare quel ragazzino fino a quando non lo avrebbe straziato.
Cosa mi spingesse a rimanere li, fermo e
immobile, ancora non so. La paura, certo, la paura di essere scoperto e il
dolore di vedere lui con un altro, vedere che io non ero il suo amato, come
lui sosteneva, era abbastanza da lasciarmi paralizzato ma…non era solo
questo.
Io volevo capire il perché di quello che stava
facendo, il perché di quel sorriso crudele e di quello sguardo cattivo.
Rimasi fermo e immobile nella speranza di
capirci qualcosa…e la risposta alla mia domanda infine giunse.
Per un momento i
lineamenti del suo volto si rilassarono, perso nel piacere dell’estasi
suprema, ma subito dopo corrugò maligno le labbra.
<Ora mi darai la tua
giovane e preziosa vita cosicché io possa io possa vivere in eterno…>
Prese un pugnale e
squartò in un sol gesto il petto del ragazzino innocente. Senza nessuna
pietà.
Cosa accadde dopo non so. Ricordo vagamente di
aver visto me stesso, quasi come se stessi sognando, urlare, urlare,
urlare…ma di preciso non so cosa mi accadde.
I ricordi si fanno nitidi solo da quel
pomeriggio, quando mi risvegliai nel mio letto.
Strani pensieri frullavano nella mia testa,
confusi e sfuggenti, ma anche terrificanti, che martellavano la mia
coscienza ma che ancora non riuscivo a realizzare.
Tentai di muovermi ma sentii dolore un po’
dappertutto, avvertii anche che la mia gamba era stata immobilizzata, forse
da una stretta fasciatura. Come lo era anche il mio braccio sinistro.
Cercai di fare mente locale del perché ero
ridotto in quelle condizioni, cercai di sforzare la mia memoria, e in quel
momento udii una voce.
La sua voce…
Fui investito da un moto di orrore.
<Finalmente hai aperto
gli occhi. Che sollievo!> Sospirò, e all’istante ricordai il suo sospiro di
crudele lussuria. All’istante ricordai tutto.
<Come ti senti?>
Non dissi nulla ma mi
irrigidii dal terrore.
Lui, accanto a me, mi
guardava con dolcezza e preoccupazione, cambiandomi di tanto in tanto un
fazzoletto bagnato sulla fronte, accarezzando il mio volto come se fosse
stato l’oggetto a lui più caro e fragile.
<è successo una
settimana fa. Proprio non ricordi cosa ti è accaduto?>
Vigliaccamente scossi
lievemente il capo.
< Vedi…una settimana,
di notte, sei caduto dalle scale. Forse sei sonnambulo, non so… so solo che
mi hai fatto prendere un colpo, hai avuto un febbrone, deliravi… mi hai
fatto spaventare a morte. Ma per fortuna non ti sei rotto nulla, solo
qualche ammaccatura qua e là…> E continuava ad accarezzarmi dolcemente e al
sua voce cupa assunse un tono dolcissimo…
Al suo tocco dolce mi
sciolsi come neve al sole e mi chiesi – e tante volte da allora ho
continuato a chiedermelo – se tutto ciò che avevo visto non fosse davvero
stato frutto di un sogno: i suoi gesti, la sua voce, la sua preoccupazione
erano indice dell’amore sincero che provava per me.
Mi chiesi se ciò che
avevo visto quella sera non fosse davvero stato il frutto di un delirio
assurdo ma, osservando gli stessi suoi occhi dolci che repentinamente si
incupivano rabbiosi e mi osservavano maligni e crudeli, capii: avevo visto
tutto.
I suoi occhi urlavano
per lui.
Pensai al mio degno padre che mi aveva messo
in guardia non perché coinvolto da sciocche dicerie, bensì perché chissà da
quanto tempo ne aveva avuto sentore. Mi afflissi al pensiero di non aver
creduto all’unica persona al mondo che tenesse a me con disinteressato
amore. Me ne era andato convinto che il sacerdote sbagliasse, convinto che
fossero solo pregiudizi, per seguire il mio stupido cuore. E invece aveva
avuto ragione su ogni cosa.
Cosa ne sarebbe stato di me? Avrei rivisto mio
padre? E il villaggio che tanto amavo? E quei bambini che urlavano di
felicità non appena mi vedevano? In cuor mio sentivo che le mura di quel
palazzo sarebbero state le pareti della mia tomba.
I miei occhi si riempirono di lacrime…
<Perché piangi? Non è nulla di grave, guarirai
presto, stai tranquillo, ci sono io con te. Io sono sempre con te… sarò
sempre con te…non ti abbandonerò…>
La sua voce suadente continuava a lusingarmi e
io mi sentii come intrappolato nella tela di un enorme ragno malvagio.
Lo avevo uccidere un uomo, anzi, un fanciullo
innocente. Con freddezza, con violenza. Con piacere.
Cosa potevo fare?
Scappare, fu la prima cosa che gli venne in
mente, scappare lontano da tutto questo per dimenticare e tornare a vivere.
Ma non era che la soluzione più comoda e io non sono mai stato abituato a
trovare comode scappatoie, senza tener alcun conto degli altri.
L’unica cosa
da fare era scappare da palazzo per correre al villaggio e denunciarlo,
fargliela pagare amaramente per tutti i delitti
impuniti che aveva commesso lui, quel bastardo, quel bastardo che mi aveva
ingannato, che si era preso gioco di me, del mio amore…il mio amore…
<Non fare quella faccia da cerbiatto indifeso…
vedrai che guarirai in fretta…> e mi baciò teneramente sulla fronte. Il mio
viso fu sfiorato dai suoi lunghi capelli e io mi inebriai del suo profumo.
Allora scoppiai a piangere.
Piansi per quella creatura uccisa senza pietà…
Piansi per tutti coloro che aveva ucciso senza
pietà…
Piansi per il mio amore, calpestato
senza pietà…
Piansi anche per me, povero idiota, perché
nonostante tutto quello che avevo visto, nonostante tutto quello che aveva
fatto, continuavo ad amarlo con tutto me stesso.
Man mano che
i giorni passavano, il mio umore cambiò.
Sebbene mi sforzassi di essere allegro come
sempre, sempre più spesso mi ammutolivo, mi tormentavo al ricordo di quella
scena, mi perdevo nelle più arzigogolate elucubrazioni su come uscire da
quella prigione e avvisare il villaggio di ciò che stava accadendo, morivo
all’idea che se avessi rivelato tutto, lo avrebbero certamente ucciso…e io
non volevo che morisse. Se da un lato la mia anima ruggiva per la voglia di
farla finita, dall’altro si acquietava se lui era nei paraggi, se mi
carezzava una guancia o semplicemente udendo il suono della sua voce. In
realtà, ciò che più desideravo era chiudere gli occhi e dimenticare
tutto…per poter ricominciare da capo…con lui…
La verità è che lo amavo, lo amavo con tutto
me stesso, lo amavo nonostante tutto e se una parte di me non aveva dubbi su
ciò che aveva visto, un’altra desiderava disperatamente cancellare ogni
cosa.
In tutto questo orrore che vivevo
quotidianamente, temevo per la mia stessa vita, i suoi sgherri controllavano
ogni mia mossa e, ovunque fossi, sentivo i loro occhi spiare qualunque cosa
facessi, ovunque andassi, qualunque cosa pensassi. Loro sapevano e
sicuramente stavano progettando il modo di farmi fuori. Se non lo avevano
ancora fatto, era sicuramente perché stavano meditando in quale atroce modo
farmi sputare l’anima…
Lui invece
non fece alcunché di insolito. Continuava a comportarsi con dolcezza e
premura nei miei confronti, mangiava accanto al mio letto quando mi sentivo
troppo debilitato nel corpo e nell’anima e non volevo far nulla, altre volte
restava
vicino a vegliare il mio sonno. Trascurava persino i suoi studi per
accudirmi. Ad essi, mi diceva, dedicava giusto un po’
di tempo la notte, mentre io dormivo o si limitava
a leggere qualche libro quando mi rimaneva accanto. Ma io non posso
testimoniare su cosa effettivamente facesse quando dormivo, perché il mio
sonno era cambiato, era diventato più pesante e di notte non mi svegliavo
mai, forse perché inconsciamente preferivo dormire e dimenticare, piuttosto
che svegliarmi di soprassalto per qualche futile rumore. O forse perché lui
metteva qualcosa nel tè che mi invitava a prendere ogni sera, dicendo che lo
preparava personalmente e solo per me.
Arrivò giugno.
Ho sempre adorato
giugno… il profumo che si spande nell’aria, il prolungarsi della luce che
squarcia l’oscurità, il calore e l’allegria dei fiori colorati…
In quei tristi
giorni, l’unico mio conforto era osservare la luce del sole protrarsi sempre
più nell’ arco della giornata, come se la luce stessa avesse potuto
annientare quegli spiriti maledetti, purificando l’aria malsana che gravava
su quella dimora.
Effettivamente
immagino siano stati i benevoli spiriti dei fiori di giugno ad esaudire le
mie preghiere…
Una notte particolarmente calda e afosa
ebbi il sentore che sarebbe stata la notte giusta. Quel giorno il portone fu
sbarrato per la notte prima del solito, la cena fu servita prima, e anche il
nostro quotidiano momento di passione fu anticipato al tramonto, perché –
almeno così disse – i suoi studi lo avevano parecchio impegnato e intendeva
andare a letto presto. Avevo così il tempo di andare e tornare prima
dell’ora di colazione.
Insomma, tutto sembrava congiurare contro
di lui…
Nel silenzio, coperto dal buio della
notte, lasciai la mia stanza per scendere al primo piano. In quei giorni
avevo girovagato (almeno fin dove mi era concesso) per il palazzo alla
ricerca di una via di fuga avevo notato che sotto una finestra del corridoio
al primo piano erano cresciuti dei cespugli molto alti, che avrebbero
attutito una mia eventuale caduta. Presi dunque una corda che avevo trovato
fra le varie cianfrusaglie della soffitta, la ancorai alla finestra e mi
calai.
Libero…finalmente ero libero…
Mai più avrei sentito i loro sguardi
minacciosi su di me… non mi avrebbero mai più fatto del male…e soprattutto
non ne avrebbero fatto mai a nessun altro. Ci avrei pensato io a vendicare
quei poveri innocenti, e la mia coscienza sarebbe stata pulita…stavo per
tradire la persona che amavo, ma la mia anima era salva…
Corsi a perdifiato nel bosco, la luna piena e
brillante illuminava il mio cammino, una leggera brezza smuoveva il
fogliame, respiravo a pieni polmoni l’aria della libertà, ma le ombre
inquietanti sembravano mormorare silenziose
“traditore…traditore…traditore…”
Giunto al villaggio,
mi introdussi in casa del sacerdote.
<Chi è là?> disse lui. E mi rinfrancò il tono
della sua voce. Non era quello spaventato di chi sorprende un ladro nella
notte, ma il tono preoccupato di chi viene svegliato perché qualcuno ha
bisogno di lui.
<Padre…>
<Figlio mio!> mi riconobbe subito e mi
abbracciò forte. Al sicuro tra le sue braccia, mi lasciai andare in un
pianto disperato.
Non aspettai la calma
che segue le lacrime. Tra pianti e singhiozzi gli raccontai tutto: del mio
lavoro di artista, della mia vita da recluso, della mia acredine contro i
servi.
E finalmente gli confessai il peccato più
grande: il mio amore per lui.
<Lo avevo capito, solo chi è innamorato
seriamente e follemente avrebbe agito come hai fatto tu, sfidando il tutto
per tutto, anche i consigli di un vecchio padre> disse lui, ma senza
rimprovero.
<Figlio mio, io ti conosco e so che non ti
arrendi mai di fronte alle difficoltà. Che, anzi, esse danno più sapore alla
tua vita. Ma non ci vuole un genio per capire che, se tu sei qui, non è per
qualche scaramuccia con dei servi oziosi o per la mancanza di libertà. Tu
hai fra le tue braccia l’oggetto del tuo amore, basta questo. Ma tu sei qui.
A quest’ora. È forse successo qualcosa di grave?>
<Molto grave…>
Gli raccontai infine di quella notte, dei
rumori terrificanti, di quei sospiri angosciosi, dei corridoio bui, della
mia paura, della cantina degli orrori e di lui. Dell’abominio da lui
commesso in nome della vita eterna. Della consapevolezza che tutto ciò che
avevo visto era vero, del mio desiderio che non lo fosse, del suo
comportamento dolce e affettuoso, della luce sinistra dei suoi occhi.
<…è un assassino…il peggiore degli
assassini…il peggiore degli uomini…ha ucciso un fanciullo…chissà quante
volte lo ha fatto…e io come potuto?…come ho potuto non credere alle vostre
parole?…>
Scoppiai ancora a piangere, mio padre mi
accarezzava i capelli. Quando mi calmai nuovamente mi chiese con voce grave
che intenzioni avessi.
Risposi con sicurezza
che non volevo uccidesse ancora e, nonostante sapessimo entrambi che i
nobili non lo avrebbero mai toccato, sapevamo anche che non lo avrebbero mai
difeso. Lui era inviso ai nobili, per la sua troppa ricchezza e troppa
.alterigia. E se mio padre, sacerdote e guida del villaggio avesse fatto
qualcosa, nessuno si sarebbe opposto.
<Che hai intenzione di fare?>
gli spiegai il mio piano, semplice ed
efficace.
Di nuovo mio padre mi chiese se era davvero
ciò che volevo, prospettando il futuro del mio amore non propriamente
roseo. Sarebbe certamente morto.
Annuii. Non m’importava nulla. Doveva essere
consegnato alla giustizia, dissi con fermezza, mentre un brivido gelido mi
attraversò la schiena, scuotendomi tutto.
Giunse troppo presto il momento di tornare.
Ho ancora davanti a
me il momento in cui mio padre ed io ci salutammo.
Ricordo che,
abbracciandomi, mi confortava che tutto sarebbe andato per il verso giusto
e che presto ci saremmo rivisti. Ma niente riuscì a consolarmi. Abbracciai
mio padre piangendo senza ritegno, come se fosse stato un addio e non un
arrivederci. Sembrava quasi fossi io, quello che stava per morire. E del
tutto sbagliato il concetto non era. Non solo io ero morto il giorno in cui
scoprii che razza di malvagio era l’uomo che amavo, ma ancora mi attendeva
il mio triste destino, perché nel momento in cui sarebbe morto lui, per me
non ci sarebbe stata più ragione di esistere.
E tutto questo perché non avevo avuto il
coraggio di tacere per difendere colui che amavo più al mondo.
Vigliacco traditore…
Per tutto il tragitto
a ritorno nella mia testa queste due parole rimbombavano, stordendomi:
vigliacco traditore…
Già quella notte la mia sicurezza sulla
drastica decisione presa iniziò a vacillare.
E i pochi giorni che
restavano, prima che giustizia si compisse, li trascorsi nella più lacerante
angoscia. Io non volevo che morisse, volevo che lui amasse me, soltanto me!
E poi non ero neanche più sicuro che quello che avevo visto fosse reale.
Quando da dietro mi avvolgeva tra le sue braccia senza che neanche mi
accorgessi della sua presenza, quando mi sfiorava il volto con le sue dita
sottili e delicate come se fossi un oggetto prezioso, quando facevamo
l’amore e si donava a me senza remore, offrendomi ogni volta una gioia che
mai ho provato né proverò più nella mia vita, allora la mia mente impazzita
rifiutava l’idea di ciò che aveva visto e dovevo mordermi la lingua fino a
farla sanguinare, pur di non rivelare ciò che avevo macchinato alle sue
spalle.
Ma quando lui mi
guardava, quando specchiava i suoi occhi nei miei e il suo sguardo per un
attimo si induriva, quando vedevo all’improvviso i suoi occhi nerissimi
lampeggiare di una luce sinistra, allora mi tornava in mente quello sguardo
maligno e corrotto che aleggiava sul suo viso compiaciuto quando sacrificò
quel fanciullo.
E tremavo.
Tremavo perché ne ero certo: era vera ogni
cosa.
Tremavo perché ne ero consapevole: lui sapeva
ogni cosa.
Tremavo perché non
avevo dubbi: avrei fatto una fine orribile.
Niente e nessuno potrà mai convincermi del
contrario: lui sapeva che lo avrei tradito aveva predisposto tutto affinché
il suo progetto finale si realizzasse.
Ah, se almeno si realizzasse…io non sarei
così disperato…
Una notte mi svegliai di soprassalto.
Sentii qualcuno
toccare la mia spalla e trasalii quando vidi la sua figura eterea illuminata
dalla luce della luna. I suoi occhi inquietanti mi fissavano,
silenziosamente minacciosi, e la sua mano si muoveva sinuosa, invitandomi a
seguirlo. Mi alzai dal letto, conscio che sarebbe ora toccata a me la stessa
disgraziata sorte di quei poveri viandanti sacrificati nel nome del
maledetto sogno della vita eterna, e lo seguii senza opporre resistenza. In
fondo, pensai, non avevo deciso di mettere la mia vita nelle sue mani nel
momento in cui mi ero innamorato di lui?!
Mi condusse nella sua camera.
Mi fece sedere sul suo letto.
Le poche candele illuminavano orribilmente la
stanza rossa, che sembrava trasudasse sangue. Pensai con isterica ironia che
avrebbe evitato di lavare le coperte, qualora si fossero sporcate del mio
sangue.
La sua veste bianca chiusa negligentemente
lasciava intravedere il petto marmoreo, il suo volto illuminato dalla luce
d’argento della luna sembrava esso stesso il volto dell’astro d’argento,
incorniciato dai suoi splendidi capelli più neri della notte. Era
bellissimo.
Bello e terribile.
Tremai leggermente quando mi sfiorò la
guancia, lascivo.
Con movimenti fluttuanti, quasi fosse un
fantasma, spense le poche candele sparse per la stanza e, infine si piazzò
di fronte a me.
Sfiorò appena le mie
labbra.
<Voglio fare l’amore con te> disse
semplicemente.
Scivolò la veste
morbida dalle sue spalle, mi liberò con pochi gesti sapienti della mia e
infine si distese su di me, carezzandomi dolcemente per tutto il corpo,
riempiendomi il viso di baci, strofinandosi a me per darmi piacere.
A dispetto della terribile consapevolezza che
l’orgasmo avrebbe segnato la mia fine, la mia eccitazione crebbe a
dismisura. Era l’ultima volta e volevo godermela il più possibile.
Tempestai il suo volto
di baci dopo intrufolai la lingua nella bocca alla ricerca spasmodica
ricerca della sua e dopo che mi fui temporaneamente saziato, la mia lingua
scivolò lungo il suo collo, provocandogli eccitanti brividi.
Poi invertii le posizioni e, postomi a
cavalcioni su di lui, lasciai scivolare la lingua lungo il suo petto, i
capezzoli, l’ombelico, il basso ventre e serrai le labbra su di lui,
muovendole freneticamente per dargli quanto più piacere possibile.
Dal canto suo, lui si lasciò trasportare dal
mio impeto amoroso e per ringraziarmi di quanto era stato bello, divaricò le
gambe e si strinse forte a me.
Lo amai ardentemente, appassionatamente, senza
pudore, era l’ultima volta e doveva essere così intensa che il piacere
avrebbe dovuto bastarmi per tutta l’eternità.
Era la nostra ultima volta e volevo imprimermi
ogni gesto, suono, odore, per non dimenticare più nulla di lui, quasi
volessi rubargli anche l’anima, per portarlo con me ovunque e per sempre.
… lo implorai di amarmi, mentre lui gemeva il
nome…
Anche quella volta lui
mi appartenne, ma, nonostante ciò, mai come in quella notte mi sentii
legato a lui da una forza potente e indissolubile, che nulla e nessuno
avrebbe mai potuto spezzare, nonostante il crudele destino cui andavamo
incontro.
Fu allora che
avanzò quella richiesta.
<Voglio che tu dipinga un mio ritratto. Ora>
<Ma..mio adorato
signore, amore mio…manca la luce giusta, lo scenario adatto…la…>
<Non voglio sentire ragioni. Voglio un mio
ritratto. Adesso. Non m’importa dello scenario o della luce. Voglio che
raffiguri la mia effige così, semplicemente, questa notte…>
<Ma non è
possibile. Ho bisogno di più…> ma non mi lasciò neanche finire. I suoi occhi
lampeggiavano di rabbia. Non voleva mai essere contraddetto e, in quel
momento, meno che mai. Sembrava avere una necessità impellente di
quel dannato ritratto.
<Forse non sei
capace?> mi chiese. La voce piena di rammarico, lo sguardo di sfida.
No, certo che no,
io sono in grado di fare tutto ciò che voglio presto e bene. Perché sono un
genio!
<Allora
dimostralo!>
Non osai
contraddirlo ulteriormente e allora, armatomi di colore e pennelli, con
pazienza e destrezza dipinsi quel ritratto.
Lavorai duramente
quasi tutto il giorno, il sole coperto da una coltre di nubi e un’afa che
mozzava il respiro. Ma nonostante le disagevoli condizioni, il ritratto fu
portato a termine.
In verità fu una
rappresentazione di lui molto “pulita”. Il suo mezzobusto campeggiava su
tutta la superficie della tela, una sua mano posata sulla sua spalla, nel
gesto di levarsi lo yukata di candida seta, il petto semi scoperto.
Effettivamente, dei pochi ritratti fatti da me è quello che preferisco.
Semplice, senza fronzoli, solo il suo viso, solo lui…se non fosse per gli
occhi. Mentre dipingevo sentii lo sguardo su di me cambiare, incupirsi e i
suoi occhi farsi più cattivi, sinistri. Non potevo non vederli, non sentire
la loro forza invadermi, carpire i miei pensieri, scrutarmi oltre l’anima.
Ore dopo finii il
ritratto. Mi accasciai esausto sul suo letto.
Se voleva uccidermi
facesse pure, pensai, tanto aveva avuto tutto ciò che voleva.
Lui si avvicinò nuovamente a me.
<Facciamolo ancora>
disse con la sua voce piena di desiderio.
<Mi ami?> chiese,
tenendomi stretto a sé, dopo aver dato sfogo ai nostri istinti più selvaggi.
<Tanto… > risposi.
<Davvero?>
<Certo. Più della mia vita…>
<Più della tua vita…no, non ci posso credere…>
<è la verità, mio signore, io vi adoro e non
so cosa farei se voi non ci foste…>dissi infelice.
<Già…cosa faresti se io non ci fossi?> mi
chiese con tono inquisitorio. Sicuramente aveva capito ciò che tramavo alle
sue spalle e pensai volesse divertirsi a farmi sentire in colpa.
Ma non sapeva che io
ero già da tempo in preda al pentimento e mi sentivo atrocemente dilaniato
tra ciò che era stato giusto fare per la comunità e ciò che era giusto per
me. Così risposi: <Oh, mio amore dolcissimo, no, io darei anche la vita per
voi, perché preferirei morire io piuttosto che vivere senza di voi…> e così
dicendo piansi.
Piansi per ciò che avevo fatto, per il
traditore che ero diventato, perchè tutto ciò che avevo detto era vero e,
benché fosse giusta la mia denuncia, lo erano anche i miei sentimenti. Lui
era ancora accanto a me ma già la vita mi sembrava insopportabile senza di
lui.
<Davvero mi ami così tanto?>
<Si!>
<Addirittura daresti la tua vita per me?>
<Si!>
<Se mai io ti dovessi chiedere di sacrificare
la tua vita per me, lo faresti?>
<SI!>
<Promettilo>
<LO PROMETTO>
Lui mi guardò
fisso. Poi guardò il quadro e lo baciò.
<fa lo stesso> mi
disse.
Non capii, ma
baciai anch’io il quadro.
Poi mormorò una
litania in un linguaggio a me sconosciuto. Uno sconosciuto linguaggio dai
suoni soave melodioso, sembrava una ninnananna, un linguaggio i cui suono
diventava sempre più aspro, duro, fino a diventare … crudele.
<Sei stato bravo, i
miei complimenti. Bene, mantengo la mia promessa. Questo è per te> disse
lui, prendendo il quadro e porgendomelo.
<Avevo assicurato
che se avessi fatto un buon lavoro, ti avrei permesso di dipingermi e di
farti tenere il quadro>
Mi si gelò il
sangue nelle vene.
<Prometti che lo
terrai sempre con te>
Sembrava mi stesse
dicendo addio.
<Prometti che,
qualsiasi cosa accada, non lo abbandonerai mai. Che lo proteggerai come se
proteggessi me, la mia stessa vita, la tua stessa vita>
<Prometti che darai
la tua vita per proteggerlo>
<Lo prometto!>
Non credetti a ciò
che avevo appena udito ma era proprio così: mi stava donando un suo ritratto
in quello che sembrava un addio. Lui stava andando incontro al suo destino e
sapeva che non sarebbe tornato mai più. I suoi occhi cattivi mi fissavano,
crudeli accusatori della mia infamia: “mi hai tradito e io non tornerò mai
più”.
I miei bruciavano
per la vergogna della mia infedeltà.
<…>
<Mi ami?>
<Con tutto me
stesso> non potei fare a meno di rispondergli. Perché era la verità.
<…e adesso…vado al
laghetto a fare un bagno…>
Era l’ora del bagno
al laghetto che usava fare al tramonto di ogni giorno.
Non aspettò che lo
fermassi, che gli chiedessi di andare con lui. No, si rivestì del suo
candido yukata, si coprì col tanzen e uscì dalla sua stanza.
Scese le scale col
suo passo leggero, io dietro di lui lottavo contro me stesso per cercare di
trattenerlo.
Aprì il portone e,
dopo qualche passo si voltò a guardarmi.
Non l’avrei rivisto
mai più.
<Signore…>
<Cosa c’è?>
<Ecco… va a fare il
bagno, vero?>
<Si…lo sai che lo
faccio sempre a quest’ora>
No, non volevo che
andasse via, non volevo… non lo volevo morto.
<Signore!> chiamai
in tono accorato, in preda alla sempre più crescente disperazione. Ma la
coscienza mordeva e non mi era concesso il lusso di pentirmi di ciò che era
sacrosanto fare.
<Cosa c’è?>
<Ecco…io…tornerete
presto, mio adorato signore…non è vero? Ditemi che tornerete…>
<Si…certo… tornerò
presto>
<Fate attenzione,
amore mio, casomai doveste incontrare qualche …brigante sulla vostra
strada…>
<Non preoccuparti,
io so badare a me stesso>
<Ma.. se vi
facessero del male…so che la mia apprensione è sciocca, ma…>
E lui sorrise. Non
rideva quasi mai, ma quella volta sorrise. Non di un sorriso genuino,
bensì…malizioso…
<Tranquillo, non
incontrerò nessuno e nessuno mi farà del male… e poi, mi sembra di avertelo
spiegato già una volta. Io non credo alla morte e quand’anche dovesse
accadermi qualcosa di brutto… >
<No, non ditelo, vi
prego. Promettetemi che tornerete>
Mi guardò per un
lunghissimo attimo.
<Non preoccuparti.
Io tornerò. Certo, che tornerò. Tornerò da te. Tornerò per te e questa è una
promessa. E quando tornerò… tu dovrai mantenere la tua>
i raggi rossi del
sole al tramonto illuminarono la sua figura, che sembrò a un tratto brillare
di luce propria, mentre si inoltrava lungo il sentiero che lo avrebbe
condotto al laghetto.
Lo accompagnai con
lo sguardo finchè non scomparve nella boscaglia.
Fu l’ultima volta
che vidi il mio amore.
Avrei ricominciato
a vivere, ma la mia vita era oramai finita.
Era il 21 giugno…
CONTINUA…
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