La carezza del diavolo

parte VII

di Lan


7. MEMORIE DI UN TRADITORE.

 

La luna è piena…

È così bella questa luna…

È così fredda…

Fredda come questo letto vuoto…

Fredda come me senza te…

Vieni ancora da me, ti scongiuro…

Non lasciarmi solo…

 

 

 

Un tremito scuote repentino il mio corpo, e io mi risveglio da una specie di trance nella quale sono caduto per permettere ai miei sensi di riprendersi dallo sfinimento dovuto all’orgasmo e alle tante lacrime.

 

Ho freddo.

 

Mi raggomitolo sotto lo yukata di seta che fino a poco fa ho strapazzato assieme alla coperta di velluto rosso, e ne respiro l’odore di vecchio e di fresco, felice di respirare quel profumo che ormai so con assoluta certezza essere il suo.

Perché sono sicuro anche lo yukata è suo… anche se, a questa affermazione, qualcuno come Morisawa o Yohei potrebbe darmi del pazzo!

 

E chi se ne frega!!!

Io sono felice così. Sono innamorato e ho deciso di arrendermi a questo sentimento nuovo per me, talmente profondo, dilaniante, travolgente, passionale… so che non lo proverò mai per nessun’ altro.

 

Né io voglio provarlo per nessun’ altro.

Non dopo aver donato tutto me stesso, anima e corpo, all’unico che voglio davvero.

 

…anche se mi rendo conto che è una follia…

 

Ho freddo.

 

Mi rannicchio ancora di più sotto lo yukata, lasciandomi abbracciare dal morbido tessuto, immaginando ancora che sia il suo abbraccio, evocando di nuovo il suo volto.

Teneramente gli sorrido.

<Ti è piaciuto?>

Nessuna risposta.

Poco male, rispondo io per lui.

<Si, ti è piaciuto…>

Sorrido malizioso alla luna che ora ha lo stesso volto d’argento del mio amante inesistente, mentre chiudo gli occhi e mi stringo di più al quadro, sotto la veste, come un bimbetto che non ne vuole sapere di uscire dalla culla.

Mi sento così bene qua sotto. È come se fossi coccolato incessantemente da amorevoli mani invisibili.

 

Dovrei andare adesso.

Si, dovrei davvero andare, ma…

Ridacchio. Il volto della luna, che è il volto del mio amore, ridacchia con me.

No, io non ho davvero intenzione di andare via.

<ahahahahahahahha, io non me ne vado, né oggi, né domani, né mai.

Io resto qui, amore mio, resto qui con te, per sempre.

Perché non ho nessuna intenzione di lasciarti.

Perché TI AMOOOOOOOO. AHAHAHAHAHAHAH……>

Rido forte, questa volta, affinché i muri, le ombre, l’aria, possano sentirmi. Affinché quella presenza che un mese fa avevo tanto temuto di svegliare, si svegli davvero e mi raggiunga.

Per dirmi che mi ama.

 

Accarezzo la sua immagine, cullandomi in quest’angolo di mondo illusorio in cui ho deciso di rinchiudermi buttando chissà dove la chiave, proprio come aveva profetizzato Yohei.

 

<Sai, mio dolcissimo signore, visto che questa diventerà la mia nuova casa vorrei conoscerla. Spero che non ti dispiaccia se vado a fare un giretto di perlustrazione. Anzi, perché non mi accompagni? Ti va?>

Nessuna risposta. Ancora una volta rispondo io per lui.

<Certo, che ti va>

 

Indosso lo yukata e procedo scalzo.

Inizio il mio giro alla ricerca di tutto ciò che mi parli di lui. È vero che la camera rossa è la stanza che può farlo meglio di tutte, non solo perché è l’unica conservata intatta, ma anche perché è l’unica che può rivelarmi i particolari più intimi della sua vita.

 

Ma a me ancora non basta.

 

Ho capito che dev’essere stato un amante meraviglioso, chissà quante cose potrebbe raccontarmi il suo letto, ma io voglio sapere di più.

Voglio conoscerlo meglio attraverso il suo ambiente quotidiano.

Sono ansioso di toccare ogni piccola cosa che lui ha toccato, di calpestare il terreno che lui ha calpestato, di guardare ogni oggetto che lui ha guardato, di respirare la stessa aria che lui ha respirato.

Voglio vivere nel suo mondo, affinché lui riviva.

Non importa se nel mio cuore o nella mia immaginazione.

Basta solo che lui riviva.

 

È tutto buio, ma per fortuna la luna oggi sembra brillare più del solito, illuminandomi il cammino.

 

Sprofondando nel mio sogno proibito, lo rievoco e lui, splendente come non mai, mi conduce in tutti quei posti che sembra avere amato molto: insieme ci sediamo su una vecchia poltrona di cuoio consunto nel suo studio. Lui accarezza il bracciolo e lo stesso fa la mia mano, fondendosi insieme in un unico tocco, mentre il nostro sguardo si volge alla finestra prospiciente la stretta stradina per cui sono giunto, ad osservare incantati la solitudine e il silenzio.

Nella sala d’armi mi indica un arco la cui corda è ancora in perfette condizioni. Uso una freccia per centrare il piccolo bersaglio e lo tendo. Sto per tirare quando vedo scuotere i suoi lunghi capelli in senso di diniego. Allora mi sia avvicina e con le sue mani delicate mi indica la giusta postura. Tiro e il centro è quasi colpito. 

 

La sala da ballo è grande e molto lussuosa, a giudicare dal grande camino e dall’affresco sul soffitto, benché i tendaggi sgualciti, gli arazzi strappati e qualche poltrona in pezzi le dia un’aria tanto decadente e triste. Mi chiedo quanti balli la casa abbia ospitato al tempo del suo fulgore, ma il pavimento, nonostante la polvere, conserva ancora molto della sua lucentezza e deduco così che non molti ballerini devono aver varcato quella soglia.

Lui torna da me, dolcemente mi tende una mano. Inizio a muovermi un po’ goffo <Mi spiace, non sono un gran ballerino. Forse sono meglio come amante> dico, mentre rido soddisfatto per la mia performance amatoria di poco fa.

 

Abbandono la sala da ballo e mi inoltro in uno stretto corridoio secondario per raggiungere la cucina, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

Vana speranza!

Frigoriferi non ce ne sono e comunque non ho mai sentito parlare di alimenti conservabili per duecento anni.

<Amore, io ho tanta fame, evidentemente fare sesso mette appetito. Sai forse dove posso trovare qualcosa da mangiare?>

Mentre esco dalla cucina chiudo gli occhi, affinché la mia mente crei ancora quel sogno dal quale non mi voglio risvegliare, e così accade che lui è ancora vicino a me.

 

Ma questa volta è diverso.

 

Questa volta c’è qualcosa che non va.

 

Questo sogno non mi piace affatto.

 

Lui  è ritto accanto ad una porta in legno malridotto, alla fine dello stretto corridoio fuori dalla cucina.

È immobile e serio, una statua di marmo che mai avevo immaginato.

L’unica cosa che fa è fissarmi con quei suoi occhi tetri e profondi, bui come la notte, neri come l’inferno…

È immobile e serio, non si muove e non parla, ma io lo so, lo sento…

 

…vuole che entri in quella stanza…

 

…vuole che entri……nella cantina…

 

“…no…no…Yohei, no…”

 

…non capisco…

 

“…non andare laggiù…”

 

…perché sto immaginando tutto questo???

 

“…è pericoloso… “

 

NNNNNNNOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!

AIUTAMI, YOHEI!

 

 

…Corro a più non posso…

…corro a perdifiato…

…via, lontano da lì…

…corri, Hanamichi, corri…

…ho paura…

…non lasciare che  ti prendano…

…le ombre parlanti…

…non vedo nulla…

…tappa le orecchie e corri……

 

 

 

 

<…ahn…ahn…ahn…ahn…ahn...>

Mi siedo sul pavimento ansimando per lo sforzo, proprio di fronte alla finestra, spostando a calci le cianfrusaglie che mi ostacolano il cammino.

Voglio solo riposare.

La luna non riesco più a vederla da qui, ma la sua luce ancora mi accompagna facendo un po’ di chiarore…

 

…quassù…

 

Solo adesso mi accorgo di essermi rifugiato in soffitta.

 

Piano piano il mio raziocinio riaffiora in tutta la sua lucidità e di nuovo mi rendo conto che ho fatto ancora la figura dell’idiota, anche se di fronte ai miei soli occhi. Stavo sognando così bene e, chissà perché, mi sono lasciato trascinare in un incubo malefico.

È che mi sono trovato nei presso della cantina, tutto qui.

Bah…mi chiedo quando la smetterò di lasciarmi condizionare dalle mie ansie infantili.

 

Alla domanda non trovo risposta, però una piccola cura potrebbe consistere nel procedere a luce accesa, cura che osservo immediatamente.

Dopo qualche ricerca nel buio, non mi ci vuole molto ad inciamp… ehm…ad imbattermi in candelabro corredato di candele e, dopo qualche bestemmia, a trovare un acciarino.

 

Finalmente un po’ di luce!

 

Mi guardo intorno e tutto sommato devo ammettere che anche in certi momenti assurdi e irrazionali il mio pensiero funziona: in fondo questo è il posto più congeniale di tutto il palazzo, mi ricorda lo stesso caos che in soffitta in casa dei nonni a Kyoto, e questo odore di vecchio e di chiuso mi rammenta le cacce al tesoro che organizzavo coi miei cugini in quella   soffitta. Questo luogo mi è piaciuto sin da quando salì per la prima volta ad attaccare il fazzoletto rosso e onorare la scommessa.

Chissà dov’è finito?! Forse se lo sarà portato via il vento.

 

Mi guardo intorno prima di uscire e tornare nella stanza del mio signore, il cui ritratto giacente sul letto mi chiama con la sua voce muta.

Ma tutt’a un tratto il mio sguardo si posa su un cumulo di carabattole e subito la mia attenzione è catturata da un oggetto in particolare.

A ben vedere non è assolutamente nulla di eccezionale, però io lo osservo a lungo ugualmente.

E solo dopo un momento di incertezza, decido di portarlo giù con me, per osservarlo meglio.

 

 

Seduto sulla poltroncina di velluto rosso accanto al balcone aperto, la luce tremula delle candele proietta la mia ombra sul muro. La mia ombra trema.

È la luce delle candele o sono proprio io?

No, è un effetto ottico, ed è lo stesso effetto che rende tremate la mia mano ai miei occhi. Non sono io.

 

La mia mano sfiora tremando delicatamente l’oggetto raccolto in soffitta e che ha destato la mia più viva curiosità: un libro dalla copertina di elegante seta azzurra.

Lo apre e…

…e resto a bocca aperta quando, dalla prima attenta occhiata, mi rendo conto non è un libro stampato, bensì  un quaderno.

 …e il cuore mi balza nel petto mentre esamino la grafia.

 

Non credendo ai miei occhi, dimentico la cura dovuta verso questo antico reperto e inizio a sfogliarlo convulsamente per cercare di capire. Noto che le prime pagine sono scritte in maniera veloce, quasi febbrile, e l’inchiostro presenta piccole sbavature sbiadite e circolari, come se ci fosse finita sopra dell’acqua …o qualcuno ci avesse pianto sopra.

Più avanti invece la mano diventa più calma, la grafia diventa più leggibile, ma questo non fa che accelerare i battiti del mio cuore, sempre di più, di più, di più.

Sembra voler scoppiarmi dentro.

 

 

Profondamente turbato da ciò che la mia mente non vuole credere, inspiro profondamente e inizio la mia lettura:

 

 

È passata la mezzanotte del 30° giorno, un altro giorno passato senza di te.

Un altro giorno lacerante, passato tra lacrime, disperazione, angoscia, rimorsi.

Perché io ti amo.

Nonostante tutto quello che hai fatto, nonostante tutto quello che ho fatto, io ti amo, e ogni giorno è troppo buio, ogni notte è troppo gelida, da quando tu non sei più qui.

E io non riesco più ad andare avanti, dilaniato tra mille pensieri bianchi e neri: so che è stato giusto quello che ho fatto, ma a che prezzo? La persona che amo non c’è più, e questo è un’atroce tortura.

Troppo atroce da sopportare e io non posso soffrire ancora, non dopo che gli occhi si sono prosciugati e il mio cuore non sanguina più, ormai consunto.

Ma adesso so quello che devo fare.

Il se il gesto che compierò mi aprirà le porte della dannazione eterna, non m’importa, tanto sono dannato comunque.

 

Padre, padre mio, non so che ne sarà di me, sicuramente non ci rivedremo mai più, tu nel paradiso dei giusti, io nell’inferno degli immondi.

Ma ugualmente ti supplico di essermi vicino, di dire una preghiera per me.

Ti supplico di perdonarmi.

Sei l’unico che posso implorare, perché spero con tutto il cuore che tu possa ricordarti di me, nel bene e nel male.

Spero invece che tutti coloro che mi hanno conosciuto possano dimenticare un essere come me, distruttore della felicità propria e altrui.

Anche la mia vita precedente non ha importanza, perché non è vita quella che ho trascorso prima di averti conosciuto.

 

La mia reale esistenza è iniziata quel giorno di aprile.

 

I fiori di ciliegio erano appena sbocciati e io sedevo sul prato soffice e verde, in loro contemplazione, in quel tiepido pomeriggio di primavera.

Lo spettacolo era così bello che mi accorsi di una presenza estranea solo quando sentii i troppo passi troppo vicino a me.

 

Mi comparvero davanti 5 uomini.

 

I loro fisici erano molto robusti, le loro voci aggressive, le loro facce solcate da numerose slabbrate cicatrici, probabilmente frutto di combattimenti operati con quei pugnali e quelle armi dai bordi arrugginiti e scheggiati, che mi agitavano davanti.

 

Ero di fronte a dei briganti, e della peggiore specie!

 

Poco amichevolmente mi chiesero danaro e quando risposi che non ne avevo e che, quand’anche ne avessi avuto, a loro non ne avrei mai dato, mi circondarono dicendo che, giovane e bello com’ero, avrebbero preso qualcos’altro.

 

Furibonda iniziò la lotta tra noi.

 

Benché fossero profondi conoscitori delle arti marziali, quei dannati rimasero sorpresi dalla mia forza e dalla mia astuzia e questo mi permise di metterne fuori combattimento 3, ma ne rimanevano altri 2 e io iniziavo ad essere stanco.

Era difficile lottare e schivare colpi di mazza e di pugnale ma avrei preferito la morte piuttosto che cadere in quelle mani che promettevano indicibili sevizie.

Ad un tratto non potei più continuare e mi accasciai a terra, sentendo un forte dolore alla nuca, mentre la vista che si oscurava pian piano. Fu allora, proprio quando invocai la morte pur di non essere violentato, che mi parve di scorgere un’ombra.

Nonostante il forte dolore, rimasi tanto cosciente da notare che questo qualcuno era accorso in mio aiuto, sbarazzandosi con poche mosse di quei 2 bastardi che avevano osato atterrarmi colpendomi vigliaccamente alle spalle. Qualcuno che mi tese la mano non appena mise in fuga l’ultimo brigante.

Mi valsi dell’aiuto offertomi e mi rialzai.

Mi ritrovai così di fronte a … “un uomo”, avrei detto, vedendo combattere quel leone, considerata la sua statura alta quanto la mia, quindi considerevole, e la sua forza.

Invece il volto tradiva la giovane età, all’incirca quanto la mia. Vale a dire che era poco più che un fanciullo.

 

Scrutai sorpreso il suo viso delicato, la sua corporatura esile, i lunghi capelli corvini, suoi abiti preziosi. Certamente dovevo trovarmi di fronte ad un nobile, forse un principe, anche se non l’avevo mai visto.

Ci guardammo negli occhi, senza dire nulla, poi mi decisi a rivolgergli per primo la parola.

<Chi siete, Signore?> gli chiesi, ardendo dalla curiosità.

 

Mi rispose.

 

Grande fu il mio stupore. Lui era l’ultimo discendente di quel casato che abitava lassù, nel palazzo sulla collina, il nobile ritroso e schivo che quasi nessuno conosceva, quello che discendeva dai pirati, quello su cui circolavano delle strane voci.

Chissà perché dai pettegolezzi di mercanti e servi che in maniera indiretta avevano a che fare con quella famiglia, mi ero immaginato quest’ultimo come un adulto dall’aspetto ripugnante, al pari della sua malvagità, dicevano che qualche principessa a cui aveva chiesto la mano aveva rifiutato categorica.

Invece non era che un ragazzo generoso e  gentile, visto che mi aveva aiutato, e anche…bellissimo.

 

Senza dire una parola fece per voltarsi e andare via, ma io gli gridai di aspettare.

 

<Cosa vuoi?> chiese brusco.

 

Purtroppo le parole non mi uscivano proprio. In fondo non lo sapevo neanche io. Volevo solo ammirare le sue fattezze perfette come avevo fatto con i fiori di ciliegio, prima che quei briganti mi assalissero.

 

<Parla, invece di arrossire come un idiota> mi disse con voce grave, da adulto, che un po’ stonava col suo giovane aspetto.

 

<Non..non sono affatto arrossito…E NON SONO UN IDIOTA!> risposi stizzito, imbarazzato da quel suo atteggiamento sprezzante, ma sempre continuando a guardarlo.

 

Forse infastidito dallo sguardo di un estraneo, parlò

<Smettila di fissarmi in quel modo, idiota. I tuoi salamelecchi non m’interessano ma, se proprio devi ringraziarmi, fallo e poi sparisci>

 

Quale arroganza!

Quell’imbecille stava usando con me lo stesso tono con cui ci si rivolge ad un servo.

 

Io sono orfano.

Grazie all’affetto del mio padre adottivo sono cresciuto in serenità, ma mi sono sempre sentito  un po’ solo, senza una avere vicino una donna da poter chiamare mamma. È proprio per questo che ho sviluppato un carattere fiero e indipendente, al punto di non volere chinare la testa se non solamente di fronte a colui che da solo si è preso cura di me, nemmeno di fronte ai nobili, al passaggio dei quali preferisco andar via piuttosto che prostrarmi, perché io basto a me stesso e nessuno di quei raffinati signori cresciuti nella bambagia sono in gamba quanto me, nessuno ha dovuto lottare per stare al mondo come ho dovuto fare io, dunque nessuno merita la mia stima.

Figuriamoci se avrei permesso a quel ragazzino indisponente di umiliarmi in quel modo.

 

<Io non devo affatto ringraziarvi, signore, non ho chiesto il vostro aiuto!>

 

<Villano maleducato! Se non fosse stato per me a quest’ora saresti nelle mani di quei bruti>

 

<Non era un problema vostro, signore. Non vi ho chiesto io di intervenire e, ve lo assicuro, me la sarei cavata benissimo da solo>

 

<Ah si? E come avresti fatto, visto che ti avevano colpito la testa con quel bastone? … mah, forse hai ragione tu, la tua testa di legno non avrebbe subito un gran danno… E adesso vedi di sparire, pezzente, stai intralciando il mio cammino>

Io rimasi molto colpito da tanta sprezzante alterigia, quindi decisi di restituire il favore colpendolo a mia volta: un pugno volò sulla sua mascella.

<Non azzardarti mai più a usare questo tono con me, hai capito? Non ti ho chiamato io e se non fosse stato per la mia presenza che incute timore reverenziale saresti stato tu, fragile donzelletta, ad essere oggetto del loro deprecabile desiderio e ad implorare il mio aiuto>

Senza dire una parola, mi restituì con un calcio all’addome il dolore davvero lancinante. Non mi aspettavo da un tipo così delicato una tale forza, anche se ne avevo avuto un saggio durante il suo combattimento.

 

Poi, dopo esserci malmenati ben bene, lui proseguì per la sua strada in silenzio, senza rivolgermi nemmeno un insulto, come se non fosse successo nulla o non fossi esistito; io invece tornai a casa borbottando offese al suo indirizzo e imprecando contro i nobili e la loro stramaledetta onnipotenza.

 

“Imbecille, ma chi ha chiamato, chi ti ha chiesto niente, ma chi ti pensa!”

 

Al contrario, per tutta la notte non feci che girarmi e rigirarmi sulla stuoia pensando a quel ragazzo e al suo essere contraddittorio: il suo carattere era generoso ma anche maleducato, il suo aspetto era gentile ma anche altezzoso, le sembianze di un fanciullo ma la voce di un adulto. Gli stessi colori del fisico erano in lotta tra loro: a una pelle tanto candida si contrapponevano dei capelli scurissimi e incastonati nel suo viso d’argento brillavano due occhi neri come non avevo mai visto.

 

Mi chiedevo se lo avrei mai rivisto e, in tal caso, come avrei potuto avvicinarlo senza prendere a calci lui e la sua strafottente arroganza.

 

Inutile negarlo: quel ragazzo mi aveva affascinato, anzi, quasi ipnotizzato. Sarà stato il movimento fluente dei suoi  lunghi capelli neri o forse i suoi occhi cupi e profondi, davvero non so, stava di fatto che io, nonostante gli insulti, smaniavo dalla voglia di vederlo ancora, immaginando il nostro prossimo appuntamento sotto una pioggia di petali rosa, alla luce del tramonto, sussurrando frasi di piacere per esserci rincontrati.

 

Il giorno dopo tornai dunque a sedermi sotto i ciliegi nello stesso luogo, incurante della possibilità di ritrovare quei briganti, anzi, sicuri del fatto che non si sarebbero più fatti rivedere, quindi aspettai…

 

Passò un giorno, due giorni, tre giorni e di lui nessuna traccia.

Mentre la mia tristezza aumentava.

Pensai che non lo avrei rivisto mai più, che forse era stata un’apparizione, una meravigliosa allucinazione dovuta alla botta in testa, insomma, stavo per perdere le speranze quando lui incrociò nuovamente il mio cammino, ma il nostro incontro non fu come me l’ero immaginato.

 

Nel passarmi accanto non solo non mi rivolse la parola, ma neanche mi degnò di un’occhiata, come se fossi stata aria.

A tanta indifferenza io ne contrapposi altrettanta, ma in cuor mio fremevo dalla rabbia, quel presuntuoso non poteva ignorarmi così!

Non appena si fu allontanato, nonostante la mia testa mi ammonisse in continuazione,  abbandonai la mia postazione per seguirlo.

 

Non so quanto tempo trascorse, intento com’ero ad ascoltare il suono del suo passo come se fosse stata una musica dolcissima, ma alla fine giungemmo alla meta: il laghetto ai piedi del versante ovest della collina.

 

Nascosto dai cespugli lo osservai.

Si tolse piano il mantello, poi il tanzen e rimase fermo e immobile a fissare l’acqua, coperto solo da un leggero yukata di seta candido quanto la sua pelle.

Io lo guardavo estasiato.

Poi fece qualcosa che mi fece arrossire: si spogliò dell’ultimo indumento e potei constatare quanto il suo fisico fosse sì più sottile del mio, ma muscoloso e ben tornito, assolutamente perfetto. Poi si avvicinò all’acqua. Sorrisi nel vederlo bagnare un piede e ritrarlo di scatto subito dopo. Capii che aveva freddo, quindi era non era una visione ultraterrena e invulnerabile, bensì era un essere umano anche lui!

 

Rimasi diverso tempo ad osservare la grazia dei suoi movimenti e la serietà del suo volto, ma solo quando il sole divenne di un pallido arancio esclamai: <Accidenti, è ora di cena, il mio venerabile padre mi sgriderà>

 

A quelle parole avrei voluto mordermi la lingua, ma ormai…

 

Mi alzai e feci due passi di corsa quando senti  chiamare <ehi!>

Ricordo che non urlò, ma la sua voce grave l’avrei sentita anche se fosse stata un sussurro.

Mi immobilizzai, imbarazzato.

<Guarda chi si vede – disse, ma senza mostrare alcun piacere per questo fortunato incontro – e tu che ci fai qui?!>

Rimasi in silenzio, mentre il sangue affluiva pian piano su tutto il mio volto.

<Allora – continuò, visto che non mi decidevo a parlare – cosa vuoi da me?>

Pian piano ripresi coraggio

<Io…io nulla, signore, io volevo …semplicemente…>

<Spiarmi!> sibilò inviperito.

<N…no…no signore. Io volevo solo… osservarvi>

<Idiota d’un contadino, come hai osato…>

<Io…io…non  volevo offendervi…volevo solo …volevo ritrarvi> dissi a capo chino per permettergli di rivestirsi senza le mie occhiate indiscrete, per far placare il rossore delle gote senza che lui se ne accorgesse..

<Tu volevi ritrarmi?>

<Si>

<Senza il mio permesso?>

<….s…s…ssi…>

<tu, stupido idiota, non solo stai calpestando una mia proprietà senza la mia autorizzazione, ma mi hai seguito, infine hai cercato di rubare una mia immagine senza il mio permesso.

Forse non lo sai, ma questo potrebbe costarti la vita>

Sempre a capo chino, non riuscii a vedere i suoi occhi ma ne ero sicuro: se avessero potuto, mi avrebbero ucciso, mentre io non volevo altro che un po’ più di attenzione! L’avevo fatto arrabbiare e per di più rischiavo anche la decapitazione.

<Mi dispiace, non volevo essere invadente, né tanto meno offendervi>

<Allora avresti dovuto chiedermi il permesso!>

<Temevo che mi avrebbe risposto di no, signore>

<Temevi in un mio rifiuto, dunque…o sei così orgoglioso che non ti saresti mai abbassato a chiedere una cosa simile?>

<Vi sbagliate, signore, sono orgoglioso ma non maleducato>

<Eppure il tuo gesto fa presumere il contrario>

<Ero sicuro che mi avreste detto di no>

<Ma tu hai voluto perseguire ugualmente il tuo scopo. Uhm…Sei caparbio, non c’è che dire!>

<è vero, signore> dissi con decisione, intuendo che questo mio modo di fare, tutto sommato, lo aveva colpito. Forse favorevolmente.

<Allora, sentiamo: perché volevi ritrarmi? Volevi forse vendere il tuo disegno al migliore offerente?>

Mi indignai a quelle parole e risposi risoluto

<Certamente no, signore>

<Allora perché tanta ostinazione?>

E per la prima volta in vita mia abbassai il capo per la vergogna, di fronte a qualcuno che non era il mio padre putativo

<Lo volevo per me, signore. Lo avrei tenuto con me e non lo avrei mai dato a nessuno>

Sembrò stupito dalle mie parole, poi disse in tono più morbido

<Puoi alzare la testa, sono vestito>

Così feci.

 

Lui finalmente mi guardò negli occhi con fare pensieroso. Ricordo ancora l’inquietudine si per un istante mi attraversò il cuore. Credevo che solo mio padre avesse il potere di mettermi in agitazione semplicemente guardandomi, invece aveva questo potere anche lui.

 

<E sia! Voglio che tu mi ritragga qui, in riva al lago. Se dipingerai un ritratto che mi soddisfi, ti permetterò di dipingerne un altro che terrai per te > sentenziò.

La felicità esplose nel petto, cancellando così quella strana, spiaceva sensazione che per un istante mi aveva trapassato il cuore.

L’unico inconveniente era adesso rappresentato dal mio venerabile padre, il quale, dopo la disavventura con quei briganti, non voleva assolutamente che rimanessi nel bosco fino a tarda ora, e dal lago al villaggio c’era parecchia strada da percorrere!

<…per cui, signore, non potremo lavorare troppo a lungo e ci vorrà più tempo per finire il ritratto> dissi io tutto contento, considerando che avremmo potuto passare più tempo insieme.

 

Trascorsi la notte passata fantasticando su ciò che avremmo detto e fatto, sui complimenti che lui mi avrebbe rivolto, ai ringraziamenti che io gli avrei fatto per avermi salvato, al suggello della nostra “amicizia”.

Al mattino non riuscii a stare fermo un momento: lavorai nei campi con una lena incredibile, aiutai un carpentiere nella costruzione di una casa, svolsi diverse commissioni correndo da un luogo all’altro come il vento, spinto dall’ansia dell’incontro prossimo a venire e dalla necessità di evitare lo sguardo del mio venerabile padre che, ad una sola occhiata, avrebbe capito tutto o quasi leggendolo sul mio  volto. 

Quando finalmente c’incontrammo, lui non fu affettuoso come speravo, in compenso mi aspettava una felicità ben più grande. Quando finimmo lui ebbe premura di dirmi

<…Arriverai col buio. Cosa dirai a tuo padre?>

<Vedrete, signore, me la caverò, ma non possiamo fare altrimenti, la luce che desidera si può avere solo in questo determinato momento della giornata. Ma non dovete preoccuparvi, non mi accadrà nulla, quei banditi le hanno prese di santa ragione, non torneranno più da queste parti, ne sono sicuro. Ci voleva un genio come me per dar loro una lezione, ahahhaha…>

Il signore  mi fissò in volto incurante di ciò che dicevo, poi sentenziò

<Raduna le tue cose. Domani pomeriggio presentati al crocevia col tuo bagaglio. Starai da me fino a quando non avrai finito il quadro, così non dovrai fare tanta strada ogni giorno e il quadro sarà finito in minor tempo>

Il mio cuore esplose di gioia e di timore: se era vero che stare con lui era il  mio desiderio più grande, era anche vero che non avrei saputo cosa dire al mio venerabile vecchio, che da sempre non vedeva troppo di buon occhio gli abitanti del palazzo sulla collina.

 

Nonostante ciò il mio animo non fu offuscato dal problema, avrei trovato una soluzione.

 

Il giorno seguente mi svegliai di buon mattino per compiere le faccende nei campi, ma anche per esaminare meglio la luce dell’alba, in modo da utilizzarla in caso di dipinto, quando mio padre mi si avvicinò improvvisamente.

<Allora figliolo, vuoi dirmi cosa ti sta succedendo?>

<co…co….co… di cosa parlate?>

<È già da alcuni giorni che osservo i tuoi occhi incuriosito.

Sono più luminosi di una stella. Ti è capitato qualcosa di bello?>

 

Tremai.

Se da un lato avrei voluto raccontargli tutto, dall’altro non osavo, conoscendo la sua flemmatica ostilità nei confronti di quella famiglia.

Ma non me la sentii di mentire.

 

<…effettivamente…>

<Lo sai che puoi confidarti con me, vero?>

 

Rimasi in silenzio per un po’, in modo da raccogliere le parole adatte ad esprimere nella maniera più completa ciò che mi era successo quel giorno. 

 

Gli raccontai tutto. Anzi, quasi tutto. Tralasciai di chiarire i miei sentimenti per lui.

 

Il suo volto andava corrugandosi sempre più e alla fine  sentenziò

<L’aura che emana quel territorio è troppo maligna. Non escludo che anche gli abitanti del palazzo lo siano>

<Oh padre, perché ancora con questa storia? È una brava persona, non mi avrebbe aiutato in caso contrario!>

<Tu sai che le mie previsioni non sbagliano>

<Padre, voi non siete un dio. E se vi sbagliaste?>

<Figliolo – disse bonariamente – tu sei molto buono e non riesci a vedere la malvagità negli altri.

Ma ti rendi conto che un cambiamento è già avvenuto in te? Prima non mi avresti mai risposto con così poco riguardo.

Mah… Ieri non ti ho informato che è scomparso un altro viandante. Aveva 19 anni ed era diretto alla cittadina di N***> mi disse, nella speranza che io cambiassi propositi. Ma le mie orecchie oramai erano chiuse a qualsiasi avvertimento.

<Padre, adesso sa che fine fanno quei poveri ragazzi. Per mano di quei 5 briganti io avrei potuto subire la stessa sorte di quei poveri malcapitati. Se sono qui a raccontarvelo lo dovete soltanto a lui>

E con questo chiusi il discorso. Io dovevo andare da lui.

 

Con occhi bassi preparai il mo bagaglio, rassicurando il venerabile sacerdote che sarei rimasto solo per pochi giorni, ma lui continuava a fissarmi come sempre faceva quanto voleva leggermi dentro.

Il mio cuore batteva veloce, ma avrei preferito morire piuttosto che fargli scoprire la reale ragione della mia scelta, quali sentimenti si agitavano in me.

Prima di andar via mio padre mi fermò

<Figliolo, io so. – mi disse – Io ti conosco bene, lo sai. Per questo so che quando ti intestardisci su qualcosa, niente e nessuno può farti cambiare idea. Così come so che noi possiamo essere artefici della nostra vita, ma esiste anche un destino che non può essere cambiato.

Dunque va’, ma ti prego di non dimenticarti di me>

E mi mise in mano un rosario.

<Forse questo ti proteggerà. Io pregherò sempre per te>

E benché il cuore soffrisse nel vedere il suo viso sereno adombrato dal dolore, mi incamminai felice e libero di congiungermi a colui che oramai stava per diventare parte di me.

Se solo avessi dato retta alle sue parole…

 

Ma il mio destino stava per compiersi e niente avrebbe potuto ostacolarlo.

 

Arrivai al crocevia, come avevamo stabilito, riposandomi falla fatica. Il carretto che avevo trascinato fin lì, con tutta la mia roba, era davvero pesante.

Stavo per appisolarmi quando tutt’a un tratto sentii uno strano suono accompagnare dei passetti. No, non era il mo signore, il suo passo era molto diverso.

Mi misi sul chi va là, pronto a scattare, ma non ce ne fu bisogno.

Più che chiamarlo uomo, colui che mi apparve davanti poteva essere chiamato rospo.

La mia statura, come quella del mio adorabile signore, è molto più elevata rispetto alla norma, me ne rendo conto, ma quel soggetto mi arrivava all’ombelico! Inoltre aveva il colorito di uno strano colore giallognolo, l’occhio destro chiuso da una cicatrice, e un’altra cicatrice partiva dall’angolo sinistro della bocca solcando la guancia, atteggiandola le labbra ad un ghigno perenne.

L’aspetto era davvero ripugnante e io desiderai per un momento allontanarmi da quel mostro, se non fosse che si presentò a me come Hiro, al servizio di Sua Eccellenza. Poco più in là mi attendeva una carrozza che mi avrebbe portato da lui.

 

Vincendo il mio disgusto lo seguii, mentre pensavo di non essermi sbagliato sulla personalità del mio amore: era davvero generoso se permetteva ad un tipo simile di rimanere al suo servizio.

Ma mi sbagliai quando pensai che sarebbe stata l’unica “cosa” strana in tutta quella situazione.

 

Che il signore fosse tanto generoso, prendendo come servitù gente un po’ fuori dal comune e che nessuno avrebbe voluto, lo capii giunto al palazzo.

Uno strano individuo venne ad accogliermi, dallo strano accento dagli strani abiti, dallo strano aspetto.

Alto, molto alto, i capelli bianchi come i baffi, viso e mani ossute. Tutto considerato un tipo normale, se non fosse stato per quegli occhi stretti come una fessura. Di certo non erano di un giapponese ma di un occidentale, ed erano di uno strano colore chiaro, quasi bianco, glaciali, che sembravano volessero squartarmi in tanti piccoli pezzettino per arrivare alla mia anima. E poi, magari, disintegrare anche quella. Anche gli occhi del mio signore mi avevano colpito la prima volta che li vidi, anch’essi mi sembrarono cupi, profondi, inquietanti.

Ma questi erano differenti. Così…ostili.

No, io non gli piacevo, era chiaro come il sole. 

 

<Mylord la sta aspettando> e mi condusse in una stanza.

 

Il mio sguardo rimase incollato a quello strano individuo.

Fui distolto da quell’unica voce alle mie spalle, che faceva sobbalzare il mio cuore e che avrei udito anche se fossi stato a mille miglia di distanza.

<È  inglese. È quello che in occidente chiamano “maggiordomo”. È qui da tantissimo tempo, ma ancora si rifiuta di indossare gli abiti locali o di imparare a parlare correntemente la nostra lingua. Con me parla solo in inglese>

<…capisco…>

Mi diede quindi istruzioni su come avrebbe desiderato il dipinto, quale la luce migliore a suo avviso, quale lo scenario, che tipo di veste indossare.

 

Dopo esserci accordati, mi indicò la stanza da letto. Era al secondo piano, l’ultima stanzetta sperduta in fondo a un corridoio. Ma io rifiutai e chiesi di poter dormire al piano più alto della casa, se c’erano letti disponibili. Il signore mi guardò con un’occhiataccia, ma io motivai dicendo che più in alto sarei stato, meglio avrei potuto scrutare il paesaggio ad ogni ora, in modo da studiare uno scenario ideale. Eppoi avrei avuto maggiori possibilità di vedere il mio villaggio e sentirmi vicino a quel padre che, già dopo qualche ora, mi mancava tanto. Il signore acconsentì.

 

Cominciò così la mia vita a palazzo.

 

L’inizio non fu dei più entusiasmanti.

Sebbene ci vedessimo ogni giorno, lui non sembrava prestare la minima attenzione a qualunque cosa dicessi, sciocca o seria che fosse. Quando sedevamo alla stessa tavola per mangiare, lui quasi mai mi rivolgeva la parola, preferendo consumare il suo pasto in silenzio, e qualora cercassi di cavargli qualche parola dialogando a ruota libera e dando voce a tutto ciò che passasse per la mia testa, non ottenevo nessuna reazione, se non un secco “idiota” quando sparavo una baggianata troppo grossa e l’elencazione delle norme comportamentali della casa: obbedire sempre a Sua Eccellenza, non ridere, non parlare, non scherzare in sua presenza, rivolgergli la parola solo se interrogato da costui.

Ogni regola era per me una pugnalata. Come potevo farmi apprezzare da lui senza parlare, senza alterare la mia natura gioiosa e chiacchierona?e poi io non ho mai obbedito alle regole: mio padre doveva usare tutta la sua autorità per farmi rigare diritto.

Ma di regole ce n’erano altre che quel vecchiaccio putrido del maggiordomo mi indicò: non dovevo uscire da palazzo dopo le 10,00 di sera, non dovevo bighellonare per il palazzo ma solo nelle stanze a me riservate, non dovevo girovagare per i territori circostanti se non in quelli indicati dal padrone. Insomma, se non avessi avuto la forza del mio amore a sorreggermi, me ne sarei scappato alla chetichella, perché a volte mi sembrava davvero di essere prigioniero.

<Ma se dipingo per poco tempo al tramonto che posso fare per il resto della giornata? Non c’è un orto o un giardino da curare? Mica posso sempre dipingere! Magari potrei aiutare Sua Altezza nelle sue faccende>

 

<Puoi limitarti a chiamarlo Sua Eccellenza!>

Mi rimbrottò, notando il tono ironico della mia voce. 

 

Con malagrazia quel vecchio bifolco disse che non era assolutamente permesso ad alcuno disturbare Mylord quando era impegnato nei suoi studi.

<Quello studia? E cosa? Forse le buone maniere!>

l’occhiataccia del vecchio corvo non tardò ad arrivare.

<Non è affar tuo. Tu devi attenerti alle regole e dipingere…ammesso che tu sappia dipingere. Finora nessuno è mai riuscito a catturare sulla tela tutto lo splendore del volto di Mylord>

 

Le parole del vecchiaccio mi colpirono. Dovevo impegnarmi di più se volevo fare un’opera eccellente. Solo così mi avrebbe promesso di dipingere il suo volto sulla tela che avrei tenuto con me per sempre.

 

M’impegnai a fare sempre meglio, ad esercitarmi coi pennelli durante le altre ore della giornata, a badare alle faccende che riguardavano la pulizia delle mie stanze e dei miei oggetti personali: benché mio padre mi sgridasse sempre perché non alzavo un dito per aiutarlo, ora sentivo che dovevo farlo per dimostrare che sapevo fare qualsiasi cosa e che non avrei abusato dell’ospitalità concessami. 

 

Intanto finii il primo quadro: un’immagine di lui contemplante il laghetto al tramonto, seduto sull’erba, lo sguardo assorto e triste. Era così bello!

 

Ricordo il cuore, come batteva forte quando bussai alla porta del suo studio.

<Posso entrare?>

<Cosa desideri?> mi chiese, seduto sulla sua poltrona di cuoio col viso rivolto alla finestra.

<Vi ho portato la mia prima opera, signore>

Mi guardò finalmente negli occhi <Vedremo se sei più in gamba con i pennelli o con i pugni>

Il mio orgoglio parlò fiero <con entrambe le cose, signore, io so fare ogni cosa!>

 

Rimase sorpreso.

 

Non lo espresse a parole, ma rimase sorpreso. Una lieve alzata di sopraciglio aveva parlato per lui.

Azzardai a chiedergli se era di suo gradimento, volevo udirlo da quella voce che dispensava tanto di rado, ma che tutte le volte mi faceva rabbrividire di piacere.

 Il mio desiderio non fu soddisfatto.

Lui si limitò a fare un cenno d’assenso con la testa.

<Po…potrei…dunque…di…dipingere quel quadro co…come mi avevate promesso?…cioè qu…quello che …avrei potuto tenere?>

Ci pensò un po’ su e disse di no.

Gli chiesi il motivo, ma lui non rispose. Disse solo che voleva un altro quadro da mettere in qualche altra sala.

Lavorai ancora parecchio per cercare di catturare il signore in tutta la sua regale bellezza, e in questo periodo ricordo che le cose tra noi iniziarono  a cambiare.

Lui non parlava quasi mai, se non per rimproverarmi su qualcosa o per insultarmi con la sua solita aria altezzosa, ma io sapevo che qualcosa stava cambiando.

Lo leggevo nei suoi occhi cupi che mi fissavano quando credeva di non essere scorto, nella sua voce profonda che mi chiedeva sempre più di frequente cosa avessi fatto durante la giornata, nei suoi gesti lenti, che qualcosa stava cambiando.

Lui mi stava accettando. Almeno, così credetti. Così credo ancora, anche se poi mi rendo conto che avevo capito male. Che mi voleva, sì, ma non nel senso che intendevo io.

 

Benché i giorni di primavera si susseguissero dolci e placidi, non sempre potevo dire la stessa cosa del mio umore: quantunque continuassi ad essere come sempre sbruffone e ridanciano, ogni tanto io stesso non mi sentivo più io. Sempre più spesso mi risvegliavo nel mezzo della notte angosciato, agitato, scosso da incubi che, appena sveglio, non ricordavo più. Persino il mio amato, quando dipingevo in sua presenza, mi lanciava strane occhiate e un paio di volte mi chiese se mi fosse successo qualcosa, ma io non seppi mai cosa rispondergli. Certo non potevo parlargli dei sentimenti malsani che nutrivo verso di lui e dell’amara consapevolezza che mai sarebbero stati ricambiati! A questo si aggiungeva il fatto che vivere in quel palazzo significava essere in prigione: l’ultima cosa che avrei voluto fare era sputare sull’ospitalità concessami dal padrone di casa, ma sta di fatto che troppe erano le limitazioni che subivo e, unito al fatto che vantaggi sentimentali ancora non avevo ottenuti, il mio soggiorno diveniva sempre più pesante.

Per non parlare di quei due servi che vivevano in quella casa. A parte alcuni domestici che si vedevano molto di rado e che non abitavano con noi, Hiro e il maggiordomo erano tanto fedeli e servili col padrone, quanto ostili con me.

Qualsiasi cosa errata dicessi o facessi, subito veniva riferita Sua Eccellenza, che puntualmente mi rimbrottava a cena.

E io non ce la facevo più a sopportare le occhiatacce di quei due che spiavano ogni mia mossa, controllavano ogni mio movimento e mi redarguivano duramente qualsiasi cosa dicessi o facessi. Era chiaro: io in quella casa ero l’intruso e dunque non vedevano l’ora che me ne andassi. E se fossi stato un po’ più furbo e meno cieco avrei dovuto seguire il consiglio e tante volte fui sul punto di farlo, dopo una sgridata particolarmente aspra da parte dei domestici o dal padrone,, ma bastava che scorgessi il signore anche per un solo istante e subito il mio cuore tornava a palpitare, rimanendo sordo ai consigli della mia testa.

E non solo…

 

A queste mie preoccupazioni se ne aggiunse un’altra ben più grave: mentre osservavo il volto del mio signore per completare il secondo ritratto, feci una strana scoperta.

<Mio Signore, che vi accade?>

Mi guardò stupito. Nulla, disse, non mi accade nulla.

<Eppure io vi vedo sciupato, lo sguardo stanco, le guance scavate…>

<Non sono mai stato un tipo in carne, lo sai, e non ho mai riso per nulla>

<Si, certo, questo lo so, ma…qualcosa turba forse il vostro animo?>

A queste parole voltò il capo, senza rispondere.

La cosa mi uccise il cuore.

Quali preoccupazioni attanagliavano il cuore del mio signore?

 

Quella sera lo accompagnai nella sua camera da letto, nella quale avevo messo piede rarissime volte e solo per alcuni istanti. Quella sera, avendo l’occasione per soffermarmi un po’ più a lungo, abbi modo di guardarmi attorno e l’impressione che mi fece fu davvero strana: tutto era rosso. Il rosso era il colore predominante della tappezzeria, delle coperte, dei tappeti. Mio malgrado rabbrividii.

<Mi hai portato il latte?> chiese. Era un servigio che compivo di rado.

<Sissignore!>

<Ti piace questa stanza?>

<È…è  molto bella, signore>

<Bugia!>

Era vero, era una bugia, non mi piaceva. Chissà perché sembrava che da tutta quella stanza trasudasse…sangue.

<Posa il vassoio e va’a dormire> mi ordinò, ma non feci ciò che mi chiese. Invece mi avvicinai a lui, che sedeva una poltroncina di velluto rosso sulla soglia del balcone. Dai vetri aperti entrava un’aria dolce e profumata e io mi accucciai vicino alle sue ginocchia, sedendomi a terra. Lui non sembrò infastidito e quindi mi permisi di domandargli <Qualcosa non va, mio signore? Leggo nei vostri occhi preoccupazione e io…io vorrei tanto fare qualcosa per voi!>

Mi guardò intensamente per un attimo e io mi sentì rinascere e morire insieme. Era così bello sentire i suoi occhi su di me, ma allo stesso tempo quelle due perle nerissime erano davvero inquietanti.

L’incantesimo finì in un battibaleno e lui tornò a fissare il buoi panorama sotto di noi.  

 <Per favore, lasciami solo>

Il tono quasi supplichevole, mai usato con me prima d’ora, non mi fece demordere, anzi…

Prostratomi alle sue ginocchia, in un guizzo d’audacia presi le sue mani tra le mie e lo implorai di rilevarmi la causa della sua agitazione. Il mondo sembrò crollarmi addosso quando mi disse che era affetto da una malattia.

<Credo…credo che non guarirò mai più…> disse con la sua voce profonda e triste.

Non è possibile, non è possibile, continuavo ad agitarmi, sempre stringendo convulsamente le mani tra le sue, una cura dovrà pur esserci DEVE esserci, balbettavo disperato. Sapevo che il padre del mio signore era morto giovane a causa della sua salute cagionevole, la mamma neanche sapevo che fine avesse fatto, ma presumevo che anche lei fosse morta a causa della sua non buona salute, e la mia paura più grande era quella di vedere il mio amore languire piano e morire presto, troppo presto a causa di questa scellerata eredità.

<Mio signore, ditemi cosa posso fare per voi e io lo farò! Dovessi scalare montagne o attraversare gli oceani per procurarvi una qualche medicina rara, io lo farò! Farò tutto quello che mi chiederete e io non esiterò. Io non voglio che voi…che voi…>

non riuscì a finire la frase che già copiose le lacrime solcavano il mio viso.

Lui mi guardò sorpreso, poi mi asciugò le lacrime con le sue mani.

Al tocco delle sue fredde dita, sentì le mie guance infiammarsi.

<Pensi che possa morire? No, non credo, anche se ogni giorno è sempre più difficile da sopportare. E la medicina… oh si, c’è un antidoto, ma non è possibile…>

<Non preoccupatevi, io andrò ovunque, sono pronto a partire anche adesso>

Mi sollevai di scatto ma lui mi fermò.

<L’antidoto è più vicino di quanto immagini, ma io…non posso averlo. È impossibile…>

Io ci capivo sempre meno.

Lui distolse lo sguardo dal mio e confessò <Sono innamorato, ma non sono ricambiato>

E io mancai per un istante. Innamorato? E di chi? Chi gli aveva rubato il cuore in maniera tanto subdola? Rimasi gelato dalle sue parole. Qualcuno aveva rubato il suo cuore e io non l’avrei mai avuto. Oh, quanto avrei voluto morire.

Mi accasciai vicino a lui e cercai di confortarlo con parole in realtà destinate a me stesso

<Signore, io vi auguro di trovare la felicità. Se quella che voi amate è la donna del vostro destino, vedrete …che…starete insieme un…un giorno …e…e io…vi auguro ogni…bene. Quindi, non disperate… io sono sicuro che…che un giorno sarete felice… basta solo che lasciate passare del tempo e…e…>

non potei più continuare. Il mio cuore era ridotto in briciole sanguinanti. Piangevo. L’unico che amavo non sarebbe mai stato mio e io non sapevo cosa fare per placare la mia disperazione più nera. Poi disse qualcosa che mi sorprese.

 

<Non è una lei. È un lui> dichiarò senza vergogna. Rimasi senza parole. Chi è chi è chi è chi è, si chiedeva il mio cuore impazzito.

 

<Sei tu. Io…mi sono innamorato di te!>

 

E in un attimo il mio cuore esplose di gioia. Lui era di fronte a me, che mi confessava il suo amore, mentre io non avevo avuto il coraggio di farlo. Questo me lo rese ancora più caro, come se non bastava l’amore che già nutrivo per lui, e in moto folle lo strinsi come se la mia vita fosse finita in quell’istante, dicendogli <Anch’io ti amo…>

 

Si staccò da me e, delicato e  forte insieme, mi tolse gl’indumenti di dosso. Lo stesso feci io con lui, ché la mia eccitazione cresceva sempre più e anelava il più completo appagamento.

 

Quella notte ci amammo.

Non immaginavo che sarebbe stato così bello, dolce, meraviglioso e mai potrò dimenticare. Nonostante tutto ciò che è successo tra noi, mai potrò dimenticare i suoi tocchi audaci e febbrili, i suoi gemiti sensuali, la sua ars amatoria eccelsa. Io non avevo mai fatto l’amore con nessuno ma, pur non avendo termini di confronto, potei dire che fu davvero un maestro nel darmi il piacere più completo, tanto che per un istante mi chiesi se aveva mai avuto un “insegnante” in materia, pensiero subito cancellato dalle sue parole

<Tu per me sei l’unico…>

Nonostante la mia inesperienza, anch’io ricambiai col medesimo ardore. Anch’io volevo dargli tutto il piacere possibile e immaginabile, anche lui era l’unico per me e volevo convincerlo in tutti i modi che avremmo potuto essere felici insieme per tutta la vita, se lui lo avesse voluto. E Donarmi a lui era il solo modo che conoscessi.

 

Ma quella notte  ciò che mai avrei osato immaginare, accadde.

 

Quella sera, su quel letto coperto da una coltre di velluta rossa, fu lui a farmi dono di sé e io credetti che sarebbe stato mio per sempre.

Forse il mio più grande errore è stato proprio questo: aver confidato che con quel gesto lui si sarebbe legato indissolubilmente a me e sarebbe stato mio per sempre. Oggi, col senno di poi, sono consapevole che quella notte, con quel gesto, fui io ad essere legato indissolubilmente a lui, e diventai suo. Per sempre.

 

Finito l’atto in sé, rimanemmo a coccolarci ancora ma, mentre stavo per appisolarmi, lui mi ridisse che sarebbe stato meglio per me se avessi dormito in camera mia.

<…Così non ti sveglierò bruscamente…>

Protestai un po’ ma lui mi spiegò <domani mattina, come tutte le mattine, devo alzarmi presto per proseguire i miei studi e credo che sarebbe brutto se ti svegliassi e non mi trovassi accanto, giusto?> e mi diede un bacino sulla punta delle labbra.

A quel punti colsi l’occasione per chiedergli finalmente di cosa si occupava, di ciò che faceva durante il giorno, quando spariva senza lasciar traccia di sé.

Rispose di buon grado dicendo che studiava il modo di prolungare la vita.

<Allora sei un medico!> domandai.

Non lo era, rispose, perché lui cercava di prolungare la vita attraverso il passaggio da vita a vita.

<Siamo destinati a morire e nulla potrà modificare questo nostro destino, unica cosa certa della nostra vita. Ma possiamo vivere di nuovo qui, su questa terra, senza sostare in alcun inesistente Paradiso o Inferno. E subito, senza attendere alcuno sterile Giudizio Universale>

Le sue parole mi risultarono del tutto oscure. Paradisi? Inferni? Cos’erano? Mi spiegò che nella terra dei suoi avi si crede in un dio che ha creato tutto l’Universo e che tanto tempo prima si incarnò in una donna e da lei nacque. Questo bambino, Gesù si chiamava, oltre a diffondere tra gli uomini gli insegnamenti di dio, avrebbe anche affermato che dopo la morte, i malvagi sarebbero finiti all’inferno, luogo di atroci ed eterne sofferenze, i buoni in paradiso. Ma questa non è che una sosta, in attesa del Giudizio Universale, dopo il quale le anime risorgeranno con i loro corpi e vivranno in eterno.

<E tu credi a tutto questo?> chiesi io.

<Neanche a una parola. Però credo che la nostra vita non venga troncata dalla morte, solo interrotta, e che sia possibile rivivere grazie non certo a chissà quale inesistente entità, bensì grazie  a noi stessi>

Non so con precisione, ma forse fu in quel momento che  vidi il mio signore in una luce del tutto nuova e ignota. Da una parte avevo capito che i suoi studi non erano sciocchezze, ma, d’altra parte, avevo vissuto fino ad allora nel tempio del sacerdote del villaggio e lui mi aveva amato come un figlio, e come ad un figlio aveva trasmesso le sue conoscenze religiose che si discostavano da quelle del mio amore. Non parlo del fatto che i suoi studi prendevano spunto dalla analisi di una religione differente dalla mia, quanto dal fatto che lui parlava con irriverenza di ciò che era sacro e questo…sentivo che non era una cosa buona.

Comunque sia altri giorni trascorsero a palazzo, ma io non capivo perché ancora non stavo bene.   

Eppure di giorno stavo bene! …cioè…più o meno…

Il fatto è che lo vedevo così poco, sempre preso dai suoi studi sulla reincarnazione o qualcosa di simile e il pomeriggio, in quel breve momento della giornata in cui lo ritraevo, era troppo breve.

Certo, poi la sera, dopo una cena generalmente passata a insultarci, momenti in cui quello stupido maggiordomo mi rimproverava sempre, era il momento decisamene più piacevole.

In camera sua, sempre ci crogiolavamo al tepore di quelle dolci serate primaverili, quando il sole tingeva di rosso il cielo e il potenziale erotico del mio amore era sempre ai massimi livelli. In quelle serate, l’aria si faceva incandescente e i nostri gemiti erano la musica più melodiosa. Mai potrò dimenticare le sue mani, le sue parole infuocate, le sue labbra di marmo…

 

Eppure il mio incubo stava per cominciare….

 

Era una notte buia, la falce di luna era solo un sottile squarcio di debole luce nel cielo, poche stelle. Mi svegliai di soprassalto sudato e in preda ad una strana inquietudine e, non capendo il motivo, mi alzai e iniziai a camminare su e giù per la stanza quando…quando ad un tratto sentii degli strani suoni. Stavo per precipitarmi di scatto fuori dalla porta per controllare che nulla fosse successo al mio adorabile signore, quando mi accorsi che quei suoni provenivano dall’esterno.

Allora mi avvicinai alla finestra e tesi l’orecchio…

Anche se quella notte la luna non emetteva luce, vidi strane ombre agitarsi nello spiazzo avanti al portone, e i suoni divennero lamentosi gemiti sofferenti, e le ombre sembravano dimenasi e dibattersi e i lamenti sembravano trasformarsi in pianti soffocati.

Atterrito da quelle visioni allucinate, decisi di capire meglio cosa stesse succedendo.

 

Il mio incubo era appena incominciato…

 

 

 

CONTINUA…

 


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