La carezza del diavolo parte
VII
di Lan
7. MEMORIE DI UN
TRADITORE.
La luna è piena…
È così bella questa
luna…
È così fredda…
Fredda come questo
letto vuoto…
Fredda come me senza
te…
Vieni ancora da me, ti
scongiuro…
Non lasciarmi solo…
Un tremito scuote
repentino il mio corpo, e io mi risveglio da una specie di trance nella
quale sono caduto per permettere ai miei sensi di riprendersi dallo
sfinimento dovuto all’orgasmo e alle tante lacrime.
Ho freddo.
Mi raggomitolo sotto lo
yukata di seta che fino a poco fa ho strapazzato assieme alla coperta di
velluto rosso, e ne respiro l’odore di vecchio e di fresco, felice di
respirare quel profumo che ormai so con assoluta certezza essere il suo.
Perché sono sicuro
anche lo yukata è suo… anche se, a questa affermazione, qualcuno come
Morisawa o Yohei potrebbe darmi del pazzo!
E chi se ne frega!!!
Io sono felice così.
Sono innamorato e ho deciso di arrendermi a questo sentimento nuovo per me,
talmente profondo, dilaniante, travolgente, passionale… so che non lo
proverò mai per nessun’ altro.
Né io voglio provarlo
per nessun’ altro.
Non dopo aver donato
tutto me stesso, anima e corpo, all’unico che voglio davvero.
…anche se mi rendo
conto che è una follia…
Ho freddo.
Mi rannicchio ancora di
più sotto lo yukata, lasciandomi abbracciare dal morbido tessuto,
immaginando ancora che sia il suo abbraccio, evocando di nuovo il suo volto.
Teneramente gli
sorrido.
<Ti è piaciuto?>
Nessuna risposta.
Poco male, rispondo io
per lui.
<Si, ti è piaciuto…>
Sorrido malizioso alla
luna che ora ha lo stesso volto d’argento del mio amante inesistente, mentre
chiudo gli occhi e mi stringo di più al quadro, sotto la veste, come un
bimbetto che non ne vuole sapere di uscire dalla culla.
Mi sento così bene qua
sotto. È come se fossi coccolato incessantemente da amorevoli mani
invisibili.
Dovrei andare adesso.
Si, dovrei davvero
andare, ma…
Ridacchio. Il volto
della luna, che è il volto del mio amore, ridacchia con me.
No, io non ho davvero
intenzione di andare via.
<ahahahahahahahha, io
non me ne vado, né oggi, né domani, né mai.
Io resto qui, amore
mio, resto qui con te, per sempre.
Perché non ho nessuna
intenzione di lasciarti.
Perché TI AMOOOOOOOO.
AHAHAHAHAHAHAH……>
Rido forte, questa
volta, affinché i muri, le ombre, l’aria, possano sentirmi. Affinché quella
presenza che un mese fa avevo tanto temuto di svegliare, si svegli davvero e
mi raggiunga.
Per dirmi che mi ama.
Accarezzo la sua
immagine, cullandomi in quest’angolo di mondo illusorio in cui ho deciso di
rinchiudermi buttando chissà dove la chiave, proprio come aveva profetizzato
Yohei.
<Sai, mio dolcissimo
signore, visto che questa diventerà la mia nuova casa vorrei conoscerla.
Spero che non ti dispiaccia se vado a fare un giretto di perlustrazione.
Anzi, perché non mi accompagni? Ti va?>
Nessuna risposta.
Ancora una volta rispondo io per lui.
<Certo, che ti va>
Indosso lo yukata e
procedo scalzo.
Inizio il mio giro alla
ricerca di tutto ciò che mi parli di lui. È vero che la camera rossa è la
stanza che può farlo meglio di tutte, non solo perché è l’unica conservata
intatta, ma anche perché è l’unica che può rivelarmi i particolari più
intimi della sua vita.
Ma a me ancora non
basta.
Ho capito che dev’essere
stato un amante meraviglioso, chissà quante cose potrebbe raccontarmi il suo
letto, ma io voglio sapere di più.
Voglio conoscerlo
meglio attraverso il suo ambiente quotidiano.
Sono ansioso di toccare
ogni piccola cosa che lui ha toccato, di calpestare il terreno che lui ha
calpestato, di guardare ogni oggetto che lui ha guardato, di respirare la
stessa aria che lui ha respirato.
Voglio vivere nel suo
mondo, affinché lui riviva.
Non importa se nel mio
cuore o nella mia immaginazione.
Basta solo che lui
riviva.
È tutto buio, ma per
fortuna la luna oggi sembra brillare più del solito, illuminandomi il
cammino.
Sprofondando nel mio
sogno proibito, lo rievoco e lui, splendente come non mai, mi conduce in
tutti quei posti che sembra avere amato molto: insieme ci sediamo su una
vecchia poltrona di cuoio consunto nel suo studio. Lui accarezza il
bracciolo e lo stesso fa la mia mano, fondendosi insieme in un unico tocco,
mentre il nostro sguardo si volge alla finestra prospiciente la stretta
stradina per cui sono giunto, ad osservare incantati la solitudine e il
silenzio.
Nella sala d’armi mi
indica un arco la cui corda è ancora in perfette condizioni. Uso una freccia
per centrare il piccolo bersaglio e lo tendo. Sto per tirare quando vedo
scuotere i suoi lunghi capelli in senso di diniego. Allora mi sia avvicina e
con le sue mani delicate mi indica la giusta postura. Tiro e il centro è
quasi colpito.
La sala da ballo è
grande e molto lussuosa, a giudicare dal grande camino e dall’affresco sul
soffitto, benché i tendaggi sgualciti, gli arazzi strappati e qualche
poltrona in pezzi le dia un’aria tanto decadente e triste. Mi chiedo quanti
balli la casa abbia ospitato al tempo del suo fulgore, ma il pavimento,
nonostante la polvere, conserva ancora molto della sua lucentezza e deduco
così che non molti ballerini devono aver varcato quella soglia.
Lui torna da me,
dolcemente mi tende una mano. Inizio a muovermi un po’ goffo <Mi spiace, non
sono un gran ballerino. Forse sono meglio come amante> dico, mentre rido
soddisfatto per la mia performance amatoria di poco fa.
Abbandono la sala da
ballo e mi inoltro in uno stretto corridoio secondario per raggiungere la
cucina, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Vana speranza!
Frigoriferi non ce ne
sono e comunque non ho mai sentito parlare di alimenti conservabili per
duecento anni.
<Amore, io ho tanta
fame, evidentemente fare sesso mette appetito. Sai forse dove posso trovare
qualcosa da mangiare?>
Mentre esco dalla
cucina chiudo gli occhi, affinché la mia mente crei ancora quel sogno dal
quale non mi voglio risvegliare, e così accade che lui è ancora vicino a me.
Ma questa volta è
diverso.
Questa volta c’è
qualcosa che non va.
Questo sogno non mi
piace affatto.
Lui è ritto accanto ad
una porta in legno malridotto, alla fine dello stretto corridoio fuori dalla
cucina.
È immobile e serio, una
statua di marmo che mai avevo immaginato.
L’unica cosa che fa è
fissarmi con quei suoi occhi tetri e profondi, bui come la notte, neri come
l’inferno…
È immobile e serio, non
si muove e non parla, ma io lo so, lo sento…
…vuole che entri in
quella stanza…
…vuole che entri……nella
cantina…
“…no…no…Yohei, no…”
…non capisco…
“…non andare
laggiù…”
…perché sto immaginando
tutto questo???
“…è pericoloso… “
NNNNNNNOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!
AIUTAMI, YOHEI!
…Corro a più non posso…
…corro a perdifiato…
…via, lontano da lì…
…corri, Hanamichi,
corri…
…ho paura…
…non lasciare che ti
prendano…
…le ombre parlanti…
…non vedo nulla…
…tappa le orecchie e
corri……
<…ahn…ahn…ahn…ahn…ahn...>
Mi siedo sul pavimento
ansimando per lo sforzo, proprio di fronte alla finestra, spostando a calci
le cianfrusaglie che mi ostacolano il cammino.
Voglio solo riposare.
La luna non riesco più
a vederla da qui, ma la sua luce ancora mi accompagna facendo un po’ di
chiarore…
…quassù…
Solo adesso mi accorgo
di essermi rifugiato in soffitta.
Piano piano il mio
raziocinio riaffiora in tutta la sua lucidità e di nuovo mi rendo conto che
ho fatto ancora la figura dell’idiota, anche se di fronte ai miei soli
occhi. Stavo sognando così bene e, chissà perché, mi sono lasciato
trascinare in un incubo malefico.
È che mi sono trovato
nei presso della cantina, tutto qui.
Bah…mi chiedo quando la
smetterò di lasciarmi condizionare dalle mie ansie infantili.
Alla domanda non trovo
risposta, però una piccola cura potrebbe consistere nel procedere a luce
accesa, cura che osservo immediatamente.
Dopo qualche ricerca
nel buio, non mi ci vuole molto ad inciamp… ehm…ad imbattermi in candelabro
corredato di candele e, dopo qualche bestemmia, a trovare un acciarino.
Finalmente un po’ di
luce!
Mi guardo intorno e
tutto sommato devo ammettere che anche in certi momenti assurdi e
irrazionali il mio pensiero funziona: in fondo questo è il posto più
congeniale di tutto il palazzo, mi ricorda lo stesso caos che in soffitta in
casa dei nonni a Kyoto, e questo odore di vecchio e di chiuso mi rammenta le
cacce al tesoro che organizzavo coi miei cugini in quella soffitta. Questo
luogo mi è piaciuto sin da quando salì per la prima volta ad attaccare il
fazzoletto rosso e onorare la scommessa.
Chissà dov’è finito?!
Forse se lo sarà portato via il vento.
Mi guardo intorno prima
di uscire e tornare nella stanza del mio signore, il cui ritratto giacente
sul letto mi chiama con la sua voce muta.
Ma tutt’a un tratto il
mio sguardo si posa su un cumulo di carabattole e subito la mia attenzione è
catturata da un oggetto in particolare.
A ben vedere non è
assolutamente nulla di eccezionale, però io lo osservo a lungo ugualmente.
E solo dopo un momento
di incertezza, decido di portarlo giù con me, per osservarlo meglio.
Seduto sulla
poltroncina di velluto rosso accanto al balcone aperto, la luce tremula
delle candele proietta la mia ombra sul muro. La mia ombra trema.
È la luce delle candele
o sono proprio io?
No, è un effetto
ottico, ed è lo stesso effetto che rende tremate la mia mano ai miei occhi.
Non sono io.
La mia mano sfiora
tremando delicatamente l’oggetto raccolto in soffitta e che ha destato la
mia più viva curiosità: un libro dalla copertina di elegante seta azzurra.
Lo apre e…
…e resto a bocca aperta
quando, dalla prima attenta occhiata, mi rendo conto non è un libro
stampato, bensì un quaderno.
…e il cuore mi balza
nel petto mentre esamino la grafia.
Non credendo ai miei
occhi, dimentico la cura dovuta verso questo antico reperto e inizio a
sfogliarlo convulsamente per cercare di capire. Noto che le prime pagine
sono scritte in maniera veloce, quasi febbrile, e l’inchiostro presenta
piccole sbavature sbiadite e circolari, come se ci fosse finita sopra
dell’acqua …o qualcuno ci avesse pianto sopra.
Più avanti invece la
mano diventa più calma, la grafia diventa più leggibile, ma questo non fa
che accelerare i battiti del mio cuore, sempre di più, di più, di più.
Sembra voler scoppiarmi
dentro.
Profondamente turbato
da ciò che la mia mente non vuole credere, inspiro profondamente e inizio la
mia lettura:
È passata la
mezzanotte del 30° giorno, un altro giorno passato senza di te.
Un altro giorno
lacerante, passato tra lacrime, disperazione, angoscia, rimorsi.
Perché io ti amo.
Nonostante tutto
quello che hai fatto, nonostante tutto quello che ho fatto, io ti amo, e
ogni giorno è troppo buio, ogni notte è troppo gelida, da quando tu non sei
più qui.
E io non riesco più
ad andare avanti, dilaniato tra mille pensieri bianchi e neri: so che è
stato giusto quello che ho fatto, ma a che prezzo? La persona che amo non
c’è più, e questo è un’atroce tortura.
Troppo atroce da
sopportare e io non posso soffrire ancora, non dopo che gli occhi si sono
prosciugati e il mio cuore non sanguina più, ormai consunto.
Ma adesso so quello
che devo fare.
Il se il gesto che
compierò mi aprirà le porte della dannazione eterna, non m’importa, tanto
sono dannato comunque.
Padre, padre mio,
non so che ne sarà di me, sicuramente non ci rivedremo mai più, tu nel
paradiso dei giusti, io nell’inferno degli immondi.
Ma ugualmente ti
supplico di essermi vicino, di dire una preghiera per me.
Ti supplico di
perdonarmi.
Sei l’unico che
posso implorare, perché spero con tutto il cuore che tu possa ricordarti di
me, nel bene e nel male.
Spero invece che
tutti coloro che mi hanno conosciuto possano dimenticare un essere come me,
distruttore della felicità propria e altrui.
Anche la mia vita
precedente non ha importanza, perché non è vita quella che ho trascorso
prima di averti conosciuto.
La mia reale
esistenza è iniziata quel giorno di aprile.
I fiori di ciliegio
erano appena sbocciati e io sedevo sul prato soffice e verde, in loro
contemplazione, in quel tiepido pomeriggio di primavera.
Lo spettacolo era
così bello che mi accorsi di una presenza estranea solo quando sentii i
troppo passi troppo vicino a me.
Mi comparvero
davanti 5 uomini.
I loro fisici erano
molto robusti, le loro voci aggressive, le loro facce solcate da numerose
slabbrate cicatrici, probabilmente frutto di combattimenti operati con quei
pugnali e quelle armi dai bordi arrugginiti e scheggiati, che mi agitavano
davanti.
Ero di fronte a dei
briganti, e della peggiore specie!
Poco amichevolmente
mi chiesero danaro e quando risposi che non ne avevo e che, quand’anche ne
avessi avuto, a loro non ne avrei mai dato, mi circondarono dicendo che,
giovane e bello com’ero, avrebbero preso qualcos’altro.
Furibonda iniziò la
lotta tra noi.
Benché fossero
profondi conoscitori delle arti marziali, quei dannati rimasero sorpresi
dalla mia forza e dalla mia astuzia e questo mi permise di metterne fuori
combattimento 3, ma ne rimanevano altri 2 e io iniziavo ad essere stanco.
Era difficile
lottare e schivare colpi di mazza e di pugnale ma avrei preferito la morte
piuttosto che cadere in quelle mani che promettevano indicibili sevizie.
Ad un tratto non
potei più continuare e mi accasciai a terra, sentendo un forte dolore alla
nuca, mentre la vista che si oscurava pian piano. Fu allora, proprio quando
invocai la morte pur di non essere violentato, che mi parve di scorgere
un’ombra.
Nonostante il forte
dolore, rimasi tanto cosciente da notare che questo qualcuno era accorso in
mio aiuto, sbarazzandosi con poche mosse di quei 2 bastardi che avevano
osato atterrarmi colpendomi vigliaccamente alle spalle. Qualcuno che mi tese
la mano non appena mise in fuga l’ultimo brigante.
Mi valsi dell’aiuto
offertomi e mi rialzai.
Mi ritrovai così di
fronte a … “un uomo”, avrei detto, vedendo combattere quel leone,
considerata la sua statura alta quanto la mia, quindi considerevole, e la
sua forza.
Invece il volto
tradiva la giovane età, all’incirca quanto la mia. Vale a dire che era poco
più che un fanciullo.
Scrutai sorpreso il
suo viso delicato, la sua corporatura esile, i lunghi capelli corvini, suoi
abiti preziosi. Certamente dovevo trovarmi di fronte ad un nobile, forse un
principe, anche se non l’avevo mai visto.
Ci guardammo negli
occhi, senza dire nulla, poi mi decisi a rivolgergli per primo la parola.
<Chi siete,
Signore?> gli chiesi, ardendo dalla curiosità.
Mi rispose.
Grande fu il mio
stupore. Lui era l’ultimo discendente di quel casato che abitava lassù, nel
palazzo sulla collina, il nobile ritroso e schivo che quasi nessuno
conosceva, quello che discendeva dai pirati, quello su cui circolavano delle
strane voci.
Chissà perché dai
pettegolezzi di mercanti e servi che in maniera indiretta avevano a che fare
con quella famiglia, mi ero immaginato quest’ultimo come un adulto
dall’aspetto ripugnante, al pari della sua malvagità, dicevano che qualche
principessa a cui aveva chiesto la mano aveva rifiutato categorica.
Invece non era che
un ragazzo generoso e gentile, visto che mi aveva aiutato, e
anche…bellissimo.
Senza dire una
parola fece per voltarsi e andare via, ma io gli gridai di aspettare.
<Cosa vuoi?> chiese
brusco.
Purtroppo le parole
non mi uscivano proprio. In fondo non lo sapevo neanche io. Volevo solo
ammirare le sue fattezze perfette come avevo fatto con i fiori di ciliegio,
prima che quei briganti mi assalissero.
<Parla, invece di
arrossire come un idiota> mi disse con voce grave, da adulto, che un po’
stonava col suo giovane aspetto.
<Non..non sono
affatto arrossito…E NON SONO UN IDIOTA!> risposi stizzito, imbarazzato da
quel suo atteggiamento sprezzante, ma sempre continuando a guardarlo.
Forse infastidito
dallo sguardo di un estraneo, parlò
<Smettila di
fissarmi in quel modo, idiota. I tuoi salamelecchi non m’interessano ma, se
proprio devi ringraziarmi, fallo e poi sparisci>
Quale arroganza!
Quell’imbecille
stava usando con me lo stesso tono con cui ci si rivolge ad un servo.
Io sono orfano.
Grazie all’affetto
del mio padre adottivo sono cresciuto in serenità, ma mi sono sempre
sentito un po’ solo, senza una avere vicino una donna da poter chiamare
mamma. È proprio per questo che ho sviluppato un carattere fiero e
indipendente, al punto di non volere chinare la testa se non solamente di
fronte a colui che da solo si è preso cura di me, nemmeno di fronte ai
nobili, al passaggio dei quali preferisco andar via piuttosto che
prostrarmi, perché io basto a me stesso e nessuno di quei raffinati signori
cresciuti nella bambagia sono in gamba quanto me, nessuno ha dovuto lottare
per stare al mondo come ho dovuto fare io, dunque nessuno merita la mia
stima.
Figuriamoci se avrei
permesso a quel ragazzino indisponente di umiliarmi in quel modo.
<Io non devo affatto
ringraziarvi, signore, non ho chiesto il vostro aiuto!>
<Villano maleducato!
Se non fosse stato per me a quest’ora saresti nelle mani di quei bruti>
<Non era un problema
vostro, signore. Non vi ho chiesto io di intervenire e, ve lo assicuro, me
la sarei cavata benissimo da solo>
<Ah si? E come
avresti fatto, visto che ti avevano colpito la testa con quel bastone? …
mah, forse hai ragione tu, la tua testa di legno non avrebbe subito un gran
danno… E adesso vedi di sparire, pezzente, stai intralciando il mio cammino>
Io rimasi molto
colpito da tanta sprezzante alterigia, quindi decisi di restituire il favore
colpendolo a mia volta: un pugno volò sulla sua mascella.
<Non azzardarti mai
più a usare questo tono con me, hai capito? Non ti ho chiamato io e se non
fosse stato per la mia presenza che incute timore reverenziale saresti stato
tu, fragile donzelletta, ad essere oggetto del loro deprecabile desiderio e
ad implorare il mio aiuto>
Senza dire una
parola, mi restituì con un calcio all’addome il dolore davvero lancinante.
Non mi aspettavo da un tipo così delicato una tale forza, anche se ne avevo
avuto un saggio durante il suo combattimento.
Poi, dopo esserci
malmenati ben bene, lui proseguì per la sua strada in silenzio, senza
rivolgermi nemmeno un insulto, come se non fosse successo nulla o non fossi
esistito; io invece tornai a casa borbottando offese al suo indirizzo e
imprecando contro i nobili e la loro stramaledetta onnipotenza.
“Imbecille, ma chi
ha chiamato, chi ti ha chiesto niente, ma chi ti pensa!”
Al contrario, per
tutta la notte non feci che girarmi e rigirarmi sulla stuoia pensando a quel
ragazzo e al suo essere contraddittorio: il suo carattere era generoso ma
anche maleducato, il suo aspetto era gentile ma anche altezzoso, le
sembianze di un fanciullo ma la voce di un adulto. Gli stessi colori del
fisico erano in lotta tra loro: a una pelle tanto candida si contrapponevano
dei capelli scurissimi e incastonati nel suo viso d’argento brillavano due
occhi neri come non avevo mai visto.
Mi chiedevo se lo
avrei mai rivisto e, in tal caso, come avrei potuto avvicinarlo senza
prendere a calci lui e la sua strafottente arroganza.
Inutile negarlo:
quel ragazzo mi aveva affascinato, anzi, quasi ipnotizzato. Sarà stato il
movimento fluente dei suoi lunghi capelli neri o forse i suoi occhi cupi e
profondi, davvero non so, stava di fatto che io, nonostante gli insulti,
smaniavo dalla voglia di vederlo ancora, immaginando il nostro prossimo
appuntamento sotto una pioggia di petali rosa, alla luce del tramonto,
sussurrando frasi di piacere per esserci rincontrati.
Il giorno dopo
tornai dunque a sedermi sotto i ciliegi nello stesso luogo, incurante della
possibilità di ritrovare quei briganti, anzi, sicuri del fatto che non si
sarebbero più fatti rivedere, quindi aspettai…
Passò un giorno, due
giorni, tre giorni e di lui nessuna traccia.
Mentre la mia
tristezza aumentava.
Pensai che non lo
avrei rivisto mai più, che forse era stata un’apparizione, una meravigliosa
allucinazione dovuta alla botta in testa, insomma, stavo per perdere le
speranze quando lui incrociò nuovamente il mio cammino, ma il nostro
incontro non fu come me l’ero immaginato.
Nel passarmi accanto
non solo non mi rivolse la parola, ma neanche mi degnò di un’occhiata, come
se fossi stata aria.
A tanta indifferenza
io ne contrapposi altrettanta, ma in cuor mio fremevo dalla rabbia, quel
presuntuoso non poteva ignorarmi così!
Non appena si fu
allontanato, nonostante la mia testa mi ammonisse in continuazione,
abbandonai la mia postazione per seguirlo.
Non so quanto tempo
trascorse, intento com’ero ad ascoltare il suono del suo passo come se fosse
stata una musica dolcissima, ma alla fine giungemmo alla meta: il laghetto
ai piedi del versante ovest della collina.
Nascosto dai
cespugli lo osservai.
Si tolse piano il
mantello, poi il tanzen e rimase fermo e immobile a fissare l’acqua, coperto
solo da un leggero yukata di seta candido quanto la sua pelle.
Io lo guardavo
estasiato.
Poi fece qualcosa
che mi fece arrossire: si spogliò dell’ultimo indumento e potei constatare
quanto il suo fisico fosse sì più sottile del mio, ma muscoloso e ben
tornito, assolutamente perfetto. Poi si avvicinò all’acqua. Sorrisi nel
vederlo bagnare un piede e ritrarlo di scatto subito dopo. Capii che aveva
freddo, quindi era non era una visione ultraterrena e invulnerabile, bensì
era un essere umano anche lui!
Rimasi diverso tempo
ad osservare la grazia dei suoi movimenti e la serietà del suo volto, ma
solo quando il sole divenne di un pallido arancio esclamai: <Accidenti, è
ora di cena, il mio venerabile padre mi sgriderà>
A quelle parole
avrei voluto mordermi la lingua, ma ormai…
Mi alzai e feci due
passi di corsa quando senti chiamare <ehi!>
Ricordo che non
urlò, ma la sua voce grave l’avrei sentita anche se fosse stata un sussurro.
Mi immobilizzai,
imbarazzato.
<Guarda chi si vede
– disse, ma senza mostrare alcun piacere per questo fortunato incontro – e
tu che ci fai qui?!>
Rimasi in silenzio,
mentre il sangue affluiva pian piano su tutto il mio volto.
<Allora – continuò,
visto che non mi decidevo a parlare – cosa vuoi da me?>
Pian piano ripresi
coraggio
<Io…io nulla,
signore, io volevo …semplicemente…>
<Spiarmi!> sibilò
inviperito.
<N…no…no signore. Io
volevo solo… osservarvi>
<Idiota d’un
contadino, come hai osato…>
<Io…io…non volevo
offendervi…volevo solo …volevo ritrarvi> dissi a capo chino per permettergli
di rivestirsi senza le mie occhiate indiscrete, per far placare il rossore
delle gote senza che lui se ne accorgesse..
<Tu volevi
ritrarmi?>
<Si>
<Senza il mio
permesso?>
<….s…s…ssi…>
<tu, stupido idiota,
non solo stai calpestando una mia proprietà senza la mia autorizzazione, ma
mi hai seguito, infine hai cercato di rubare una mia immagine senza il mio
permesso.
Forse non lo sai, ma
questo potrebbe costarti la vita>
Sempre a capo chino,
non riuscii a vedere i suoi occhi ma ne ero sicuro: se avessero potuto, mi
avrebbero ucciso, mentre io non volevo altro che un po’ più di attenzione!
L’avevo fatto arrabbiare e per di più rischiavo anche la decapitazione.
<Mi dispiace, non
volevo essere invadente, né tanto meno offendervi>
<Allora avresti
dovuto chiedermi il permesso!>
<Temevo che mi
avrebbe risposto di no, signore>
<Temevi in un mio
rifiuto, dunque…o sei così orgoglioso che non ti saresti mai abbassato a
chiedere una cosa simile?>
<Vi sbagliate,
signore, sono orgoglioso ma non maleducato>
<Eppure il tuo gesto
fa presumere il contrario>
<Ero sicuro che mi
avreste detto di no>
<Ma tu hai voluto
perseguire ugualmente il tuo scopo. Uhm…Sei caparbio, non c’è che dire!>
<è vero, signore>
dissi con decisione, intuendo che questo mio modo di fare, tutto sommato, lo
aveva colpito. Forse favorevolmente.
<Allora, sentiamo:
perché volevi ritrarmi? Volevi forse vendere il tuo disegno al migliore
offerente?>
Mi indignai a quelle
parole e risposi risoluto
<Certamente no,
signore>
<Allora perché tanta
ostinazione?>
E per la prima volta
in vita mia abbassai il capo per la vergogna, di fronte a qualcuno che non
era il mio padre putativo
<Lo volevo per me,
signore. Lo avrei tenuto con me e non lo avrei mai dato a nessuno>
Sembrò stupito dalle
mie parole, poi disse in tono più morbido
<Puoi alzare la
testa, sono vestito>
Così feci.
Lui finalmente mi
guardò negli occhi con fare pensieroso. Ricordo ancora l’inquietudine si per
un istante mi attraversò il cuore. Credevo che solo mio padre avesse il
potere di mettermi in agitazione semplicemente guardandomi, invece aveva
questo potere anche lui.
<E sia! Voglio che
tu mi ritragga qui, in riva al lago. Se dipingerai un ritratto che mi
soddisfi, ti permetterò di dipingerne un altro che terrai per te >
sentenziò.
La felicità esplose
nel petto, cancellando così quella strana, spiaceva sensazione che per un
istante mi aveva trapassato il cuore.
L’unico
inconveniente era adesso rappresentato dal mio venerabile padre, il quale,
dopo la disavventura con quei briganti, non voleva assolutamente che
rimanessi nel bosco fino a tarda ora, e dal lago al villaggio c’era
parecchia strada da percorrere!
<…per cui, signore,
non potremo lavorare troppo a lungo e ci vorrà più tempo per finire il
ritratto> dissi io tutto contento, considerando che avremmo potuto passare
più tempo insieme.
Trascorsi la notte
passata fantasticando su ciò che avremmo detto e fatto, sui complimenti che
lui mi avrebbe rivolto, ai ringraziamenti che io gli avrei fatto per avermi
salvato, al suggello della nostra “amicizia”.
Al mattino non
riuscii a stare fermo un momento: lavorai nei campi con una lena
incredibile, aiutai un carpentiere nella costruzione di una casa, svolsi
diverse commissioni correndo da un luogo all’altro come il vento, spinto
dall’ansia dell’incontro prossimo a venire e dalla necessità di evitare lo
sguardo del mio venerabile padre che, ad una sola occhiata, avrebbe capito
tutto o quasi leggendolo sul mio volto.
Quando finalmente
c’incontrammo, lui non fu affettuoso come speravo, in compenso mi aspettava
una felicità ben più grande. Quando finimmo lui ebbe premura di dirmi
<…Arriverai col
buio. Cosa dirai a tuo padre?>
<Vedrete, signore,
me la caverò, ma non possiamo fare altrimenti, la luce che desidera si può
avere solo in questo determinato momento della giornata. Ma non dovete
preoccuparvi, non mi accadrà nulla, quei banditi le hanno prese di santa
ragione, non torneranno più da queste parti, ne sono sicuro. Ci voleva un
genio come me per dar loro una lezione, ahahhaha…>
Il signore mi fissò
in volto incurante di ciò che dicevo, poi sentenziò
<Raduna le tue cose.
Domani pomeriggio presentati al crocevia col tuo bagaglio. Starai da me fino
a quando non avrai finito il quadro, così non dovrai fare tanta strada ogni
giorno e il quadro sarà finito in minor tempo>
Il mio cuore esplose
di gioia e di timore: se era vero che stare con lui era il mio desiderio
più grande, era anche vero che non avrei saputo cosa dire al mio venerabile
vecchio, che da sempre non vedeva troppo di buon occhio gli abitanti del
palazzo sulla collina.
Nonostante ciò il
mio animo non fu offuscato dal problema, avrei trovato una soluzione.
Il giorno seguente
mi svegliai di buon mattino per compiere le faccende nei campi, ma anche per
esaminare meglio la luce dell’alba, in modo da utilizzarla in caso di
dipinto, quando mio padre mi si avvicinò improvvisamente.
<Allora figliolo,
vuoi dirmi cosa ti sta succedendo?>
<co…co….co… di cosa
parlate?>
<È già da alcuni
giorni che osservo i tuoi occhi incuriosito.
Sono più luminosi di
una stella. Ti è capitato qualcosa di bello?>
Tremai.
Se da un lato avrei
voluto raccontargli tutto, dall’altro non osavo, conoscendo la sua
flemmatica ostilità nei confronti di quella famiglia.
Ma non me la sentii
di mentire.
<…effettivamente…>
<Lo sai che puoi
confidarti con me, vero?>
Rimasi in silenzio
per un po’, in modo da raccogliere le parole adatte ad esprimere nella
maniera più completa ciò che mi era successo quel giorno.
Gli raccontai tutto.
Anzi, quasi tutto. Tralasciai di chiarire i miei sentimenti per lui.
Il suo volto andava
corrugandosi sempre più e alla fine sentenziò
<L’aura che emana
quel territorio è troppo maligna. Non escludo che anche gli abitanti del
palazzo lo siano>
<Oh padre, perché
ancora con questa storia? È una brava persona, non mi avrebbe aiutato in
caso contrario!>
<Tu sai che le mie
previsioni non sbagliano>
<Padre, voi non
siete un dio. E se vi sbagliaste?>
<Figliolo – disse
bonariamente – tu sei molto buono e non riesci a vedere la malvagità negli
altri.
Ma ti rendi conto
che un cambiamento è già avvenuto in te? Prima non mi avresti mai risposto
con così poco riguardo.
Mah… Ieri non ti ho
informato che è scomparso un altro viandante. Aveva 19 anni ed era diretto
alla cittadina di N***> mi disse, nella speranza che io cambiassi propositi.
Ma le mie orecchie oramai erano chiuse a qualsiasi avvertimento.
<Padre, adesso sa
che fine fanno quei poveri ragazzi. Per mano di quei 5 briganti io avrei
potuto subire la stessa sorte di quei poveri malcapitati. Se sono qui a
raccontarvelo lo dovete soltanto a lui>
E con questo chiusi
il discorso. Io dovevo andare da lui.
Con occhi bassi
preparai il mo bagaglio, rassicurando il venerabile sacerdote che sarei
rimasto solo per pochi giorni, ma lui continuava a fissarmi come sempre
faceva quanto voleva leggermi dentro.
Il mio cuore batteva
veloce, ma avrei preferito morire piuttosto che fargli scoprire la reale
ragione della mia scelta, quali sentimenti si agitavano in me.
Prima di andar via
mio padre mi fermò
<Figliolo, io so. –
mi disse – Io ti conosco bene, lo sai. Per questo so che quando ti
intestardisci su qualcosa, niente e nessuno può farti cambiare idea. Così
come so che noi possiamo essere artefici della nostra vita, ma esiste anche
un destino che non può essere cambiato.
Dunque va’, ma ti
prego di non dimenticarti di me>
E mi mise in mano un
rosario.
<Forse questo ti
proteggerà. Io pregherò sempre per te>
E benché il cuore
soffrisse nel vedere il suo viso sereno adombrato dal dolore, mi incamminai
felice e libero di congiungermi a colui che oramai stava per diventare parte
di me.
Se solo avessi dato
retta alle sue parole…
Ma il mio destino
stava per compiersi e niente avrebbe potuto ostacolarlo.
Arrivai al crocevia,
come avevamo stabilito, riposandomi falla fatica. Il carretto che avevo
trascinato fin lì, con tutta la mia roba, era davvero pesante.
Stavo per
appisolarmi quando tutt’a un tratto sentii uno strano suono accompagnare dei
passetti. No, non era il mo signore, il suo passo era molto diverso.
Mi misi sul chi va
là, pronto a scattare, ma non ce ne fu bisogno.
Più che chiamarlo
uomo, colui che mi apparve davanti poteva essere chiamato rospo.
La mia statura, come
quella del mio adorabile signore, è molto più elevata rispetto alla norma,
me ne rendo conto, ma quel soggetto mi arrivava all’ombelico! Inoltre aveva
il colorito di uno strano colore giallognolo, l’occhio destro chiuso da una
cicatrice, e un’altra cicatrice partiva dall’angolo sinistro della bocca
solcando la guancia, atteggiandola le labbra ad un ghigno perenne.
L’aspetto era
davvero ripugnante e io desiderai per un momento allontanarmi da quel
mostro, se non fosse che si presentò a me come Hiro, al servizio di Sua
Eccellenza. Poco più in là mi attendeva una carrozza che mi avrebbe portato
da lui.
Vincendo il mio
disgusto lo seguii, mentre pensavo di non essermi sbagliato sulla
personalità del mio amore: era davvero generoso se permetteva ad un tipo
simile di rimanere al suo servizio.
Ma mi sbagliai
quando pensai che sarebbe stata l’unica “cosa” strana in tutta quella
situazione.
Che il signore fosse
tanto generoso, prendendo come servitù gente un po’ fuori dal comune e che
nessuno avrebbe voluto, lo capii giunto al palazzo.
Uno strano individuo
venne ad accogliermi, dallo strano accento dagli strani abiti, dallo strano
aspetto.
Alto, molto alto, i
capelli bianchi come i baffi, viso e mani ossute. Tutto considerato un tipo
normale, se non fosse stato per quegli occhi stretti come una fessura. Di
certo non erano di un giapponese ma di un occidentale, ed erano di uno
strano colore chiaro, quasi bianco, glaciali, che sembravano volessero
squartarmi in tanti piccoli pezzettino per arrivare alla mia anima. E poi,
magari, disintegrare anche quella. Anche gli occhi del mio signore mi
avevano colpito la prima volta che li vidi, anch’essi mi sembrarono cupi,
profondi, inquietanti.
Ma questi erano
differenti. Così…ostili.
No, io non gli
piacevo, era chiaro come il sole.
<Mylord la sta
aspettando> e mi condusse in una stanza.
Il mio sguardo
rimase incollato a quello strano individuo.
Fui distolto da
quell’unica voce alle mie spalle, che faceva sobbalzare il mio cuore e che
avrei udito anche se fossi stato a mille miglia di distanza.
<È inglese. È
quello che in occidente chiamano “maggiordomo”. È qui da tantissimo tempo,
ma ancora si rifiuta di indossare gli abiti locali o di imparare a parlare
correntemente la nostra lingua. Con me parla solo in inglese>
<…capisco…>
Mi diede quindi
istruzioni su come avrebbe desiderato il dipinto, quale la luce migliore a
suo avviso, quale lo scenario, che tipo di veste indossare.
Dopo esserci
accordati, mi indicò la stanza da letto. Era al secondo piano, l’ultima
stanzetta sperduta in fondo a un corridoio. Ma io rifiutai e chiesi di poter
dormire al piano più alto della casa, se c’erano letti disponibili. Il
signore mi guardò con un’occhiataccia, ma io motivai dicendo che più in alto
sarei stato, meglio avrei potuto scrutare il paesaggio ad ogni ora, in modo
da studiare uno scenario ideale. Eppoi avrei avuto maggiori possibilità di
vedere il mio villaggio e sentirmi vicino a quel padre che, già dopo qualche
ora, mi mancava tanto. Il signore acconsentì.
Cominciò così la mia
vita a palazzo.
L’inizio non fu dei
più entusiasmanti.
Sebbene ci vedessimo
ogni giorno, lui non sembrava prestare la minima attenzione a qualunque cosa
dicessi, sciocca o seria che fosse. Quando sedevamo alla stessa tavola per
mangiare, lui quasi mai mi rivolgeva la parola, preferendo consumare il suo
pasto in silenzio, e qualora cercassi di cavargli qualche parola dialogando
a ruota libera e dando voce a tutto ciò che passasse per la mia testa, non
ottenevo nessuna reazione, se non un secco “idiota” quando sparavo una
baggianata troppo grossa e l’elencazione delle norme comportamentali della
casa: obbedire sempre a Sua Eccellenza, non ridere, non parlare, non
scherzare in sua presenza, rivolgergli la parola solo se interrogato da
costui.
Ogni regola era per
me una pugnalata. Come potevo farmi apprezzare da lui senza parlare, senza
alterare la mia natura gioiosa e chiacchierona?e poi io non ho mai obbedito
alle regole: mio padre doveva usare tutta la sua autorità per farmi rigare
diritto.
Ma di regole ce
n’erano altre che quel vecchiaccio putrido del maggiordomo mi indicò: non
dovevo uscire da palazzo dopo le 10,00 di sera, non dovevo bighellonare per
il palazzo ma solo nelle stanze a me riservate, non dovevo girovagare per i
territori circostanti se non in quelli indicati dal padrone. Insomma, se non
avessi avuto la forza del mio amore a sorreggermi, me ne sarei scappato alla
chetichella, perché a volte mi sembrava davvero di essere prigioniero.
<Ma se dipingo per
poco tempo al tramonto che posso fare per il resto della giornata? Non c’è
un orto o un giardino da curare? Mica posso sempre dipingere! Magari potrei
aiutare Sua Altezza nelle sue faccende>
<Puoi limitarti a
chiamarlo Sua Eccellenza!>
Mi rimbrottò,
notando il tono ironico della mia voce.
Con malagrazia quel
vecchio bifolco disse che non era assolutamente permesso ad alcuno
disturbare Mylord quando era impegnato nei suoi studi.
<Quello studia? E
cosa? Forse le buone maniere!>
l’occhiataccia del
vecchio corvo non tardò ad arrivare.
<Non è affar tuo. Tu
devi attenerti alle regole e dipingere…ammesso che tu sappia dipingere.
Finora nessuno è mai riuscito a catturare sulla tela tutto lo splendore del
volto di Mylord>
Le parole del
vecchiaccio mi colpirono. Dovevo impegnarmi di più se volevo fare un’opera
eccellente. Solo così mi avrebbe promesso di dipingere il suo volto sulla
tela che avrei tenuto con me per sempre.
M’impegnai a fare
sempre meglio, ad esercitarmi coi pennelli durante le altre ore della
giornata, a badare alle faccende che riguardavano la pulizia delle mie
stanze e dei miei oggetti personali: benché mio padre mi sgridasse sempre
perché non alzavo un dito per aiutarlo, ora sentivo che dovevo farlo per
dimostrare che sapevo fare qualsiasi cosa e che non avrei abusato
dell’ospitalità concessami.
Intanto finii il
primo quadro: un’immagine di lui contemplante il laghetto al tramonto,
seduto sull’erba, lo sguardo assorto e triste. Era così bello!
Ricordo il cuore,
come batteva forte quando bussai alla porta del suo studio.
<Posso entrare?>
<Cosa desideri?> mi
chiese, seduto sulla sua poltrona di cuoio col viso rivolto alla finestra.
<Vi ho portato la
mia prima opera, signore>
Mi guardò finalmente
negli occhi <Vedremo se sei più in gamba con i pennelli o con i pugni>
Il mio orgoglio
parlò fiero <con entrambe le cose, signore, io so fare ogni cosa!>
Rimase sorpreso.
Non lo espresse a
parole, ma rimase sorpreso. Una lieve alzata di sopraciglio aveva parlato
per lui.
Azzardai a
chiedergli se era di suo gradimento, volevo udirlo da quella voce che
dispensava tanto di rado, ma che tutte le volte mi faceva rabbrividire di
piacere.
Il mio desiderio
non fu soddisfatto.
Lui si limitò a fare
un cenno d’assenso con la testa.
<Po…potrei…dunque…di…dipingere quel quadro co…come mi avevate promesso?…cioè
qu…quello che …avrei potuto tenere?>
Ci pensò un po’ su e
disse di no.
Gli chiesi il
motivo, ma lui non rispose. Disse solo che voleva un altro quadro da mettere
in qualche altra sala.
Lavorai ancora
parecchio per cercare di catturare il signore in tutta la sua regale
bellezza, e in questo periodo ricordo che le cose tra noi iniziarono a
cambiare.
Lui non parlava
quasi mai, se non per rimproverarmi su qualcosa o per insultarmi con la sua
solita aria altezzosa, ma io sapevo che qualcosa stava cambiando.
Lo leggevo nei suoi
occhi cupi che mi fissavano quando credeva di non essere scorto, nella sua
voce profonda che mi chiedeva sempre più di frequente cosa avessi fatto
durante la giornata, nei suoi gesti lenti, che qualcosa stava cambiando.
Lui mi stava
accettando. Almeno, così credetti. Così credo ancora, anche se poi mi rendo
conto che avevo capito male. Che mi voleva, sì, ma non nel senso che
intendevo io.
Benché i giorni di
primavera si susseguissero dolci e placidi, non sempre potevo dire la stessa
cosa del mio umore: quantunque continuassi ad essere come sempre sbruffone e
ridanciano, ogni tanto io stesso non mi sentivo più io. Sempre più spesso mi
risvegliavo nel mezzo della notte angosciato, agitato, scosso da incubi che,
appena sveglio, non ricordavo più. Persino il mio amato, quando dipingevo in
sua presenza, mi lanciava strane occhiate e un paio di volte mi chiese se mi
fosse successo qualcosa, ma io non seppi mai cosa rispondergli. Certo non
potevo parlargli dei sentimenti malsani che nutrivo verso di lui e
dell’amara consapevolezza che mai sarebbero stati ricambiati! A questo si
aggiungeva il fatto che vivere in quel palazzo significava essere in
prigione: l’ultima cosa che avrei voluto fare era sputare sull’ospitalità
concessami dal padrone di casa, ma sta di fatto che troppe erano le
limitazioni che subivo e, unito al fatto che vantaggi sentimentali ancora
non avevo ottenuti, il mio soggiorno diveniva sempre più pesante.
Per non parlare di
quei due servi che vivevano in quella casa. A parte alcuni domestici che si
vedevano molto di rado e che non abitavano con noi, Hiro e il maggiordomo
erano tanto fedeli e servili col padrone, quanto ostili con me.
Qualsiasi cosa
errata dicessi o facessi, subito veniva riferita Sua Eccellenza, che
puntualmente mi rimbrottava a cena.
E io non ce la
facevo più a sopportare le occhiatacce di quei due che spiavano ogni mia
mossa, controllavano ogni mio movimento e mi redarguivano duramente
qualsiasi cosa dicessi o facessi. Era chiaro: io in quella casa ero
l’intruso e dunque non vedevano l’ora che me ne andassi. E se fossi stato un
po’ più furbo e meno cieco avrei dovuto seguire il consiglio e tante volte
fui sul punto di farlo, dopo una sgridata particolarmente aspra da parte dei
domestici o dal padrone,, ma bastava che scorgessi il signore anche per un
solo istante e subito il mio cuore tornava a palpitare, rimanendo sordo ai
consigli della mia testa.
E non solo…
A queste mie
preoccupazioni se ne aggiunse un’altra ben più grave: mentre osservavo il
volto del mio signore per completare il secondo ritratto, feci una strana
scoperta.
<Mio Signore, che vi
accade?>
Mi guardò stupito.
Nulla, disse, non mi accade nulla.
<Eppure io vi vedo
sciupato, lo sguardo stanco, le guance scavate…>
<Non sono mai stato
un tipo in carne, lo sai, e non ho mai riso per nulla>
<Si, certo, questo
lo so, ma…qualcosa turba forse il vostro animo?>
A queste parole
voltò il capo, senza rispondere.
La cosa mi uccise il
cuore.
Quali preoccupazioni
attanagliavano il cuore del mio signore?
Quella sera lo
accompagnai nella sua camera da letto, nella quale avevo messo piede
rarissime volte e solo per alcuni istanti. Quella sera, avendo l’occasione
per soffermarmi un po’ più a lungo, abbi modo di guardarmi attorno e
l’impressione che mi fece fu davvero strana: tutto era rosso. Il rosso era
il colore predominante della tappezzeria, delle coperte, dei tappeti. Mio
malgrado rabbrividii.
<Mi hai portato il
latte?> chiese. Era un servigio che compivo di rado.
<Sissignore!>
<Ti piace questa
stanza?>
<È…è molto bella,
signore>
<Bugia!>
Era vero, era una
bugia, non mi piaceva. Chissà perché sembrava che da tutta quella stanza
trasudasse…sangue.
<Posa il vassoio e
va’a dormire> mi ordinò, ma non feci ciò che mi chiese. Invece mi avvicinai
a lui, che sedeva una poltroncina di velluto rosso sulla soglia del balcone.
Dai vetri aperti entrava un’aria dolce e profumata e io mi accucciai vicino
alle sue ginocchia, sedendomi a terra. Lui non sembrò infastidito e quindi
mi permisi di domandargli <Qualcosa non va, mio signore? Leggo nei vostri
occhi preoccupazione e io…io vorrei tanto fare qualcosa per voi!>
Mi guardò
intensamente per un attimo e io mi sentì rinascere e morire insieme. Era
così bello sentire i suoi occhi su di me, ma allo stesso tempo quelle due
perle nerissime erano davvero inquietanti.
L’incantesimo finì
in un battibaleno e lui tornò a fissare il buoi panorama sotto di noi.
<Per favore,
lasciami solo>
Il tono quasi
supplichevole, mai usato con me prima d’ora, non mi fece demordere, anzi…
Prostratomi alle sue
ginocchia, in un guizzo d’audacia presi le sue mani tra le mie e lo implorai
di rilevarmi la causa della sua agitazione. Il mondo sembrò crollarmi
addosso quando mi disse che era affetto da una malattia.
<Credo…credo che non
guarirò mai più…> disse con la sua voce profonda e triste.
Non è possibile, non
è possibile, continuavo ad agitarmi, sempre stringendo convulsamente le mani
tra le sue, una cura dovrà pur esserci DEVE esserci, balbettavo disperato.
Sapevo che il padre del mio signore era morto giovane a causa della sua
salute cagionevole, la mamma neanche sapevo che fine avesse fatto, ma
presumevo che anche lei fosse morta a causa della sua non buona salute, e la
mia paura più grande era quella di vedere il mio amore languire piano e
morire presto, troppo presto a causa di questa scellerata eredità.
<Mio signore, ditemi
cosa posso fare per voi e io lo farò! Dovessi scalare montagne o
attraversare gli oceani per procurarvi una qualche medicina rara, io lo
farò! Farò tutto quello che mi chiederete e io non esiterò. Io non voglio
che voi…che voi…>
non riuscì a finire
la frase che già copiose le lacrime solcavano il mio viso.
Lui mi guardò
sorpreso, poi mi asciugò le lacrime con le sue mani.
Al tocco delle sue
fredde dita, sentì le mie guance infiammarsi.
<Pensi che possa
morire? No, non credo, anche se ogni giorno è sempre più difficile da
sopportare. E la medicina… oh si, c’è un antidoto, ma non è possibile…>
<Non preoccupatevi,
io andrò ovunque, sono pronto a partire anche adesso>
Mi sollevai di
scatto ma lui mi fermò.
<L’antidoto è più
vicino di quanto immagini, ma io…non posso averlo. È impossibile…>
Io ci capivo sempre
meno.
Lui distolse lo
sguardo dal mio e confessò <Sono innamorato, ma non sono ricambiato>
E io mancai per un
istante. Innamorato? E di chi? Chi gli aveva rubato il cuore in maniera
tanto subdola? Rimasi gelato dalle sue parole. Qualcuno aveva rubato il suo
cuore e io non l’avrei mai avuto. Oh, quanto avrei voluto morire.
Mi accasciai vicino
a lui e cercai di confortarlo con parole in realtà destinate a me stesso
<Signore, io vi
auguro di trovare la felicità. Se quella che voi amate è la donna del vostro
destino, vedrete …che…starete insieme un…un giorno …e…e io…vi auguro
ogni…bene. Quindi, non disperate… io sono sicuro che…che un giorno sarete
felice… basta solo che lasciate passare del tempo e…e…>
non potei più
continuare. Il mio cuore era ridotto in briciole sanguinanti. Piangevo.
L’unico che amavo non sarebbe mai stato mio e io non sapevo cosa fare per
placare la mia disperazione più nera. Poi disse qualcosa che mi sorprese.
<Non è una lei. È un
lui> dichiarò senza vergogna. Rimasi senza parole. Chi è chi è chi è chi è,
si chiedeva il mio cuore impazzito.
<Sei tu. Io…mi sono
innamorato di te!>
E in un attimo il
mio cuore esplose di gioia. Lui era di fronte a me, che mi confessava il suo
amore, mentre io non avevo avuto il coraggio di farlo. Questo me lo rese
ancora più caro, come se non bastava l’amore che già nutrivo per lui, e in
moto folle lo strinsi come se la mia vita fosse finita in quell’istante,
dicendogli <Anch’io ti amo…>
Si staccò da me e,
delicato e forte insieme, mi tolse gl’indumenti di dosso. Lo stesso feci io
con lui, ché la mia eccitazione cresceva sempre più e anelava il più
completo appagamento.
Quella notte ci
amammo.
Non immaginavo che
sarebbe stato così bello, dolce, meraviglioso e mai potrò dimenticare.
Nonostante tutto ciò che è successo tra noi, mai potrò dimenticare i suoi
tocchi audaci e febbrili, i suoi gemiti sensuali, la sua ars amatoria
eccelsa. Io non avevo mai fatto l’amore con nessuno ma, pur non avendo
termini di confronto, potei dire che fu davvero un maestro nel darmi il
piacere più completo, tanto che per un istante mi chiesi se aveva mai avuto
un “insegnante” in materia, pensiero subito cancellato dalle sue parole
<Tu per me sei
l’unico…>
Nonostante la mia
inesperienza, anch’io ricambiai col medesimo ardore. Anch’io volevo dargli
tutto il piacere possibile e immaginabile, anche lui era l’unico per me e
volevo convincerlo in tutti i modi che avremmo potuto essere felici insieme
per tutta la vita, se lui lo avesse voluto. E Donarmi a lui era il solo modo
che conoscessi.
Ma quella notte ciò
che mai avrei osato immaginare, accadde.
Quella sera, su quel
letto coperto da una coltre di velluta rossa, fu lui a farmi dono di sé e io
credetti che sarebbe stato mio per sempre.
Forse il mio più
grande errore è stato proprio questo: aver confidato che con quel gesto lui
si sarebbe legato indissolubilmente a me e sarebbe stato mio per sempre.
Oggi, col senno di poi, sono consapevole che quella notte, con quel gesto,
fui io ad essere legato indissolubilmente a lui, e diventai suo. Per sempre.
Finito l’atto in sé,
rimanemmo a coccolarci ancora ma, mentre stavo per appisolarmi, lui mi
ridisse che sarebbe stato meglio per me se avessi dormito in camera mia.
<…Così non ti
sveglierò bruscamente…>
Protestai un po’ ma
lui mi spiegò <domani mattina, come tutte le mattine, devo alzarmi presto
per proseguire i miei studi e credo che sarebbe brutto se ti svegliassi e
non mi trovassi accanto, giusto?> e mi diede un bacino sulla punta delle
labbra.
A quel punti colsi
l’occasione per chiedergli finalmente di cosa si occupava, di ciò che faceva
durante il giorno, quando spariva senza lasciar traccia di sé.
Rispose di buon
grado dicendo che studiava il modo di prolungare la vita.
<Allora sei un
medico!> domandai.
Non lo era, rispose,
perché lui cercava di prolungare la vita attraverso il passaggio da vita a
vita.
<Siamo destinati a
morire e nulla potrà modificare questo nostro destino, unica cosa certa
della nostra vita. Ma possiamo vivere di nuovo qui, su questa terra, senza
sostare in alcun inesistente Paradiso o Inferno. E subito, senza attendere
alcuno sterile Giudizio Universale>
Le sue parole mi
risultarono del tutto oscure. Paradisi? Inferni? Cos’erano? Mi spiegò che
nella terra dei suoi avi si crede in un dio che ha creato tutto l’Universo e
che tanto tempo prima si incarnò in una donna e da lei nacque. Questo
bambino, Gesù si chiamava, oltre a diffondere tra gli uomini gli
insegnamenti di dio, avrebbe anche affermato che dopo la morte, i malvagi
sarebbero finiti all’inferno, luogo di atroci ed eterne sofferenze, i buoni
in paradiso. Ma questa non è che una sosta, in attesa del Giudizio
Universale, dopo il quale le anime risorgeranno con i loro corpi e vivranno
in eterno.
<E tu credi a tutto
questo?> chiesi io.
<Neanche a una
parola. Però credo che la nostra vita non venga troncata dalla morte, solo
interrotta, e che sia possibile rivivere grazie non certo a chissà quale
inesistente entità, bensì grazie a noi stessi>
Non so con
precisione, ma forse fu in quel momento che vidi il mio signore in una luce
del tutto nuova e ignota. Da una parte avevo capito che i suoi studi non
erano sciocchezze, ma, d’altra parte, avevo vissuto fino ad allora nel
tempio del sacerdote del villaggio e lui mi aveva amato come un figlio, e
come ad un figlio aveva trasmesso le sue conoscenze religiose che si
discostavano da quelle del mio amore. Non parlo del fatto che i suoi studi
prendevano spunto dalla analisi di una religione differente dalla mia,
quanto dal fatto che lui parlava con irriverenza di ciò che era sacro e
questo…sentivo che non era una cosa buona.
Comunque sia altri
giorni trascorsero a palazzo, ma io non capivo perché ancora non stavo
bene.
Eppure di giorno
stavo bene! …cioè…più o meno…
Il fatto è che lo
vedevo così poco, sempre preso dai suoi studi sulla reincarnazione o
qualcosa di simile e il pomeriggio, in quel breve momento della giornata in
cui lo ritraevo, era troppo breve.
Certo, poi la sera,
dopo una cena generalmente passata a insultarci, momenti in cui quello
stupido maggiordomo mi rimproverava sempre, era il momento decisamene più
piacevole.
In camera sua,
sempre ci crogiolavamo al tepore di quelle dolci serate primaverili, quando
il sole tingeva di rosso il cielo e il potenziale erotico del mio amore era
sempre ai massimi livelli. In quelle serate, l’aria si faceva incandescente
e i nostri gemiti erano la musica più melodiosa. Mai potrò dimenticare le
sue mani, le sue parole infuocate, le sue labbra di marmo…
Eppure il mio incubo
stava per cominciare….
Era una notte buia,
la falce di luna era solo un sottile squarcio di debole luce nel cielo,
poche stelle. Mi svegliai di soprassalto sudato e in preda ad una strana
inquietudine e, non capendo il motivo, mi alzai e iniziai a camminare su e
giù per la stanza quando…quando ad un tratto sentii degli strani suoni.
Stavo per precipitarmi di scatto fuori dalla porta per controllare che nulla
fosse successo al mio adorabile signore, quando mi accorsi che quei suoni
provenivano dall’esterno.
Allora mi avvicinai
alla finestra e tesi l’orecchio…
Anche se quella
notte la luna non emetteva luce, vidi strane ombre agitarsi nello spiazzo
avanti al portone, e i suoni divennero lamentosi gemiti sofferenti, e le
ombre sembravano dimenasi e dibattersi e i lamenti sembravano trasformarsi
in pianti soffocati.
Atterrito da quelle
visioni allucinate, decisi di capire meglio cosa stesse succedendo.
Il mio incubo era
appena incominciato…
CONTINUA…
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