Nota:Questo racconto ha l’aspetto e
(apparentemente) le pretese di un racconto storico, ma in realtà è tutto
infarcito di inesattezze e forzature più o meno evidenti, dovute in primis
alla pigrizia dell’autrice e in secundis ad alcune esigenze di trama
anch’esse ascrivibili alla pigrizia dell’autrice. Un pizzico di colpa mi
sembra giusto scaricarlo anche alla restrizione dei caratteri, che mi ha
costretto a tagliare laddove avrei voluto trattare, descrivere, soffermarmi
più distesamente. Perciò prendetelo per com’è, ossia per una storiella senza
grandi pretese con uno sfondo storico più evocativo che puntuale, e non
fidatevi di nessuna delle notizie storico-religiose in esso contenute perché
sono perlopiù invenzione dalla sottoscritta.
Ringraziamenti: Alla Black e a
Mercedes, in rigoroso ordine sparso. Senza di loro sarei ancora ferma alla
prima pagina, a rimirare con occhio assente le immagini dei miei personaggi.
Beta-reader: Sig.Black.
immagini:
Marco Licinio
Publio Erennio Seiano
Labentia signa
Sotto gli astri traballanti del cielo
di
Fiorediloto
*fic scritta per il progetto
letterario "Morceaux"
Prologo.
II sec. d.C. – Confine nord-orientale
dell’Impero
Una tenda, una razione, una brandina malferma da dividere col camerata. Un
paio di calzari da risuolare al più presto e uno scudo ammaccato qui e lì
dai colpi. Una spada scheggiata vicino alla punta, con le sue iniziali
incise sul manico. In fin dei conti non era molto più di questo ciò che
aveva avuto dalla vita. Il respiro del camerata sui calcagni, la puzza di
terra e sudore che pervadeva ogni notte, e a cui non faceva più caso da
tempo. A voler fare l’elenco due mani sarebbero bastate – e forse, avanzate
pure. Il ginocchio di Mure (1) nel costato, quando i sogni si facevano più
violenti.
Si era arruolato fante sei mesi e dodici giorni prima, quando era ancora
estate e pareva proprio che la vita si fosse stancata di badare al suo
sostentamento – per cui aria, via, fatti una vita tua, trovati un mestiere,
non ti vogliamo più qui.
Adesso aveva freddo, solo mezza coperta addosso e il ginocchio nerboruto di
Mure premuto contro il torace, e a furia di ritirarsi per riuscire a
respirare aveva raggiunto il bordo della branda. Fine della corsa.
Di svegliarlo neanche a parlarne: Mure non era noto per le sue buone
maniere. Afferrò il lembo della coperta conquistata con gran fatica e se lo
scostò dalle gambe, sgusciando fuori dal tepore del giaciglio (Mure se ne
impossessò nel sonno, e qualcosa gli disse che non l’avrebbe riavuta
indietro tanto facilmente), raccolse dalla sacca un’altra tunica di lana e
un mantello con cui avvolgersi il corpo e scivolò fuori dalla tenda comune.
Come una falena, finì per essere attirato dai bivacchi che delimitavano il
campo. Il fumo grigiastro delle torce confondeva la volta celeste, e le
stelle parevano danzare, malferme, al ritmo incostante dei fuochi.
Non riconobbe il soldato che vi sostava vicino, ma gli rivolse un cenno di
saluto. Poi si piegò sui talloni, stendendo le mani gelate verso la fiamma.
«Freddo, eh?»
«Da cani.»
«Perché non stai a dormire, tu che puoi?»
«Avevo voglia di fare due passi.»
«Con questo freddo?»
Non rispose. La sentinella sollevò leggermente l’elmo dagli occhi e mandò
una nuvoletta di fiato che si trasformò in vapore biancastro prima di
svanire nel buio.
«Come ti chiami, soldato?»
«Marco.»
«Marco, e poi?»
«Licinio.»
«Piacere, Marco Licinio. Io sono Lucio Metilio.»
Strinse la mano dell’altro, fredda quanto la sua, nella solita presa decisa.
«Ti hanno coscritto o cerchi la gloria?» chiese la sentinella, abbandonando
l’appoggio della lancia per sedere accanto a lui vicino al fuoco.
«Entrambe» rispose, scrutando nell’ombra quasi nera dell’elmo, tra la
visiera e i guanciali. Gli parve di intravedere un ciuffo biondo
intrappolato in mezzo agli occhi. «E tu? Coscritto o in cerca di gloria?»
«Oh, io… in cerca di un rancio.» Giocherellò col sottogola, nervosamente.
«Cesare paga bene, in fin dei conti.» Si sfilò l’elmo, rivelando
un’arruffata matassa di capelli biondi e due occhi chiari tra la fronte e le
guance arrossate.
«Liberto, eh?» osservò Marco, accennando ai suoi capelli.
Lucio avvampò. «E tu che ne sai?»
«Chiedevo.»
«Be’, non…»
«Che avete da chiacchierare a quest’ora? Soldato, torna al tuo posto.»
Lucio scattò come punto da una vespa, raccogliendo la lancia e l’elmo. «Sì,
tribuno!» gridò, con una voce tenorile che rimbombò nel silenzio del campo,
e corse alla sua postazione – molto più lontana del punto in cui Marco
l’aveva trovato.
Il tribuno della prima legione – Publio Erennio Seiano – gettò uno sguardo
anche a lui, poi, deducendo che non era il suo turno di guardia, lasciò da
parte le reprimende.
Erennio Seiano aveva un volto scuro e corrucciato quasi contro natura, sul
quale le rughe premature formavano un reticolo inestricabile di pensieri e
preoccupazioni.
«E tu, soldato? Nome.»
«Marco Licinio, tribuno. Non riuscivo a dormire.»
«Sei uno dei miei, Licinio?»
«Sì, tribuno. Terza centuria, prima co…»
«Va bene.»
Lo guardò, in attesa di ordini. Non aveva fatto nulla di male – è vero, dopo
il coprifuoco non era permesso lasciare le tende, ma le leggi non scritte
del campo consentivano qualche libertà in più durante l’inverno – tuttavia
pensò di alzarsi e tornare dentro, nel caso che al tribuno venisse voglia di
prendersela con lui.
Seiano prese il posto di Lucio, con noncuranza, come se fosse cosa normale
per il comandante di una legione sedere accanto alla soldataglia.
«Se non hai ordini per me ti auguro un buon sonno, tribuno» disse Marco.
«Ho un ordine per te.»
Ristette, sorpreso. Si domandò che ordine potesse mai eseguire senza
vestiti, tuttavia annuì prontamente. «Comanda.»
«Hai con te il tuo pugnale?»
«Sempre, tribuno.»
Alzò la mano, indicando con un dito la sentinella bionda. «Tagliagli la
gola.» Poi lo scrutò, gli occhi neri circondati da un intarsio di rughe che
ora, nella penombra, gli parve più fitto che mai.
Il cuore di Marco sobbalzò con violenza.
Non chiedere perché. Mai chiedere perché.
Nella testa gli riecheggiò la storia di quel soldato a cui il centurione
aveva ordinato di uccidere una spia: il soldato aveva obbedito e poi era
morto a sua volta, colpito a tradimento dal superiore che così aveva chiuso
i propri debiti di gioco – e la bocca a tutti e due.
«Sì, tribuno» rispose, alzandosi. Afferrò il manico del pugnale assicurato
al fianco notte e giorno – le cinghie di cuoio stringevano i calli procurati
nelle prime settimane di arruolamento – e si accostò alla sentinella,
appoggiandogli una mano sulla spalla. Lucio azzardò un sorriso. «Ti ha
lasciato andare, il tribu…»
«Mi spiace, amico» sussurrò, e attirandolo a sé gli piantò la lama nella
carne tenera del collo. Per un attimo parve che la ferita non dovesse
sanguinare, poi un fiotto caldo gli bagnò l’elsa e la mano, e Lucio si
dimenò con un gorgoglio interno, orribile, simile al lamento di un animale
in agonia. Lo tenne fermo, la destra saldamente sulla sua nuca, e strattonò
la lama verso di sé. Il fiotto si trasformò in un fiume e Lucio girò gli
occhi indietro con un’ultima convulsione, prima di accasciarsi a terra come
una bambola rotta.
Marco si tirò indietro, contemplando come in un incubo il sorriso scarlatto
che deturpava la gola della sentinella. Voltò il capo verso il fuoco, verso
il tribuno Erennio Seiano.
La fiamma danzava instabile nella notte, ma del tribuno nessuna traccia.
1.
Il suo primo pensiero fu quello di ogni assassino di fronte al fatto
compiuto: scappare. Strinse più
forte il manico del pugnale, irrimediabile prova dell’omicidio, e sentì nel
palmo la consistenza vischiosa del sangue fresco. Era sporco fino al polso,
come se avesse immerso la mano intera nella ferita. Gettò un ultimo sguardo
confuso al cadavere, rammentando che non aveva urlato, e si chiese
allucinato quanto mancasse al prossimo cambio. Poi nascose il pugnale sotto
il mantello e tornò di corsa nella tenda comune.
Mure, che ormai occupava tutto lo spazio possibile, non si svegliò neppure
quando Marco lo spinse più in fondo per sedere sulla sponda della brandina,
e si prese il capo tra le mani che aveva frettolosamente ripulito con il
terriccio asciutto.
Non gli importava di Lucio (figura indistinta alla luce di un fuoco, già
andava sbiadendo), e non era il primo uomo a cui toglieva la vita. Ma il
tribuno era scomparso, e per quale altro motivo, se non sancire la sua
condanna a morte?
Si accorse che gli tremavano le mani.
Dopo un’eternità di secondi liquidi come piombo fuso, si sfilò il mantello,
rimise il pugnale ripulito col terriccio dentro la fondina e si ritagliò uno
spazio nella branda, quanto gli bastava per sdraiarsi. Rimase poi, nel buio,
ad ascoltare i propri battiti feroci, e a chiedersi per quanto ancora
avrebbe potuto continuare a farlo.
A svegliarlo fu il rumore, prima d’ogni altra cosa. Seguì il pulsare
aritmico con cui si era addormentato, che gli scoppiò nelle tempie e nella
gola. Infine la paura, che era come la ricordava, acre e sudaticcia. Aprì
gli occhi in quel luogo che non aveva mai cessato di essergli estraneo,
mentre il rumore dei passi si spegneva nel frastuono della sua mente, e nel
silenzio della tenda.
Al buio di una candela, si sentì ordinare: «In piedi, soldato.»
La stretta che gli agguantò un braccio, tirandolo in piedi, fu pari a quella
che gli rimpicciolì il cuore fino alle dimensioni di un chicco di grano. Il
mantello gli rimase appeso alle spalle, sghembo.
«È stato ucciso un uomo, qualche ora fa. Ne sai niente?»
Tacque. Il centurione Sesto Albino fece un passo nella sua direzione,
puntandogli in faccia gli occhi neri insonni e il viso non sbarbato. «Ti
hanno mozzato la lingua, soldato?»
Rispose senza respirare, nervosamente: «No, centurione, non ho visto nulla».
«Ti hanno visto rientrare nella tenda dopo che è morto.»
Raggelò, mentre si rendeva conto di quanti – uno, due, tre, sei soldati – lo
avessero circondato. «Non avevo… non avevo sonno.»
«Mostrami il tuo pugnale.»
«… l’ho perso, centurione.» Gli tremò la voce.
Bastò che lo sguardo di Sesto Albino si posasse sul soldato più vicino per
averli tutti addosso. Venne strattonato, il mantello tirato da una parte per
scoprire la fondina e l’arma che avrebbe dovuto gettare via subito.
Sesto Albino la studiò alla luce fioca della candela, constatandone i
residui di sangue secco sulla lama e sull’elsa. «Un assassino dilettante»
commentò, truce.
Marco rimase immobile, le gambe molli, a contemplare la sua condanna passare
da una mano all’altra del centurione, e a chiedersi quanto più semplice
sarebbe stato rimanere a letto, quella notte, col ginocchio di Mure a
togliergli il respiro e sulla punta della lingua mille lamentele contro gli
dèi.
«Perché?» domandò Sesto Albino, quasi distrattamente.
Distolse lo sguardo, seguendo le imperscrutabili volute di fumo della
candela. I camerati, di cui fino a quel momento non s’era accorto, facevano
cerchio intorno a quell’angolo della tenda. Distinse Tito Mure, corpulento e
minaccioso, e per un attimo lo sentì solidale.
«Non lo so, centurione» rispose, sinceramente.
Sesto Albino alzò gli occhi.
«Credo che non lo sapesse neppure lui» mormorò Marco.
«Una rissa? Un’offesa? Cosa?» lo incalzò il centurione.
Marco non rispose.
«Portatelo via.»
Lo trascinarono fuori, fino al cadavere di Lucio Metilio che non era stato
rimosso né spostato, e pareva ghignare a tutti i presenti con lo squarcio
rosso della gola e il capo voltato indietro in una posa innaturale.
Solo allora Marco capì che sarebbe morto prima dell’alba.
Lo spinsero a terra e le sue ginocchia assorbirono l’impatto col terreno
umido. Il mantello gli rimase storto sulle spalle, a penzolare tristemente
da un lato.
«È lui, Eunice?»
Una voce femminile, sottile come un filo di vento, rispose: «Sì».
La giustizia nell’esercito era un fatto sbrigativo e si basava su poche,
semplici regole, la prima delle quali era
chi sbaglia paga. Lo sapevano i generali che avevano condotto male le
proprie battaglie – l’avevano saputo Pompeo Il Grande, poco prima che il
boia di Tolomeo lo decapitasse, e Cesare, che aveva fatto male i suoi conti
– ma senza andare troppo oltre adesso lo sapeva anche lui, Marco Licinio,
terzogenito figlio di liberti campani arruolato fante da sei mesi e dodici
giorni, e non più di dodici, perché il tredicesimo non l’avrebbe visto.
Respirò, la gola che tremava e non per il fumo delle torce, portato dal
vento verso il cielo.
Il vociare intorno a sé crebbe fino a diventare assordante e poi tacque, di
colpo.
«… tribuno.»
Marco alzò gli occhi, sgranandoli leggermente.
«Uno dei miei, tribuno. Un omicidio.»
Erennio Seiano gli passò accanto, girando intorno al cadavere. L’orlo del
suo mantello gli sfiorò la spalla in una lunga carezza. «Continua.»
«La mia schiava l’ha visto tornare di corsa nella tenda. Dopo un’ora hanno
trovato il corpo. E il suo pugnale è macchiato di sangue.»
«E sei tornato a dormire? Che coraggio» osservò il tribuno, con uno strano
sorriso sulle labbra.
Era alle sue spalle. Marco non si voltò. «Sempre ai tuoi ordini, tribuno»
disse con un filo di voce.
«Con il tuo permesso, procediamo.»
Sentì il tribuno scostarsi di lato, con un largo giro della falda del suo
mantello, e capì che non l’avrebbe salvato.
Strinse i pugni perché non tremassero.
«No.»
«… tribuno?»
«Il soldato ha eseguito un mio ordine.» Marco aprì gli occhi, senza osare
alzarli al di sopra del cadavere di Lucio Metilio. «Era una spia» precisò, e
nonostante gli avesse appena salvato la vita Marco non poté fare a meno di
rabbrividire.
Poi Publio Erennio Seiano, tribuno della prima legione, gli batté un
colpetto sulla spalla e gli ordinò di alzarsi. L’adrenalina gli scorreva
ancora nel sangue, potente come una droga. «Perché non hai parlato? Di’.»
«Ho pensato… se il tribuno mi voleva morto, non sarebbe cambiato nulla»
mormorò Marco.
Seiano rimase per un attimo con la mano appoggiata sulla sua spalla, a
guardarlo. Era più alto di lui di almeno una spanna, e alla luce tremolante
del fuoco Marco non trovò traccia dell’intrico di rughe che aveva scorto
qualche ora prima. L’intimità di quel contatto – che era quanto di più
familiare gli avesse mai concesso un superiore, di qualsiasi grado – lo
sconvolse.
«Potete ritirarvi. Centurione, fai rimuovere il cadavere da lì.»
Sesto Albino fece il saluto e diede disposizioni, non senza riservare una
lunga occhiata perplessa a Marco Licinio, mentre gli altri sgombravano
lentamente il campo.
«Tu va’ a vestirti, e poi presentati alla mia tenda.» Il tribuno ritirò la
mano, lasciandola scomparire tra le falde sanguigne del mantello. Poi girò
sui tacchi e se ne andò, come nulla fosse stato.
2.
Al rientro nella tenda comune, i camerati lo guardarono come un fantasma.
Passò loro in mezzo, malfermo sulle gambe, fino alla propria branda, e si
lasciò cadere di fronte alla lorìca poggiata a terra accanto all’elmo. Si
sfilò il mantello mentre la indossava, a tentoni, cercando di far combaciare
tutti i lacci e tutti i ganci delle piastre.
«Senti un po’, Marco…»
«Dopo, Mure. Devo andare nella tenda del tribuno.»
Tito Mure tacque per qualche secondo, seduto sulla branda. Un tipo violento,
Mure, ma erano sempre andati d’accordo. «È vero che te l’ha detto lui?»
Marco non alzò neanche gli occhi, armeggiando con l’armatura. «Di sicuro non
raccontava una balla per salvare me, stai sicuro» borbottò.
«E perché vai nella sua tenda, ora?»
«Mi cavassero gli occhi se lo so» rispose, raccogliendo l’elmo da terra. «A
dopo.»
Si strinsero la mano. Quel senso di minaccia imminente non era scomparso
affatto, dopo l’intervento del tribuno; era solo la sorpresa di essere
ancora vivo. Uscì, scorgendo due soldati che rimuovevano il cadavere di
Lucio… della spia, e pensò che non sapeva più cosa pensare.
Disse il proprio nome alle due guardie appostate fuori dalla tenda del
tribuno, ma da dentro la voce di Seiano gli ordinò di entrare prima ancora
che gli fosse riferito chi lo cercava. Con l’elmo sotto il braccio, preso un
respiro, varcò la soglia ed entrò.
Fece il saluto a mano tesa, per prima cosa, presentandosi. Identificò il
tribuno tra le due figure che occupavano il poco spazio intorno a uno smilzo
tavolino da campo, e dedusse dal cimiero rosso che l’altro era un
centurione. Poi constatò la frugalità dell’arredamento, e solo alla fine si
concesse di studiare meglio chi aveva di fronte.
Lo sconosciuto, che acquisiva familiarità man mano che Marco lo osservava,
aveva l’aria gioviale e le guance rubizze di chi era solito frequentare
l’osteria del campo – e vi aveva fatto una capatina proprio quella sera. Il
viso, a parte le scocche rosse dell’alcool, era piuttosto anonimo, e il capo
senz’elmo rivelava un accenno di calvizie precoce.
«Bene, Seiano, la mia opinione la sai» affermò, forse non per la prima
volta, squadrando Marco da capo a piedi.
«E io invece sono convinto che ti ricrederai» replicò il tribuno.
«Oh, lo spero.» Sollevò l’elmo dal tavolo, calcandoselo sulla fronte. «A più
tardi.»
«A più tardi, Secondo.»
Floro Secondo, il centurione della quinta. Marco fece il saluto mentre il
superiore lasciava la tenda, senza perdere di vista con la coda dell’occhio
i movimenti del tribuno.
«Possiamo andare.»
«… andare?»
Erennio Seiano lo guardò senza sorridere. «Mi è piaciuto come hai obbedito
la prima volta. Vedi di non farmi ricredere.»
Mentre si incamminavano – a piedi, dunque la meta non era tanto lontana –
Marco vide il sole spingere via da dietro il profilo dei monti il blu cupo
notturno. All’inizio un processo lento, rassicurante, mentre il blu
trascolorava in un azzurro elettrico inghiottendosi le stelle, una ad una, e
poi la luna per ultima. Poi l’arancio, e il rosso, e il rosa pallido
esplosero nel cielo d’inverno e lo resero caldo e fiammante come un
mezzogiorno d’estate. Marco non vide il momento successivo – quando i colori
impazziti, come sfuggiti al controllo degli dèi, tornavano al solito azzurro
quieto del mattino – perché il tribuno gli fece cenno di seguirlo.
Ora Marco poteva notare che la camminata notturna li aveva condotti alle
porte del villaggio più vicino. Tuttavia non entrarono. Deviarono a est,
fino a raggiungere una piccola costruzione anonima bagnata dai riverberi più
rossi dell’alba.
«Da questo momento» disse il tribuno, senza l’ombra di un sorriso, «devi
tacere fino alla fine.»
La fine di cosa? Si morse la lingua.
«Sì, tribuno.»
Seiano si accostò alla porticina di legno e bussò lievemente. Lo spioncino
quadrato si aprì al primo colpo, rivelando un occhio scuro dietro la cavità
di una maschera. «Apri, fratello» disse il tribuno.
«Chi sei?»
«Cautes, l’annunciatore dell’alba.»
Seguì lo scatto del chiavistello, senza la minima esitazione, da cui Marco
dedusse che si trattava di una parola d’ordine o qualcosa del genere. La
porticina dava su un piccolo corridoio oscuro, ravvivato dalla luce di una
sola torcia in fondo al percorso. La sentinella lo guardò con attenzione ma
non fece domande. «È già iniziato» li informò invece. Indossava una maschera
dalle fattezze umane, divisa verticalmente in due metà simmetriche, l’una
bianca, l’altra nera. Il suo sguardo si appuntò con particolare insistenza
sull’elmo di Marco.
«Toglilo» ordinò Seiano. Poi avanzò fino alla fine del vestibolo,
raggiungendo una ripida scalinata di pietra che si inabissava in un
corridoio, o una stanza, ancora più bui di quello in cui si trovavano.
«Fa’ attenzione» gli disse, con un bizzarro riguardo che non mancò di
stupirlo. Gli scalini erano sconnessi e in penombra, ma ancora visibili, e
l’ambiente nel quale sbucarono si rivelò dopo i primi passi perfettamente
illuminato. Era un nuovo corridoio, più spazioso, con torce fissate al muro
su entrambi i lati. In fondo al percorso una porta, e un uomo che vi sostava
davanti con una maschera identica alla prima.
L’odore delle torce impregnava l’aria, misto a un altro profumo che Marco
non riconobbe subito.
Non vi fu bisogno di presentazioni, stavolta. L’uomo si fece da parte dopo
aver dischiuso l’uscio – l’odore si fece più penetrante – e aver ricordato
al tribuno che “non indossava i suoi paramenti”. Seiano annuì senza
rispondere.
«Lascia qui il tuo elmo.»
Poi la porta fu aperta del tutto, e Marco scordò anche il divieto di
parlare, perché gli si paralizzò la lingua nella bocca.
La prima sensazione fu un traballante senso di paura, e la certezza che le
gambe non l’avrebbero retto oltre. Invece lo fecero, aiutate forse dalla
mano che aveva appoggiato al muro più vicino.
Ora l’odore era distinguibile in tutta la sua forza, e non era possibile
diversamente, dato che pervadeva tutta la sala. Incenso. Al di sopra della
sua testa – e delle teste di altre… quante? cinquanta persone? – una
caligine fumosa d’incenso confondeva la volta e le teste massicce delle
colonne che ne sostenevano il peso. In una bruma sottile e lieve come la
nebbia del primo mattino, Marco vide una processione di pochi uomini, tutti
vestiti della stessa anonima tunica bianca, sfilare attraverso il largo
corridoio delimitato da due alti banchi di pietra. Su questi sedevano come
in triclinio tutti gli altri, più numerosi. Benché i presenti fossero
relativamente pochi, la volta bassa e le pareti strette davano a Marco un
senso di oppressione paragonabile solo all’ansia prima della battaglia.
C’era dell’altro. Riteneva che i presenti fossero tutti uomini, ma era più
un’intuizione che una certezza. Avevano i volti coperti, nessuno escluso, da
maschere di foggia diversa sulle quali non volle soffermarsi troppo. Nelle
orecchie gli rimbombava una nenia ripetuta a mezza voce da tutta
l’assemblea, un riverbero di sottofondo, basso e virile e dalle parole
indistinguibili.
Quando si volse per trovare un minimo conforto nella presenza del tribuno
accanto a sé, scoprì che Erennio Seiano era sparito. Una serie di volti
dipinti e tuniche bianche lo circondava. Se n’era andato. Di nuovo.
Il timore lo strinse alla gola per la seconda volta, e Marco girò sui tacchi
deciso a lasciare la sala e il tempio, ma le porte alle sue spalle erano
state richiuse e bussare non gli valse a nulla. Era ancora appoggiato contro
la porta, le unghie a graffiarne il legno massiccio, quando la voce del
celebrante empì la sala.
Era un uomo di corporatura media sotto il viluppo della tunica rossa e il
berretto frigio calcato sui capelli chiari di vecchiaia. La maschera, appena
visibile dal fondo della sala, era una chiazza di colore bianco e ne
deformava la voce, rendendola più profonda e modulandola come quella degli
attori a teatro.
Stava ancora cercando di seguire il filo logico del discorso, se mai ve
n’era uno – tutto rimandava a un prima,
a un qualcosa cui lui non era stato
presente – quando uno degli uomini in tunica gli appoggiò la mano sulla
spalla. Indossava una maschera d’un giallo squillante, le cui decorazioni
non potevano lasciar dubbio sul fatto che si riferissero al Sole.
Se pure l’aveva sentito una volta sola, Marco era pronto a giurare e
spergiurare su quel tocco. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo sguardo
del tribuno lo fulminò attraverso le fessure allungate degli occhi. La mano
scivolò tra le scapole e applicò una blanda ma decisa pressione. Marco fece
un passo, assecondandola, poi un altro. Dovette mordersi la lingua due volte
per non lasciar uscire la domanda che gli premeva dal fondo della gola.
«S’avanzi il neofita» ordinò il celebrante, il quale – ora lo vedeva –
sedeva su uno scranno rialzato di fronte a un altare spoglio, coperto solo
d’un drappo rosso.
La pressione tra le scapole si fece più decisa, e Marco non poté che
avanzare, mentre le persone che aveva scorto nel corridoio centrale
raggiungevano a turno l’altare, vi depositavano sopra l’uno del pane fresco,
un altro dell’acqua, un altro ancora dell’uva luccicante di rugiada, e poi
si ritiravano sui lati.
Seiano lo condusse fino alla base dei tre scalini appena sbozzati che
portavano all’altare, e lì lo fece inginocchiare.
«Chi lo presenta?» domandò il celebrante.
«Cautes, l’Heliodromus» rispose il
tribuno. «È giovane e non ha paura di morire. Piacerà al Signore.» E gli
afferrò i capelli, senza troppa violenza, tirandogli indietro il capo con un
movimento che gli scoprì la gola come a un agnello, ma gli fece anche notare
i bassorilievi scolpiti in alto sopra lo scranno. Disegni di un uomo e di un
toro, dal cui collo reciso fluiva un fiume di sangue che bagnava la terra
sottostante e la faceva fiorire. Mentre il suo cuore accelerava follemente
il battito, Marco si disse che il fatto che non avesse nulla per cui vivere
non significa che non temesse di morire. Se come diceva qualche poeta, anzi,
la vita di un uomo si poteva giudicare da quel solo istante in cui egli
stava per morire, allora la sua vita era stata una cosa miserabile e piena
di paura.
Prima che gli bendassero gli occhi, vide un pugnale luccicare tra le mani
del celebrante.
«Devi morire per poter rinascere di nuovo, nella purezza» declamò l’uomo, e
«Nella purezza» ripeté la sala, e «No» esalò Marco, senza voce, tentò di
fare un movimento ma la presa del tribuno sulla sua spalla si intensificò
fino al dolore.
Sentì il freddo della lama contro la gola. «Ciò che eri non ha più
importanza. Ciò che sarai è un nuovo uomo, graziato dal Signore, baciato
dalla Sua luce.» La lama venne scostata e Marco attese il colpo che, per una
sordida giustizia, ripagava quello da lui inferto alla sentinella, ma al
rumore del pugnale che lacerava una carne, e non la sua, seguì un grugnito
animalesco di dolore, e poi uno stillare lento e metallico. Il bordo di una
coppa gli venne accostato alle labbra, e Seiano gli ordinò di bere. Anche
senza il gusto ferroso e dolce sulla lingua, Marco non avrebbe avuto
difficoltà a capire che si trattava di sangue.
Quando il tribuno gli tolse la benda dagli occhi, ai piedi dell’altare
giaceva un toro, immerso nel proprio umore che lento sgocciolava dal bordo
dello scalino dentro un catino metallico.
«Ora sei libero, Corax» dichiarò il
celebrante, e gli appoggiò sul viso una maschera completamente nera, simbolo
della morte che aveva reclamato per sé il vecchio Marco, mentre quello
nuovo, tremante, non poté che alzarsi sulle gambe molli e, ancora una volta,
tacere.
3.
Quella che seguì fu una lenta riappropriazione della propria coscienza.
Seiano lo condusse fuori dalla sala, lo fece sedere e gli offrì un’altra
coppa che conteneva, stavolta, del vino. Marcò notò marginalmente che si era
sfilato la maschera. Fece altrettanto, con una mano che non voleva saperne
di smettere di tremare, e con l’altra accettò il vino. Il tribuno la
accompagnò con la propria perché non se lo versasse addosso.
«Ora puoi parlare» disse semplicemente.
Marco lo guardò negli occhi. «Dimmi cosa devo dire, tribuno, perché la mia
mente è vuota» sussurrò.
«Allora non dire niente. E non chiamarmi tribuno. Non c’è nessun tribuno,
qui. E nessun soldato e nessun mercante e nessuno schiavo. Solo figli di
Mitra. Ciò che accade fuori qui non conta, e ciò che accade qui non deve
essere raccontato. Per nessun motivo e a nessuno, a meno che non sia a sua
volta un iniziato. Se non ne hai la certezza, non dire nulla. Una parola di
troppo può ucciderti.»
«Ho rischiato la vita due volte in una notte, che altro può accadermi?»
ribatté Marco, con un sarcasmo che non gli era usuale.
«Può accaderti di perderla.»
«Comandi così tanti uomini che la vita di uno solo ti pare cosa
trascurabile?»
Il tribuno ristette per un secondo, forse colpito dall’arroganza venata di
disperazione che raramente un suo soldato doveva avergli volto contro. «Non
sei mai stato in pericolo di vita. La sentinella che hai ucciso si è cercata
la propria fine tradendo il nostro Pater.
Te lo dico solo perché un uomo dovrebbe sempre sapere chi ha ucciso.»
«L’avrei ucciso chiunque fosse stato» ribatté Marco. «E l’avrebbe fatto
chiunque altro al mio posto.»
«Ma non c’era un altro al tuo posto, Marco Licinio, e io l’ho ordinato a
te.» Gli tese la mano. «Alzati.»
«Che cosa sono, adesso?» mormorò il soldato.
«Un iniziato del dio Mitra. Quella maschera simboleggia
Corax, il Corvo. È il gradino più
basso, ma queste cose le imparerai più avanti.»
«Io credo negli dèi» replicò Marco, coraggiosamente.
«Tu non ne sai niente» lo liquidò Erennio Seiano, in tono sbrigativo.
C’erano delle persone che doveva conoscere, o che forse volevano conoscere
lui. Il primo lo riconobbe dalla voce. Era un decurione dell’ottava, poco
più vecchio di lui, con la voce ancora non del tutto profonda e il viso
liscio. Un giovane simpatico. Avevano parlato, qualche volta, e Marco aveva
buona memoria per i visi. Terminata la cerimonia, non indossavano più le
maschere, e il brusio di sottofondo non era più una nenia sacrale ma un
sovrapporsi di discorsi a bassa voce.
Settimio Galero, ecco come si chiamava.
L’unica altra persona conosciuta era Floro Secondo, il centurione della
quinta. Lo studiava con aria scettica, e Marco non poté che chiedersi se
l’antipatia fosse innata o nascesse da qualche ragione a lui sconosciuta.
Gli altri gli furono presentati. Badò di memorizzare rapidamente nomi e
facce. C’era Orazio Marso, un liberto che faceva il grammatico nel villaggio
più vicino, e aveva un nome germanico ma non lo usava più da vent’anni.
C’era Settimio Nepote, un mercante non più giovane che procurava alcuni
rifornimenti all’esercito (soprattutto di schiavi, pensava Marco). C’era
Vitale, schiavo di un padrone tanto ricco che a suo dire gli permetteva di
allontanarsi da casa perché “di servi come lui ne aveva a centinaia” (Marco
credeva che avere le riunioni durante la notte aiutasse sia Vitale che il
suo padrone a risolvere il problema). Giustino era un ingegnere edile della
seconda legione, stanziata non molto lontano dal loro contingente.
L’ultimo, un uomo sulla cinquantina dall’aria ben pasciuta e i capelli
intessuti di fili grigi, era Gaio Sidonio, un mercante di ascendenza fenicia
che si vantava di non avere pari nel suo mestiere. Aveva l’aria robusta e
impostata del viaggiatore di lungo corso, un vocione profondo e uno spiccato
senso dell’umorismo. E anche se Seiano aveva detto che dentro il mitreo la
posizione sociale non contava, quando Sidonio raccontava dei propri viaggi e
del proprio lavoro un vago sorriso condiscendente affiorava alle labbra del
tribuno.
Era quasi giorno fatto quando tornarono all’accampamento.
«Questa notte presentati alla mia tenda, alla seconda vigilia (2)» gli disse
Seiano, prima che si separassero.
«Un’altra cerimonia?» domandò Marco, la maschera nascosta dentro la lorìca.
Seiano lo guardò come a rimproverarlo della domanda, ma rispose
semplicemente: «No. Ho qualcosa da insegnarti.»
Le guardie appostate all’ingresso avevano l’ordine di lasciarlo passare,
stavolta. Marcò entrò nella tenda con l’elmo sottobraccio, e per un istante
faticò a riconoscere il tribuno nell’uomo vestito di una semplice tunica di
lana grezza, senza lorìca, senza schinieri, senza gladio alla cintura. Le
porzioni di corpo nudo (il collo, ad esempio, o le mani) erano segnate da
cicatrici vistose che si inabissavano sotto i vestiti, e lasciavano solo
immaginare la loro lunghezza o profondità. Una in particolare, che faceva
mostra di sé appena sotto il mento e andava a tuffarsi dentro la scollatura
della tunica, attirò l’attenzione di Marco e per qualche istante non gli
riuscì di distogliervi lo sguardo.
«Siediti» ordinò Seiano, indicando il tavolino da campo.
Marco prese posto su uno sgabello. Seiano rimase in piedi di fronte a lui.
«Sei stato… colto di sorpresa, ieri. Sarai confuso, probabilmente non hai
capito molto di quello che è successo. Sentiamo le tue domande.»
Marco esitò, a disagio.
«Avanti. Chiedi quello che vuoi.»
«Se lo dico a qualcuno… voglio dire, è quello che è successo alla
sentinella? Succederà anche a me?»
«Non puoi rivelare niente di ciò che sai, a nessuno. Se lo farai ti
considererò un mio fallimento personale – e ti ucciderò con le mie mani. Il
nostro non è un culto cruento, ma abbiamo tanti nemici e la segretezza è la
nostra prima regola.» Appoggiò le mani sul tavolo. «Poi?»
«Io non credo in questo dio» disse Marco, con voce più ferma.
«Solo perché non lo conosci. Ci crederai.»
«Io credo negli dèi.»
«Cosa ti hanno mai dato, gli dèi? A parte lasciarti orfano e senza un soldo
in tasca?»
«Più di quanto mi abbia dato questo dio. A parte un po’ di sangue di toro.»
Erennio Seiano corrugò la fronte, e Marco temette di aver osato troppo, ma
le linee si spianarono lentamente. «Ti spiegherò il nostro culto. Ciò che ti
serve sapere per ora, non tutto. Man mano scoprirai il resto.» Sembrò
cercare le parole per continuare. «Non devi rinnegare gli dèi. Nessuno te lo
chiede. Devi solo capire che c’è qualcosa di superiore a loro, e questi è
Mitra. Chiaro?»
Marco annuì, e Seiano prese a spiegargli con voce appassionata e una luce
mai vista negli occhi che Mitra era un dio di luce, ma non il dio del Sole,
perché anche il Sole gli era subordinato, e che presiedeva alla giustizia e
alla salvezza dell’uomo. Poi, forse vedendo che il discorso astratto faceva
poca presa, aggiunse che proteggeva i giuramenti e la salute del bestiame,
nonché gli uomini giusti. (Non specificò quale fosse il criterio di
giustezza di un iniziato di Mitra, e
Marco dedusse che la storia fosse sempre la stessa, la grandezza dell’Impero
e fare il proprio dovere.)
Della storia di Mitra capì ben poco, ma drizzò le orecchie quando Seiano
parlò di gradi. Era un po’ come l’esercito, in fondo, vai avanti e fai
carriera. Ma qui non serviva avere tre nomi (3) per arrivare al grado più
alto. Qui anche uno schiavo poteva diventare
Pater. Questo gli piaceva – e Seiano
lo capì, e Marco capì che l’aveva capito. Si ripeté i nomi dei sette gradi
nella mente – Corax, Nymphus, Miles, Leo,
Perses, Heliodromus, Pater; Corvo, Ninfo, Soldato, Leone, Persiano,
Eliodromo, Padre – anche se gli ci volle almeno un’ora di spiegazioni perché
ognuno assumesse una fisionomia ben precisa nella sua mente.
«Perché lo fai?»
Seiano si fermò, una vaga luce di fastidio negli occhi. «Ti spiego queste
cose perché devi saperle.»
«No, non questo. Perché mi hai scelto. Perché me. Tu non ti affideresti al
caso, tribuno, non hai… non avresti preso un soldato a caso. Io non so
perché, ma tu mi hai scelto, e io voglio saperlo. Perché.»
Seiano si passò una mano tra i capelli, lentamente. «Cosa c’è di tanto
importante che tu non possa vivere senza saperlo?» Marco non rispose. «Ti ho
scelto perché non avevi niente da perdere, Licinio, e nessuna ragione per
cui andare avanti. Perché mi sei piaciuto. E perché sei un buon soldato.»
«Quindi qualunque altro soldato senza un soldo in tasca e abituato a
obbedire agli ordini sarebbe andato bene» replicò Marco, senza ben sapere
perché la cosa lo facesse ardere così profondamente. O forse sì: perché
aveva rischiato due volte la vita, o creduto di rischiarla, per nessun altro
motivo che il capriccio di un uomo, e non c’era nessun fottuto volere di
nessun dio in mezzo, solo il capriccio di quell’uomo, che avrebbe potuto
volere lui come un altro, e adesso niente di questo starebbe accadendo
a lui.
«Te l’ho già detto. Non c’era un altro soldato. C’eri tu.»
«Io… io ero lì solo per caso» ribatté Marco, mentre gli ultimi due giorni
gli si riavvolgevano nella mente come un filo di lana intorno alla spola, e
d’un tratto era di nuovo sulla sua branda scomoda col ginocchio di Mure tra
le costole e un’inutile voglia di morire. Non gli avevano insegnato a
desiderare la morte – un cittadino romano, un italico, aveva troppo da fare
per Roma e nessun diritto di desiderarla – però aveva imparato ugualmente.
Forse quando la sentinella gli aveva domandato perché si era arruolato,
avrebbe dovuto rispondere così: «Per morire».
«Il caso non esiste» disse Seiano, a bassa voce.
Marco alzò gli occhi, stupito di trovarselo così vicino – quasi incombente –
e di non aver notato prima il suo movimento.
«Ti ho scelto perché eri lì, ed eri lì perché io potessi sceglierti. Questo
è tutto.»
Ristettero, fronteggiandosi. «Questo è tutto» ripeté Marco, in un sussurro.
«Sì» disse Seiano, tirandosi indietro. «Ora vai a dormire, la lezione è
finita.» Piccola pausa. «E torna domani.»
4.
Erano passate due settimane, e la sua vita non era cambiata affatto. C’erano
sempre le esercitazioni, c’erano sempre i turni di guardia, il rancio
immangiabile, le partite a dadi e la noia inevitabile degli inverni in
campagna. Tutto sommato la bellicosa Germania sembrava clemente con i
soldati di Cesare. Con un certo disprezzo, qualche camerata aveva osservato
che i Germani dovevano provvedere a riscaldarsi le proprie chiappe prima di
tentare di far bruciare quelle altrui.
La sua vita non era cambiata, se si faceva eccezione per quegli incontri con
Seiano che più d’una volta aveva desiderato chiedergli di interrompere. Si
svolgevano sempre di notte – le poche ore di luce erano preziose – e gli
tagliavano via metà delle ore di sonno senza sconti per il giorno seguente,
che spesso lo trovava semplicemente troppo stanco per qualsiasi cosa. Ma non
era questo il problema. Il problema era Seiano. O forse, al contrario, il
problema era lui.
Seiano non era un bravo insegnante; non ne aveva né l’indole né la pazienza.
I suoi discorsi erano quelli di un buon capo militare – dritti al punto,
concisi, efficaci – ma di fronte alle lunghe argomentazioni gli difettavano
gli esempi, o le parole complicate che riassumessero ciò che lui aveva in
mente, o le parole semplici per spiegare quelle complicate. Quando era
stanco, Seiano si stringeva la radice del naso tra il pollice e l’indice e
sospirava tra i denti.
C’era stata un’altra cerimonia, una settimana prima, quella che Seiano
definiva una funzione normale, cioè
senza l’iniziazione di nessun nuovo adepto. Nessun toro ucciso, questa
volta.
Alla fine, quando la cerimonia era finita e i presenti si erano sfilati le
maschere, Sidonio gli si era avvicinato e gli aveva posato una mano sulla
spalla, dicendogli che avevano bisogno di giovani come lui – sì, proprio
come lui – per rimpiazzare i vecchi barbogi del mitreo (e aveva indicato se
stesso).
Marco non si riteneva una mente particolarmente acuta, ma gli era stato
chiaro che quell’apprezzamento era solo un preludio a qualcos’altro. Guatato
dal suo sguardo vagamente sospettoso, Sidonio aveva riso e aggiunto che
c’era un motivo importante per cui l’aveva avvicinato. Un motivo molto
importante. Aveva fatto per continuare, ma poi d’un tratto, cambiando tono e
voce, aveva menzionato un debito di gioco che doveva riscuotere dal caro
Orazio Marso ed era scomparso tra le ombre delle colonne.
Poi Seiano gli aveva appoggiato una mano sul braccio e gli aveva detto che
era ora di andare.
In aggiunta a tutto ciò, Mure lo guardava in modo strano.
Non che non l’avesse immaginato. Le sentinelle lo vedevano entrare e uscire
dalla tenda del tribuno, le guardie non erano tenute a conservare il
silenzio e infine Sesto Albino sembrava provare un certo malevolo piacere
nell’infierire contro di lui durante le esercitazioni. Mure non era stupido,
anche se si diceva che il cervello non convivesse bene con la grossa taglia,
e soprattutto sapeva tenere la bocca chiusa – dote ancora più preziosa.
Qualche giorno dopo l’iniziazione, quando Marco era tornato alla branda in
piena notte, Mure aveva aperto gli occhi e si era messo a sedere, facendogli
cenno di venire vicino. Si erano detti poche parole, lo stretto necessario.
«Gli fai la spia?»
«No.»
«Gli altri pensano di sì.»
«Si fottano. Non gli faccio la spia.»
«E allora che fai?»
«Non te lo posso dire.»
«Ti scopa?»
«No.»
Un momento di silenzio.
«Gliela facevi la spia, se te lo diceva?»
«E tu no?»
Era a questo che pensava – alle settimane trascorse, a Mure e a Seiano –
mentre scrutava l’orizzonte del suo primo turno di guardia della giornata.
Era la terza (4), e la notte prima Seiano si era intestardito tanto su un
argomento di cui lui si era già dimenticato che adesso faticava a tenere gli
occhi aperti. Anche per questo, quando vide Gaio Sidonio avvicinarsi a lui –
mezzo coperto dal riverbero del sole sulla neve - pensò si trattasse di uno
scherzo della stanchezza.
Una preoccupazione tangibile adombrava il suo solito sorriso, e Marco non
dovette neanche preoccuparsi di chiedergliene la ragione.
«Se sono venuto fin qui, c’è un motivo preciso» esordì Sidonio, con voce
curiosamente bassa, quasi un sibilo. «Ho bisogno di te, Marco. Devi
aiutarmi.»
Marco annuì, osservando il modo in cui si guardava intorno prima di
continuare: «Tu sei un soldato. Tu sapresti… voglio dire, tu sapresti
uccidere un uomo, se fosse per una giusta causa?»
«Io… faccio quello che mi ordinano.»
«Non si tratta di ordini, ma di scelta. Sapresti uccidere? Per una giusta
causa?» ripeté.
Marco trasse un respiro. «Penso… penso di sì.»
Non fece in tempo a dirlo che Sidonio replicò, stringendogli un polso con
presa ferrea: «C’è un traditore nel mitreo. Vuole uccidere il Pater.»
«E… e perché?» domandò Marco, non trovando di meglio da dire. La domanda
esatta sarebbe stata: chi è?, ma
trovava più curioso che qualcuno volesse uccidere quel vecchio – supponeva
fosse vecchio, anche se non l’aveva mai visto in faccia.
«Io ritengo… per prendere il suo posto.»
«E…»
Sidonio sospirò leggermente. «Il mitreo si avvale delle donazioni dei
fedeli. In alcuni periodi dell’anno sono molto cospicue.»
Bene, così la questione era molto più chiara. «E io… ti aspetti che io lo
trovi e lo uccida?»
«Non ci sarà bisogno di trovarlo. So già chi è. Non ti chiedo di assassinare
un innocente, ma un omicida.»
Inspirò. «Chi è?»
Sidonio parve esitare. «A volte… a volte dobbiamo fare delle scelte, anche
se ci straziano il cuore. Delle scelte giuste. Difficili. Mi capisci, vero?»
«Capisco che vuoi che lo faccia al posto tuo.»
«Solo tu puoi farlo.»
«Dimmi chi è.»
Invece un lampo d’allarme passò negli occhi di Sidonio, che si scostò da lui
sibilando un avvertimento e per la seconda volta si allontanò prima che
Marco potesse fermarlo. Si voltò per capire quale fosse stata la causa della
sua fuga, ma vide solo un lampo di rosso svanire dietro il profilo di una
tenda.
Qualche soldato doveva aver fatto cadere uno scudo o una lorìca. La tenda
era immersa nel silenzio fischiante e denso dei respiri dei commilitoni; era
ancora buio pesto, e Marco non era solito svegliarsi in mezzo alla notte,
perciò sul momento non si spiegò cosa l’avesse destato. In un attimo aveva
già rinunciato a rispondersi. Ma quando si portò una mano alla faccia per
grattarsi il naso, scoprì che qualcosa di piccolo e solido era posato sul
cuscino a un pollice dalla sua faccia.
Saltò sulla branda, pensando a un animale, forse un topo, e Mure grugnì una
protesta per il calcio ricevuto. Ma non era un topo. Era un piccolo dado
chiaro, dalla consistenza granulosa, non di legno né d’osso né di altro
materiale che potesse riconoscere, con una lettera vergata in rosso
sanguigno su una delle sei facce.
H.
Lo infilò delicatamente nella sacca, ripensando a Sidonio e alla storia
(vera? falsa?) del traditore. H.
Non conosco nessun H, pensò, rimettendosi a dormire.
Alla funzione di quella sera, gli sembrò che il gruppo di Galero e degli
altri fosse più inquieto del solito. Di solito erano strenuamente rispettosi
del silenzio imposto durante la funzione, ma quella volta, raccolti in un
angolo del mitreo, continuarono a discutere a bassa voce per tutto il tempo.
Alla fine della funzione Marco si accostò discretamente a Galero e sbirciò
tra le sue dita, ritraendosi non appena vi scorse un piccolo dado giallino
con una D vergata in rosso sulla prima faccia. Galero, notando il movimento,
lo guardò negli occhi con aria sospettosa mentre lasciava scivolare la mano
sotto il mantello.
«Anch’io» sussurrò Marco. I lineamenti di Galero si distesero leggermente,
ma il decurione rimase sospettoso finché Marco non gli mostrò la piccola H
rossa sul proprio dado.
Orazio Marso, che era il più vicino e aveva notato la scena, lanciò uno
sguardo a Vitale e agli altri, e Marco si ritrovò a considerare quanto
inadeguata fosse la sua partecipazione a quello che, bontà del suo artefice,
sembrava proprio un giochetto linguistico.
Le lettere erano sette, tracciate in identica maniera su quei dadi solidi ma
di grana friabile, simile a farina di pessima annata. Sette. A Marco era
toccata la H, a Galero la
D. Marso aveva una
V, Vitale una
S, Secondo una
O, Nepote una
R, e infine Giustino una
M. A una prima occhiata Marco
ricompose faticosamente la parola HDVSORM, che non era affatto una parola –
a meno che forse non si tirasse in ballo uno di quegli incomprensibili
dialetti germanici.
«Sei sicuro che sia stato Sidonio?» domandò Giustino a Galero, guardandolo
con aria scettica.
«Sì, sono sicuro» replicò il più giovane, in tono vagamente pedante.
«Eppure sei l’unico con cui ha parlato. Magari l’hai frainteso.»
«Non ho frainteso nulla, lui…»
«È venuto all’accampamento, oggi» mormorò Marco.
Secondo alzò gli occhi su di lui, corrugando la fronte. «Oggi?»
«Sì. Mi ha parlato…» esitò, «mi ha detto di un… traditore. Ma è fuggito
prima di dirmi il nome. Mi ha detto che vuole uccidere…»
«… il Pater» terminò Galero per lui. «È come dicevo io.»
«Ma lui dov’è?»
«Non lo sappiamo» disse Vitale. «Sarebbe dovuto essere qui, stasera.»
«Forse…»
«Sì, forse» mormorò Galero, in tono lugubre.
Calò un silenzio imbarazzato. Marco continuava a fissare i dadi senza
vedervi altro che ghirigori di sangue, e a malapena sentì Giustino
commentare in tono vago che era uno strano miele asiatico che si estraeva
dalle piante e serviva ad addolcire il vino.
«È il nome?» mormorò Marco, alla fine. «Voglio dire… è il nome della persona
che cerchiamo? Marso?»
Il grammatico strinse le labbra, pensando. «Può essere qualsiasi cosa.
Anche… un luogo. O un’indicazione di altro genere. Ad esempio…» indicò
alcuni dadi, sillabando: «Ecco, questo è D-O-M-V-S. Casa (5).»
«Non va, restano fuori H e R» commentò Nepote.
«Potrebbe essere DOMVS H R. Domus Horatii
Rhodensis. Conosciamo un Orazio di Rodi?»
«No. Dobbiamo arrivare fino a Rodi per trovare il traditore?» ribatté
Galero, sprezzante.
«Molto bene. Fa’ di meglio, se ne sei capace.»
Galero corrugò la fronte. «… DORSVM?» disse alla fine, incerto.
«DORSVM» ripeté Marso, inespressivo. «E la H?»
Galero scosse la testa. «Forse qualcun altro ha ricevuto il dado, e l’ha
tenuto segreto?»
«Avete notato…» provò Marco, timidamente, «voglio dire, avete notato che
sono sette? Le lettere, dico.»
«Sì, sono sette. Anche noi siamo sette. E allora?» constatò Secondo.
«Ecco, il sette… insomma, è un numero che ritorna spesso. Io penso che non
ci sia nessun altro.»
Gli altri annuirono, e Marco si stupì vagamente che un particolare così
palese non fosse saltato in mente a nessuno di loro prima di lui.
«Forse è DRVSOM, l’imperatore. Magari c’è un significato particolare…» tentò
Vitale.
«Desolato di correggerti, amico mio, ma quello sarebbe DRVSVM. Credo che
Sidonio sappia scrivere un po’ meglio di te» constatò Marso, con un leggero
sorriso.
Quando Seiano lo chiamò per dirgli che era ora di tornare, non erano venuti
a capo di niente.
5.
L’intuizione, come molte intuizioni, giunse al termine di una notte insonne.
Le sette lettere gli vorticavano nella mente mentre si rigirava sulla sua
branda, senza voler davvero prendere sonno e in realtà volendolo, ma non
riusciva a dar loro alcun senso chiaro. I giochi di parole non erano il suo
forte, conosceva a malapena l’alfabeto e un po’ di grammatica. Avrebbe
dovuto lasciarlo fare a Galero, o a Orazio Marso, o a Secondo, tutta gente
più istruita di lui. Eppure lui era l’unico con cui Gaio Sidonio avesse
parlato di persona. Doveva pur significare qualcosa.
Infine era crollato. Al risveglio, improvvisamente tutto aveva acquisito un
senso. Ma prima che riuscisse a dargli un nome, a fermarlo nella mente, il
sonno aveva vinto in qualche modo la battaglia, e l’aveva forzatamente
reclamato a sé.
Ripiombò in un’incoscienza strana, leggera e pesante allo stesso tempo, che
di sottofondo recava i rumori e le percezioni del mondo esterno – i
movimenti di Mure, i passi di qualche soldato che si alzava per il turno di
guardia, la consistenza ruvida della coperta che gli solleticava il naso –
ma che gli proiettava nella mente immagini rapide e troppo confuse da
districare.
Lucio la sentinella giaceva riverso sul terreno come l’ultima volta, una
pozza di sangue allargata sotto la gola recisa. Il sangue ancora caldo
stillava dalla mano di Marco chiusa intorno al pugnale, e per qualche
ragione lui si accorse di non riuscire a staccare gli occhi dal dondolio di
un’ultima, densa goccia rossastra, che tremolò e tremolò appesa alla punta
della lama finché non riuscì a staccarsi e precipitare dentro la pozza.
Plic. Lucio scomparve, sostituito
dalla mole scura di un grosso toro sgozzato.
Plic. La pozza si allargò fino a
bagnargli i piedi, e in mezzo al liquame Marco vide germogliare piccoli
fiori, rossi di sangue come neonati appena usciti dal ventre della madre.
Plic. Uno dei fiori crebbe e divenne
una pianta, poi un arbusto, infine una spiga di grano. Si chinò per
raccoglierla, ma vide che il toro era scomparso. Al suo posto c’era ora un
uomo, con una fiaccola nella mano sinistra e quello che sembrava, no, che
era il suo pugnale nella mano
destra.
«È lui» disse l’uomo, accostando la lama insanguinata alle labbra. Passò la
lingua sul filo, senza tagliarsi, sorbendo qualche goccia di sangue. «E tu
devi ucciderlo, Marco. Stanotte.»
«Non può essere lui» sussurrò Marco.
«Che prova sarebbe se non dovessi mettere in gioco il tuo amore?» domandò
l’altro, accennando un sorriso. «Uccidilo. Hai la mia protezione.»
Si svegliò con la bocca sporca di sangue.
Quella notte, quando entrò nella tenda del tribuno, il pugnale agganciato al
fianco gridava col suo peso una presenza che si era abituato a non avvertire
più. Gli parve che Seiano lo squadrasse più attentamente, mentre parlava,
dritto negli occhi com’era sì suo solito, ma più profondamente delle altre
volte. Si sforzò di mantenere un’espressione neutra, e quando Seiano gli
chiese se aveva domande rispose con calma di no.
«No? Tu hai sempre domande» ribatté il tribuno, con una nota di vago stupore
e forse – ma dèi, non poteva essere – minima delusione. Seiano odiava le sue
domande, troppo sfrontate o stupide per meritarsi il più delle volte più di
uno sguardo annoiato.
Srotolò un foglio, vi vergò sopra qualche riga frettolosa e poi chiamò una
delle sue guardie perché andassero a consegnarlo al destinatario.
«Ho… capito tutto, stavolta» replicò Marco, anche se aveva a malapena
ascoltato.
«Ne dubito. Sei distratto.»
Marco trasse un respiro, guardando altrove. «Scusami, tribuno. È solo
stanchezza.»
Seiano girò intorno al tavolo, accostandoglisi e restando immobile finché
Marco non si decise ad alzare gli occhi. «La verità, ora» disse, in tono
leggermente interrogativo.
«Non ho dormito, tribuno» rispose.
«E poi?»
L’espressione di Seiano perse la solita spigolosità, addolcendosi, facendosi
più franca. Marco ebbe il subitaneo pensiero che a un uomo del genere
avrebbe potuto rivelare qualsiasi cosa, qualsiasi – e si sentì un debole per
questo. Se davvero era lui il colpevole, era anche l’ultima persona cui
potesse parlare dei dadi e di Sidonio. Un alone di paura e aspettativa gli
invischiò il respiro. «Io credo… credo che se mi hai scelto c’è un altro
motivo che non mi hai detto» inventò, senza sapere cosa stesse dicendo,
attingendo a un angolo della sua mente non del tutto conscio di sé – quello
del dormiveglia notturno.
Seiano non parve irritarsi. «E quale sarebbe?»
«Dimmelo tu.»
«Mi stai provocando?»
«Voglio solo una risposta.»
La risposta arrivò, anche se diversa da come se l’era aspettata – se mai se
n’era aspettata una. C’era il mento ispido di Seiano contro il suo, e le
labbra e i denti, e Marco anche volendo non avrebbe potuto dimenticare che
Seiano era un soldato, perché una mano gli teneva stretta la nuca per non
lasciargli modo di sfuggire, ed era decisamente più forte di lui. Il labbro
spaccato urlò di silenzioso dolore, ma Marco non si mosse.
Non sarebbe fuggito comunque. Il tepore del tribuno lo attirava come una
falena a un fuoco, e le notti in Germania erano fredde, niente di
paragonabile al mite inverno campano. Puntò una mano contro il tavolo,
tentando di alzarsi, di andargli incontro, ma il tribuno lo inchiodò allo
sgabello. «Hai preso cattive abitudini» sussurrò, una lieve cadenza ironica
nella voce. «Ti ho lasciato troppo spazio, e ora ti ribelli.»
«Non mi sto ribellando» ribatté, più calmo di quanto lo fosse stato fino a
quel momento. Questa era una cosa facile da gestire. Il suo comandante lo
voleva; non aveva che da lasciarlo fare. Sempre meglio il suo corpo addosso
che il suo sguardo.
Era questo, alla fine, il punto: le lezioni, la premura, l’interesse.
L’iniziazione. Seiano era un uomo incredibilmente complicato. Forse era
questo a distinguere i comandanti dai soldati semplici, i fini strateghi da
chi sapeva solo menare la spada. Gli sarebbe bastato chiamarlo una volta
nella sua tenda e dargli un semplice ordine, invece aveva messo su tutta
quella storia. Perché girarci tanto intorno? Gli parve di avvertire in fondo
alla lingua il sapore metallico del sangue di toro.
Si alzò, e stavolta Seiano lo lasciò fare. «Come fai?» domandò il tribuno,
in un tono che non poteva definirsi se non affascinato. «Ad avere così tanta
paura che ti tremano le mani e fare ugualmente scelte sensate.»
Non era Seiano a fargli paura. «È facile scegliere quando non hai scelta.»
«Ora ce l’hai. Scegli liberamente.»
Marco sorrise appena. «Perdonami, tribuno, ma non sono così stupido da
crederti.»
«Non credi alla mia parola?»
«Non credo che tu la stia impegnando.»
«Averti controvoglia sarebbe noioso, e non ho tempo da perdere annoiandomi.
Scegli adesso. Non ci saranno ritorsioni.»
Marco non esitò un istante. Si diresse verso la branda, scostò di lato un
lembo della coperta, che al tatto risultò ruvida ma calda, e sedette sullo
spicchio scoperto, armeggiando coi legacci della lorìca. Seiano rimase a
guardarlo, a distanza. Con la rapidità data dall’abitudine, Marco sganciò la
corazza in pochi istanti e sfilò il pugnale, gettandolo con la fondina
vicino alla branda. Rallentò volutamente sugli schinieri, prendendosi
qualche istante per osservare il tribuno. Quando ne incrociò lo sguardo,
Seiano colmò la distanza tra loro e si piegò su di lui puntando un ginocchio
contro la branda, che si infossò pericolosamente. Lo spinse disteso sulla
schiena e Marco lasciò andare il gambale, azzardando posargli una mano sul
braccio.
«Non credo che mi annoierò» dichiarò Seiano, contemplando con interesse il
gesto.
«L’hai detto tu che ti piace il modo in cui ti obbedisco» replicò Marco.
Seppure pronunciata in tono neutro, la frase assunse una sfumatura maliziosa
che non aveva previsto.
Seiano sorrise vagamente. «Cos’è che vuoi?»
«Voglio restare vivo finché ci riesco.»
«Nel mio letto non è mai morto nessuno» concluse Seiano, sfiorandogli la
coscia.
Mentre si lasciava spogliare dalle mani altrettanto esperte del tribuno, lo
sguardo di Marco cadde sul suo pugnale, posato così vicino che gli sarebbe
bastato allungare un braccio per afferrarlo, un istante per estrarlo dalla
fondina e un briciolo di volontà per conficcarlo nella gola di Seiano.
C’è sempre una prima volta, pensò,
mentre lo strofinio dei loro corpi gli procurava una delle migliori erezioni
degli ultimi mesi e quel briciolo di volontà si eclissava in un sospiro.
E c’è sempre tempo, aggiunse
mentalmente.
Il dormiveglia in cui si era lasciato scivolare terminò bruscamente quando
sentì il braccio di Seiano cingergli la vita, e il suo respiro sulla nuca.
Pensò che gli fosse tornata la voglia e restò un attimo immobile, in
ascolto. I lembi della tenda ondeggiavano, forse smossi dal vento, lasciando
filtrare una minima luce azzurra tremolante. Il resto era immerso
nell’oscurità.
Seiano era un insonne, il che spiegava perché i loro incontri si fossero
svolti sempre dopo la prima vigilia. Probabilmente dormiva tre o quattro ore
a notte. Ma adesso il suo respiro era calmo e regolare, e la mano che gli
sfiorava il ventre era rilassata.
Era il momento. Si allungò lentamente verso il bordo, un pollice per volta,
fino a che non sentì sotto le dita il cuoio della fondina. Con pazienza
infinita sfilò via il pugnale con una mano sola, dato che l’altro braccio
era bloccato sotto il suo stesso peso.
Chiuse gli occhi, stringendo l’elsa nel pugno finché non la sentì calda,
confortevole. Ora solo un minimo di volontà, e Seiano sarebbe morto.
Gli aveva mentito, dopotutto. Non stava affatto cercando di restare vivo. Ma
se il sogno gli era veramente stato mandato da Mitra – e se non da lui, da
chi? – allora doveva seguire la Sua volontà. In ogni caso sarebbe morto.
Tanto valeva andarsene facendo l’unica cosa che ritenesse giusta; prendendo
una decisione e prendendola da solo.
Strinse le dita intorno all’elsa e fece per voltarsi, ma la mano del tribuno
risalì il suo ventre e gli afferrò il polso, bloccandolo.
Marco sentì una morsa gelata stringergli il cuore.
«Mossa stupida» osservò Seiano «passare da un padrone all’altro. Credevo
avessi più giudizio.»
«Non c’è… nessun padrone» mormorò Marco, senza mollare il pugnale.
«Gaio Sidonio. È lui che te l’ha ordinato. Quanto ti ha offerto?»
«Non…»
«Lascia quel pugnale o ti spezzo il polso» gli sussurrò Seiano all’orecchio.
Intensificò la stretta, e quando il dolore si fece insopportabile, appena un
istante prima della rottura, Marcò allentò la presa. Il tribuno afferrò il
pugnale al volo.
«Uccidimi» mormorò Marco.
«Prima dimmi quanto ti ha pagato.»
«Niente.»
«Niente? Valgo così poco per lui?»
«Non ho preso denaro.»
«Allora valgo così poco per te?»
Marco osservò con sguardo spento la lama nella mano del tribuno. «Mi ha
parlato di un traditore. Voleva dirmene il nome ma non ha fatto in tempo, e
solo oggi ho capito che è dovuto fuggire perché tu stavi arrivando. Ma ci ha
fatto trovare degli indizi, delle lettere. La parola era HDROMVS.
Heliodromus. Sei tu quello che vuole
uccidere il Pater.» La spiegazione
terminò com’era iniziata, con voce inespressiva.
«Sei stato ingannato» disse Seiano, dopo qualche istante. «Io non ho alcun
bisogno di uccidere il Pater. È
vecchio e non ne avrà per molto, e io sono il suo successore designato. Il
Pater ha preferito me a Gaio Sidonio.»
Marco chiuse gli occhi, espirando. «Uccidimi.»
«Hai tanta fretta di morire?»
«Morirò comunque. Vorrei solo evitare di aspettare fino a domani.»
La lama gli sfiorò la gola, carezzevole. «Tu sei davvero un buon soldato,
Marco» mormorò Seiano, accostandogli le labbra all’orecchio. «Ma come tutti
i soldati di fronte a ordini contrastanti non sai a chi obbedire. Non sai
chi ha ragione. Non sai chi è il più forte.»
«Ho fatto un sogno» bisbigliò Marco, rabbrividendo suo malgrado. «C’era…
Lui. Mi ha detto di trovarti e ucciderti subito. Mi ha detto che eri tu.»
La lama premette con più forza e Marco si irrigidì, in attesa.
«È vero?»
«Non mi serve a niente mentirti ora.»
«Può bastare» disse Seiano, scostando il pugnale. «A mio parere la prova è
superata.»
«Resta il fatto che non ti ha ucciso» constatò un’altra voce, in tono
canzonatorio.
«Dubito che in quel caso avresti considerato la prova superata.»
«Sì che l’avrei fatto. Ma avrei anche preparato il tuo rito funebre.»
Marco deglutì, mentre la figura fino a quel momento rimasta nell’ombra
avanzava verso di loro. La riconobbe prima di distinguerne il profilo. «Sidonio?…»
«Non temere, sono qui solo da poco. Seiano era convinto che avresti agito
stanotte, o così mi ha comunicato una vigilia fa.»
«Come faceva a…»
«La tua espressione era così chiara che anche un bambino avrebbe capito cosa
stavi pensando» spiegò il tribuno. «Per il futuro bisognerà insegnarti a
dissimulare.»
Marco inspirò ed espirò, lentamente. «Non era vero niente? Era solo un… un
gioco? Non c’è nessun traditore…»
«Non lo chiamerei gioco. “Prova” è il termine esatto» ribatté Sidonio. Si
chinò su di lui, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Seiano si è occupato
di insegnarti la teoria; alla pratica ci sei arrivato da solo. Domani ti
consacreremo Nymphus.»
«Ma… il Pater?»
«Sono io il Pater.»
Marco saltò in piedi, incurante della sua nudità, posando le mani sulle
braccia di Sidonio. «Io ho fatto un sogno! C’era Lui!» ripeté, stringendolo
con veemenza.
Sidonio sorrise. «Il che dimostra che non tutti i sogni sono profetici. È
stato quello a convincerti?»
Marco annuì. «Ho pensato… era l’unica cosa che avesse un senso. Era l’unica
cosa che potessi scegliere da solo.»
«Credo che tu abbia avuto ragione, Seiano. Al Signore piace il tuo ragazzo.»
«È il motivo per cui l’ho presentato.»
Senza aggiungere altro, Sidonio si liberò gentilmente dalla stretta di Marco
e uscì dalla tenda. Il soldato, d’improvviso acutamente consapevole della
propria nudità, si chinò per raccogliere la tunica abbandonata chissà dove.
La scoprì a tastoni nel viluppo delle coperte.
«Questo non c’entra con la prova» disse Seiano, con voce ferma.
«Questo?»
«Sì.»
Marco lo guardò, la tunica infilata tra le braccia. «Sempre ai tuoi ordini»
disse semplicemente. Raccolse la lorìca e gli altri pezzi dell’armatura e li
infilò alla bell’e meglio nell’oscurità, mentre Seiano si limitava a
osservarlo in silenzio. «Ti auguro una buona giornata» mormorò Marco, prima
di uscire dalla tenda.
Era quasi l’alba, ma del sole c’era solo un’ombra rosata all’orizzonte, e il
cielo era ancora un blu notturno trapunto di stelle. Le guardò vacillare nel
fumo della torcia più vicina, e pensò che se traballavano loro, per lui non
c’era proprio speranza.
Poi risentì il respiro di Seiano sulla nuca, e il brivido che ne seguì fu
così curiosamente piacevole che l’altro pensiero finì spazzato via. Mentre
le stelle lentamente svanivano, cancellate dal sole, rientrò nella tenda
comune deciso a contendere a Mure la propria mezza coperta.
- Fine -
(1) Cioè, “topo”.
(2) Circa le nove di sera. Il tempo notturno si misurava in vigilie di tre
ore ciascuna.
(3) Solo gli aristocratici avevano tre nomi, ossia
praenomen (nome personale, es.
Publio), nomen (nome di famiglia,
es. Erennio) e cognomen (soprannome,
usato in senso distintivo, es. Seiano).
(4) Nove di mattina circa.
(5) Non una ‘casa’ nel senso generico del termine, ma la casa patrizia, con
caratteristiche peculiari. Non esiste l’esatto equivalente italiano.
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