Kabuto Gaiden

 

Capitolo 13: 別れ (Wakare) (Separazione)

 

 

di Hana-bi

 

 

La mia stanza. Così silenziosa nel mattino. Gli spazi che conoscevo come misure del mio stesso corpo.

Nel mio armadio, sceglievo dei vestiti. Altri non li avrei messi mai più.

Quel giorno avevo scelto un hakama bianco, sotto la solita tunica da medico che avevo sempre portato per tutta la mia vita senziente. L'immancabile fusciacca Yakushi a stringerla in vita, con la stampa minuta del kanji ii, l'Arte Medica... tre giri, uno orizzontale e due sfalsati, lato destro libero per la borsa alla cintura, lato sinistro rialzato per nascondere il fodero della kodachi. E sopra le spalle, al posto del saio usuale, un semplice haori nero.

Il lutto per la morte dei miei cugini.

Mi ero guardato allo specchio. Per farlo senza occhiali, avevo dovuto concentrare il chakra nel solito modo. E mi era apparso un ragazzo alle soglie dell'età adulta, dal volto ovale e regolare, con le labbra pallide ma generose, gli occhi neri a mandorla più grandi di quanto normalmente si notasse, le sopracciglia sottili e poco arcuate, e quella massa folta di capelli ormai completamente argentati, tra cui si indovinava la stria più chiara lasciatami dalla antica ferita.

Nessuno riesce a capire la mia vera età. Nemmeno io...

Automaticamente, come facevo da anni tutti i giorni, mi ero raccolto la capigliatura nella coda ordinata che tutti gli Yakushi portavano in pubblico: era il segno dell'iniziazione all'arte medica. La prima volta era stato mio padre stesso a farmela, orgogliosamente, davanti a tutta la famiglia: ero diventato genin, ufficialmente parte della classe dei ninja e quindi degno membro del clan. Dopodiché mi aveva voluto al suo fianco, una sorta di sua replica in piccolo, compresa la testa che all'epoca era striata di grigio, come la sua. E tutti si erano complimentati con noi.

C'era molta pietà in quei sorrisi, ora me ne rendevo conto. Pietà per mio padre, che aveva rattoppato il suo cuore straziato con quel figlio di riserva. Pietà per me, un ragazzino rimasto senza niente al mondo, nemmeno una memoria.

Pietà.

Avevo messo gli occhiali, rilasciando la mia concentrazione. Un sospiro, e il mondo era tornato nitido. Crudelmente nitido.

Infine avevo cinto la fronte col simbolo della Foglia. Il metallo era graffiato, segno delle mie vicissitudini nella Foresta della Morte.

Non importa, è l'ultima volta che lo metto.

Avevo lasciato la mia stanza, andando nel doma a mettermi i sandali per uscire di casa.

Le strade di Konoha erano già frequentate: gente che spazzava allegramente le soglie, bambini che si raggruppavano per andare in accademia, donne che si recavano al mercato, uomini che andavano a prendere o eseguire ordini. Molti mi avevano salutato, e l'anziana venditrice di dolci mi aveva fermato per chiedermi se potevo toglierle il dolore alla schiena. Non era la prima volta che mi faceva quella richiesta, e io non le dicevo mai di no.

Nel retro del suo negozio mi ero limitato a porre un blocco temporaneo a certi gangli nervosi lungo la colonna vertebrale. Non potevo fare altro per lei, perché aveva un cancro mortale che le lasciava pochi mesi di vita; ma lei non lo sapeva, e accusava la fatica per i suoi dolori. E io sorridendo le davo ragione, e la tranquillizzavo dando la colpa all'umidità, al tempo che cambiava, con la consueta tecnica di dire le bugie credendoci seriamente per qualche istante.

Quante menzogne nella mia vita.

Felice di sentirsi meglio, la donna aveva voluto a tutti i costi regalarmi un cestino di dolci.

Ero arrivato in ospedale, dove i compagni e i colleghi mi avevano salutato con riserbo. La storia della morte dei miei cugini aveva già fatto il giro di Konoha e si pensava che io fossi affranto: non mi era difficile avere quell'espressione sul viso. Mi sforzavo di sorridere, pur con la malinconia negli occhi, e l'aria di chi preferisce lavorare sul dolore altrui per dimenticare il proprio.

Avevo dato un'occhiata alle cartelle appese alla rastrelliera e la mia mano si era fermata su una di esse.

Lee.

Sapevo che si era battuto con Gaara, e che era stato onorevolmente sconfitto. Ma le conseguenze erano state spaventose: avevo letto il suo referto e non avrei saputo da che parte cominciare, con tutte quelle lesioni e fratture. Quattro medici tra i più bravi si erano avvicendati in un'operazione interminabile per salvargli la vita. E ci erano riusciti, ma probabilmente quel ragazzo non avrebbe combattuto mai più. La sua carriera di ninja era finita ancor prima di cominciare veramente.

Il Jinchuuriki della Sabbia gli ha fatto questo...

Quello che da lì a un mese, nella terza prova, avrebbe dovuto essere l'avversario di Sasuke.

È per questo che Orochimaru mi ha ordinato di rapirlo? Per evitargli di scontrarsi con un mostro simile?

Avevo represso una sensazione acida in me.

E Sasuke dov'è?

Non c'era nessuna cartella col suo nome.

Avevo facilmente distratto l'infermiera, offrendole uno spuntino con i dolcetti che mi ero portato dietro. Lei mi aveva ringraziato, e aveva voluto ricambiare offrendomi una tazza di té appena fatto. Intanto che lo preparava, i miei occhi avevano studiato le carte intorno a me.

All'ultimo piano risulta un'ala con le stanze vuote.

Avevo abbassato lo sguardo sulle prescrizioni alla farmacia.

Ma qui... c'è una richiesta di materiale per una di quelle stanze!

La prescrizione era scivolata garbatamente nella tasca della mia tunica, in tempo perché l'infermiera tornasse con la tazza fumante e i consueti pettegolezzi da corsia.

Avevo ripreso il cestino con i dolci che erano rimasti e impulsivamente mi ero diretto alla stanza di Lee. Era nel settore riservato ai feriti gravi.

Davanti alla sua porta avevo trovato Gai Maito: un jounin alto e muscoloso, dal quale Lee doveva aver copiato il taglio di capelli e l'uniforme verde. Aveva un volto in eccesso per ogni cosa: un naso troppo grosso, sopracciglia troppo spesse e una bocca troppo grande, con le rughe che indicavano una propensione al riso. Ma ora quella bocca era ridotta a una linea di pena, e gli occhi fissavano il vuoto.

Mi ero fermato davanti a lui, che mi aveva guardato perplesso. Poi mi aveva riconosciuto, spalancando gli occhi in maniera esagerata.

"Tu sei quel ragazzo che si è rifiutato di combattere..."

"Sì," avevo detto, con un inchino. "E sono un amico di Lee-kun. Posso vederlo?"

"Certo!" aveva esclamato lui, e invece di aprire la porta l'aveva spalancata di colpo. "Lee!" aveva quasi gridato "Hai visite!"

Ero entrato, trovando il ragazzo semisdraiato sul suo letto, fasciato come una mummia, gli occhi rotondi che mi guardavano stupiti.

"Kabuto-san?" aveva mormorato.

Gli avevo fatto il miglior sorriso che avessi. "Buongiorno, Lee-kun!" Gli avevo mostrato il cestino. "Sono qui per ricambiare il cibo che mi hai regalato nella Foresta della Morte."

"Non... dovevi disturbarti," aveva risposto, imbarazzato. "Non mi aspettavo..."

"... di vedermi? Ma io sono un genin medico. Lavoro qui." Mi ero avvicinato al suo letto, posando il cestino sul comodino, e notando una giunchiglia in un vasetto. "Un omaggio di Tenten?"

"Sakura-san," aveva risposto lui, con tono tenero.

"Neanche lei ha passato la prova, vero?"

"Lei e Ino Yamanaka... si sono eliminate a vicenda. Ma stanno bene."

"Ne sono lieto. E tu, Lee-kun?" Avevo abbassato il tono di voce. "Anche se non sono il tuo medico, mi permetti di visitarti?"

Mi aveva guardato, quasi smarrito. "Ma certo, Kabuto-san."

Avevo tolto il lenzuolo che copriva il ragazzo, e avevo posato appena le mie dita sul suo corpo fasciato, dal basso verso l'alto.

E' anche peggio di quanto immaginassi... e nemmeno i miei poteri possono rigenerarlo.

L'avevo ricoperto, ridacchiando. "Che situazione, Lee-kun! Hai veramente un fisico eccezionale, per poter vivere e parlare con tutte le ferite interne che hai."

"Sono gravi?"

"Sono serie," avevo detto, con tono gentilmente ammonitore. "Ti prescrivo una grande pazienza. Se precipiti le cose è peggio per te. Devi riposare, seguire le terapie che ti daranno, non portare il tuo corpo oltre il limite. Ho visto chi ti ha preso in cura e sono i migliori di Konoha..."

"Migliori di te?"

"Certamente! Io non sono che l'ultimo arrivato, qui." Avevo sorriso. "Ora devi riposare. Quando ti sentirai di mangiare, assaggia quei dolci: sono molto buoni."

"Grazie, Kabuto-san." Aveva provato a sorridere, coraggiosamente. "La tua visita... è stata una gradita sorpresa per me."

"Tornerò a trovarti," avevo mentito.

Ed ero uscito dalla stanza.

 

 

 

Ero andato alla farmacia dell'ospedale. Ero di casa, lì dentro. Nessuno aveva fatto domande o si era stupito quando avevo cominciato a prelevare svariate sostanze dai loro barattoli, flaconi e fiale, e mi ero messo a pesare con attenzione le dosi. Lavoravo con rapidità e precisione, com'era mio solito, spuntando mentalmente dalla mia lista personale le sostanze che mi servivano. Facevo altrettanto con la lista di carta, prendendo nota di quanto era richiesto per il misterioso paziente dell'ultimo piano. Infine avevo posto i farmaci che avevo preparato in parte nella mia borsa alla cintura, e in parte su un vassoio apposito.

E' tempo di vedere se quel paziente è Sasuke.

C'era un gran silenzio all'ultimo piano. Mi ero diretto verso l'ala più lontana, e avevo notato degli uomini mascherati nel corridoio...

Anbu!

Il mio passo era rallentato. Una valanga di ricordi terribili si era avventata contro le porte della mia mente, come un ariete.

No. Devo continuare senza fermarmi. Con disinvoltura.

A cinque metri dalla porta due degli Anbu mi avevano sbarrato la strada, le mani già pronte sulle spade. Mi avevano detto che quella zona era sotto sorveglianza speciale per ordine diretto dell'Hokage, e nessuno poteva avvicinarsi. Avevo cominciato garbatamente a spiegarmi quando, per mia fortuna, dalla stanza era uscito il capo dei ninja medici in persona. Mi aveva identificato presso il capitano degli Anbu, e anzi si era mostrato contento di vedermi: in fin dei conti ero il figlio dell'uomo di cui aveva preso il posto, una persona di assoluta fiducia. Mi aveva lasciato il compito di somministrare i farmaci al paziente al posto suo, ordinandomi di mantenere il segreto assoluto sulla sua identità. Avevo annuito con un inchino, mentre se ne andava.

Non lo dirò a nessuno... basta che lo sappia io.

La stanza era grande, e con un solo colpo d'occhio l'avevo registrata in tutti i suoi dettagli: spazi, angoli, mobili, finestre. C'erano altri quattro uomini, all'erta. Assieme a quelli nel corridoio, erano otto. Otto Anbu per proteggere il paziente, una sorveglianza davvero speciale.

E quando avevo visto chi era, avevo dovuto reprimere un sorriso.

Sasuke Uchiha era sdraiato sull'unico letto della stanza, pallidissimo, con gli occhi chiusi, una maschera ad ossigeno sul volto e una fleboclisi nel braccio.

Così adorabilmente vulnerabile...

Mi ero avvicinato a lui, controllando il suo stato con gesti calmi e sicuri. Il ragazzo era incosciente, ipotermico, col metabolismo rallentato: la barriera magica di Kakashi stava provocando una sorta di cicatrice nel suo sistema energetico interno, e si cercava di darle il tempo di assestarsi.

Continua pure a dormire, Sasuke.

Senza dire una parola, avevo iniettato il sedativo nel tubo della fleboclisi, regolando la somministrazione. Gli Anbu non perdevano di vista ogni mio movimento, le mani pronte sulle armi.

Finito il mio compito, mi ero ritirato. Un attimo prima di richiudere la porta dietro di me, avevo captato i mormorii maliziosi di un paio di loro.

Si ricordavano di me.

Anch'io mi ricordo di voi.

E presto ne avrebbero avuto la prova.

 

 

 

Quella sera, a casa, avevo finito di prepararmi.

Poi ero andato nell'engawa. Mi ero inginocchiato sul vecchio cuscino di fronte alla mia stanza, fissando il giardino, e il cielo sopra di esso che perdeva via via i suoi colori accesi. Tutto era diventato verdazzurro, e bellissimo.

Volevo disperatamente un'esperienza di satori. Era lì, a portata di mano.

Ma il fatto di volerla me la negava. Tutto quel che provavo era una tristezza così profonda da essere oltre le lacrime, oltre il dolore. Non potevo far altro che restare immobile, mentre le tenebre lentamente scendevano sulla casa che era stata mia, e i suoni si attutivano.

Un lamento. Era mio padre. Sapevo che soffriva. Lo sapevamo tutti. Stava arrivando al punto di soffrire anche solo ad esistere.

Soffrire.

Avevo ricordato cosa avevo provato, quando mi avevano torturato...

I miei occhi si erano chiusi.

Oh, padre.

Leggendo un certo libro, avevo poi saputo che con me erano stati relativamente gentili, forse perché ero solo un ragazzo. Non mi avevano ferito, mi avevano soltanto dato del dolore. Prima quello comune: una sensazione che sorgeva, si trasformava e si attenuava secondo un'onda. Era insopportabile l'accumularsi di quelle onde, ma ognuna, presa per sé, era qualcosa a cui si poteva mentalmente resistere, e mi ero concentrato sulla singola sensazione... cominciando a illudermi che fosse tutto lì.

E a quel punto Ibiki aveva segnalato ai suoi uomini di procedere col dolore vero. Uno che non si trasformava e non si attenuava. Uno che non finiva, che restava costante e resistente ad ogni cambiamento... un dolore senza speranza. E la mia anima era andata in frantumi: avevo urlato, e urlato, fino a perdere la voce... ma non per il dolore: per il terrore che provavo. Un terrore cieco, animale, senza nome, senza fine...

Ancora un lamento, che aveva fatto vibrare i miei nervi, come per risonanza.

È questo che sta provando mio padre?

Avevo stretto i pugni, fino a sentirmi le unghie nei palmi. Dovevo decidere se lo meritava.

E la decisione era soltanto mia.

Avevo riaperto gli occhi, vedendo la luce delle stelle che cominciava ad apparire.

L'ultima occasione che ho.

 

 

 

La notte era fonda, i grilli frinivano, e il vento fischiava tra i rami degli alberi. Quei suoni passavano attraverso le pareti di carta, spezie per condire il silenzio perfetto in cui mi muovevo.

Mio padre respirava a stento, gli occhi chiusi, la faccia color della carta, gli zigomi sporgenti.

Mi ero avvicinato al suo letto, con garbo. Poi avevo controllato la sua fleboclisi, e avevo aperto la fiala che mi ero portato dietro.

"No."

Ero trasalito. La sua voce, appena percettibile nel silenzio, mi aveva sorpreso.

"Sei sveglio, padre. Come ti senti?"

"Voglio... farlo io." Gli occhi di mio padre erano pieni di lacrime. "Non voglio... darti questo peso sulla coscienza, figlio mio."

Il cuore. Mi si era contratto in un grumo duro come un sasso.

Sorridi, Kabuto. Sorridi. Sorridi. Sorridi!...

"Stai tranquillo," mormoravo. "E' solo un... analgesico."

"Non mentirmi. Sono un medico... e un ninja." La sua voce era un sussurro stranamente lucido. "Non ho paura di morire. Non so neanche... perché abbia aspettato così tanto. Dovevo farlo... finché avevo la forza di usare la kodachi, ma... volevo che tu tentassi ancora l'esame di chuunin."

"Padre..."

"Ho avuto una vita difficile. Ho sempre riso... con l'ombra nel cuore. Tu sei stato... il regalo più bello della mia esistenza, ma la colpa che mi trascino dietro ha... avvelenato la tua vita. Ora capisco che ciò che nasce nel veleno non può... che vivere con esso. La tua sfortuna..."

"Non sono sfortunato," avevo detto, con voce eterea.

Non mi sono mai sentito tale.

"È tutta colpa mia, Kabuto... io volevo per te un futuro diverso."

Capo ninja medico a Konoha, con Hinata al mio fianco, e uno stuolo di figli guaritori dagli occhi trasparenti.

"Lascia che il futuro me lo scelga io, padre." Mi ero chinato su di lui, con un sorriso triste. "L'ho già fatto... tanto tempo fa. Com'è giusto che sia."

I suoi occhi avevano tremato, come se un'improvvisa chiaroveggenza li avesse aperti.

"Sì," aveva detto con un gemito. "E' giusto così! Perché tu non sei mio... ho voluto crederlo perché sei stato un figlio perfetto, ma non sei mio!... Devo chiederti perdono, Kabuto... perché sono stato io a renderti un orfano! Ho fatto... una cosa terribile..."

"Non ha importanza," l'avevo interrotto. "Era la guerra."

Mi aveva fissato, quasi con orrore.

"Tu... lo sai?!"

Le mie labbra si erano aperte. Stavo per rispondergli...

Sì, padre, lo so. Hai mancato alla parola data ai miei genitori, li hai uccisi e mi hai portato via con te.

Ma avevo sentito gli occhi riempirsi di lacrime, nonostante tutto il mio autocontrollo.

E io... io ti ho perdonato.

"Non ha importanza," avevo ripetuto, con voce strozzata.

Silenzio.

"Orochimaru," aveva esalato mio padre, all'improvviso.

Ero trasalito a quel nome.

"Te l'ha detto lui, vero? Il Sannin. Quel... mostro!" Mi aveva afferrato per un braccio, con le sue ultime forze. "Ti ha fatto questo... ti ha raccontato di me... e sai come faceva a saperlo, eh?! Lo sai?... Era lui che comandava quell'attacco!"

Avevo sentito la mia anima svuotarsi...

Perché non mi sorprendo? Perché tutto mi sembra così... naturale?

"Kami di Konoha," singhiozzava mio padre. "Io e Orochimaru... cosa abbiamo fatto della tua vita, Kabuto? Ti ho strappato al tuo passato, nel timore di perderti... ma ora che ti perdo comunque, voglio che tu sappia la verità! Voglio che tu cerchi qualche sopravvissuto della tua gente..."

"Ormai è tardi," avevo detto, scuotendo la testa.

Sono morti tutti.

"Non è mai tardi!... È il mio ultimo dono per te, il tuo clan è..."

Gli avevo tappato la bocca con la mano.

"No," avevo mormorato.

I suoi occhi mi avevano fissato, disperati.

"Ti prego, padre, non... dirmelo." Le mie dita avevano premuto con forza. "Non voglio saperlo. Non costringermi... a farti del male per non saperlo..." Avevo tremato. "Non è così che voglio lasciarti!"

Uccidendoti come un nemico, tu che sei stato il mio mondo, l'unica isola di affetto che abbia mai conosciuto, quanto ti ho amato, quanto ti ho odiato, quanto ti devo per la mia vita nel bene e nel male...

Gli avevo tolto la mano dalla bocca, accarezzando la sua guancia sudata.

"Tuo figlio ti... chiede questo ultimo dono," l'avevo implorato, con voce rotta. "Lasciami libero, libero dal mio passato, libero dalle cose inutili della mia vita. Voglio solo quel che mi hai dato, senza rimpianti e senza ripensamenti. Sei mio padre. Ovunque andrò, qualunque sarà il mio destino... voglio portare con me il tuo nome, fino alla morte."

Anche disonorandolo. O rendendolo temuto. Ma senza mai rinnegarlo.

Mi aveva guardato, con occhi velati.

"Kabuto..."

"... Yakushi."

La tua immortalità. Che forse durerà solo fino a domani, quando sarò ucciso. Ma tu non lo saprai mai, e per te sarà per sempre.

La sua mano era andata sulla mia, fredda e debole. E ci eravamo scambiati un sorriso, per l'ultima volta.

"Sii libero, dunque," aveva mormorato.

Sì. Libero.

Il suo sguardo implorante era andato alla fiala.

"E libera anche me."

 

 

 

Il giovane Uchiha era sveglio, intorpidito. Il sedativo aveva esaurito il suo effetto, i suoi occhi neri e vellutati erano aperti a metà, la maschera ad ossigeno rivelava l'aumento della frequenza respiratoria. Ma era ancora freddo e rigido, le dita delle mani avevano sfumature violacee.

Mi ero chinato su di lui, con un sorriso amabile.

E l'anima nuda.

"Ciao, Sasuke."

Le sue sopracciglia si erano inarcate. E gli occhi si erano aperti di più, in un'espressione sorpresa.

"Vedo che mi riconosci," avevo detto, gioviale. "Come stai?"

Si era guardato intorno.

"Cerchi qualcuno?... Non preoccuparti. Siamo soli, tu ed io. Non c'è più nessuno..."

Nessuno che ti protegga.

Chiazze rosse macchiavano la mia veste bianca di medico. Avevo intriso di disinfettante un panno, e mi ero pulito con cura le mani insanguinate.

Gli occhi di Sasuke ora esprimevano sgomento, il suo respiro accelerava.

"Che c'è?" avevo chiesto, notando quello sguardo. "Hai paura?" Avevo preso una siringa, e con un dito avevo percorso le fiale sul vassoio, cercando quella giusta. "Non vedo perché. Non ti ho mai fatto del male... finora."

I muscoli delle braccia si contraevano: cercava di muoverle, di vincere la paralisi.

"Non agitarti così," gli sussurravo, suadente. "Non ti fa bene..."

Caricavo la siringa, mordendomi il labbro inferiore. Una lieve spinta allo stantuffo, un piccolo spruzzo nell'aria. Finiva sulla sua faccia.

"Oh, scusami. A volte sono così sbadato."

Sasuke era spaventato, adesso. Muoveva la testa, come per liberarsi della maschera del respiratore.

"Coraggio, Sasuke-kun. Fidati del dottore." Un passaggio di lingua sulle labbra. "Non che tu abbia molta scelta, sai? Ero in dubbio tra uno stimolante che ti facesse uscire da questo torpore... o qualcosa che al contrario ti rimettesse a dormire. Un sonno molto lungo e nero, nel quale non dovrai più preoccuparti di nulla..."

Si era irrigidito, in preda al terrore.

"Meglio il sonno, decisamente," avevo ridacchiato. "Qualcosa mi dice che non sei un tipo molto... collaborativo. Braccio destro o sinistro? Potrei metterlo nella fleboclisi, ma ci metterebbe un po' a fare effetto... e certe cose è meglio che durino il meno possibile. Non è vero?"

Avevo afferrato con forza il braccio sinistro, a livello del bicipite. I muscoli affusolati di Sasuke erano così tonici che mi bastava una piccola pressione delle dita per far inturgidire la vena giusta. Qualche secondo di attesa, e avevo avvicinato l'ago...

"Fossi in te non lo farei, Kabuto Yakushi!"

Mi ero raggelato. Quella voce, dietro di me...

Kakashi Hatake!

Il maestro di Sasuke. Giunto nel momento meno opportuno per i miei piani.

"Complimenti," avevo mormorato. "Avete schermato completamente la vostra presenza. Ancora un volta, non sono riuscito a percepirvi in tempo..."

"Sono al mondo da qualche anno in più di te, guerriero."

Il suo tono era mortale. Mi diceva che la dissimulazione era inutile.

Avevo sorriso, amaramente. Dunque alla fine era quella, la mia vera prova di esame. Scontrarmi da pari a pari con il jounin più famoso di Konoha, e sopravvivere... o morire.

I miei sensi erano esplosi verso l'esterno, in una deliziosa vampata di adrenalina che avevo trovato addirittura eccitante.

Sono pronto!

"Lascia andare quella siringa," mi aveva ordinato Kakashi, con voce perentoria.

Per tutta risposta l'avevo puntata al collo di Sasuke, a pochi centimetri dalla sua giugulare.

"E perché dovrei?" Avevo girato appena la testa, lanciandogli un'occhiata ironica. "È l'unica cosa che vi impedisce di partire all'attacco... il timore che l'affondi prima che possiate raggiungermi."

Kakashi non si era mosso, studiando la situazione. Aveva emesso un lieve sospiro, e il suo occhio scoperto aveva vagato per la stanza.

"Questo massacro... è opera tua?"

C'era una nota di incredulità nella sua voce.

"Pensavo che fosse più difficile uccidere degli Anbu." Avevo alzato una spalla. "Ma non li ho sterminati tutti. Quei due accanto alla parete sono ancora vivi."

Aveva fatto un passo verso di loro.

"Ah-ha..." l'avevo ammonito, piantando fulmineamente la siringa sulla pelle di Sasuke, senza scalfirla. "Perdonate, Kakashi-san, ma preferirei che non vi muoveste in giro."

Un'occhiata corrucciata... che era diventata scioccata quando aveva visto cosa avevo fatto a quei due uomini.

"Perché?!"

Un sorriso malizioso da parte mia.

"Ahhh... indovinate."

Non era difficile capirlo, dal tipo di ferita che avevo accuratamente suturato perché quei due non morissero subito. Non avevo lasciato loro niente, neanche i muscoli costrittori. Si sarebbero urinati addosso per il resto dei loro giorni.

Kakashi aveva distolto lo sguardo, il volto pallido. "Questa è la vendetta di un macellaio, non di un medico."

"La vendetta di un ninja, Kakashi-san."

Mi aveva fissato, torvamente.

Ma con l'occhio normale. Continua a tenere coperto il suo Sharingan! Perché non lo usa? Mi sta sottovalutando?

"Dunque... avevo ragione a sospettare di te, Kabuto Yakushi. Sei davvero un agente di Orochimaru."

"Può darsi." Con la mano libera avevo raccolto un'ampolla dal vassoio delle medicine. "E può anche darsi di no..."

"Non fare lo spiritoso con me." Tono severo. "Avrai molto da raccontare, quando ti rimetteremo sotto interrogatorio."

"Certo. Se riuscirete a prendermi."

"Non crederai di farla franca, ragazzo. Non sei così sciocco da non renderti conto della tua situazione. Ti sei rifugiato in questo stallo, è vero, ma la posizione più critica è la tua." Aveva estratto dalla manica un kunai. "Sei bravo, lo ammetto, ma non sei alla mia altezza. Uccidi Sasuke e il tuo destino è segnato. Non ucciderlo... e sarai completamente circondato da tutti gli uomini di Konoha. E allora fino a quando resisterai?"

"A meno che..."

"A meno che cosa?"

"Oh, c'è sempre un a meno che." L'avevo guardato, da sopra le lenti dei miei occhiali. "Cosa mi proponete, in cambio della vita dell'ultimo degli Uchiha?"

"La tua. Arrenditi, e io..."

"E voi cosa? Mi consegnerete a Ibiki per essere torturato di nuovo?"

"Se fai il bravo ragazzo, potresti essere trattato meglio."

"Meglio!..." Mi ero messo a ridere. "Come quando mi avete arrestato, vero?... Solo che stavolta non sono più un semplice sospettato: ho ucciso degli Anbu. Non avreste nessun motivo di usare le buone maniere con me: anzi, vorrete liberarvi di un ragazzo a cui è bastato l'addestramento di Orochimaru per battere la vostra squadra speciale!"

Avevo notato gli occhi di Sasuke spalancarsi lievemente.

"Sì, Kabuto," aveva annuito Kakashi. "Farti sparire è una cosa che conviene agli interessi di Konoha. Ma solo dopo averti fatto parlare, e ti posso assicurare che ci dirai tutto quel che sai, perché ti prenderemo... in un modo o nell'altro." Una pausa. "Io ti offro almeno una possibilità di continuare a vivere dopo di questo."

Un sorriso ironico. "Segregato per sempre in qualcuna delle vostre prigioni, vero?"

"La libertà te la sei giocata nel momento che hai deciso di seguire un traditore."

Avevo mostrato l'ampolla, col suo liquido ambrato che scintillava alla luce artificiale.

"Mi resta pur sempre una libertà, Kakashi-san. Quella di deludervi. E non lasciarvi più nulla da catturare... " Un'occhiata allusiva a Sasuke. "E nulla da salvare!"

"Che intendi fare?!" aveva esclamato lui, trasalendo.

"Dirvi addio..."

Avevo lasciato cadere l'ampolla.

Kakashi era schizzato in avanti. Come mi aspettavo.

Un calcio al carrello delle medicine, e l'avevo mandato sulla sua traiettoria. Kakashi non aveva perso un passo ma aveva dovuto saltare per schivarlo. Perdendo quel secondo prezioso che gli avrebbe permesso, forse, di raggiungere l'ampolla prima che si infrangesse al suolo.

Crash!

In quella finestra senza tempo, avevo agito.

E lo stesso aveva fatto Kakashi: con una rapidità sorprendente in un uomo così alto, aveva cambiato bersaglio ed era balzato in un perfetto attacco taijustu: un colpo secco del taglio della mano a paralizzarmi il braccio con la siringa, un calcio laterale a scagliarmi lontano da Sasuke.

Che avversario!

Dai cocci sul pavimento saliva un odore intenso e pungente, di etere e mandorle amare...

Lo stesso odore del gas al cianuro.

Kakashi l'aveva riconosciuto, e la sua reazione era stata immediata: aveva trattenuto il respiro e afferrato lo sgabello accanto a sé, scagliandolo contro la finestra. Il vetro era andato in frantumi con uno schianto, lasciando entrare un fiotto di aria fresca. Il mio corpo si era contorto nel tentativo di rizzarsi e raggiungerla, ma lui gli era saltato sopra, immobilizzandolo con un braccio dietro alla schiena e un kunai alla gola...

"Ragazzino presuntuoso!" aveva ruggito, da sotto la maschera. "Con chi credevi di avere a che fare?!"

Nella stanza era risuonata una breve, feroce risata.

"Con un ninja più presuntuoso di me!"

E mi ero strappato dal volto la maschera di un Anbu morto, dietro alla quale mi ero nascosto.

L'occhio di Kakashi mi aveva guardato, incredulo. Poi si era chinato sul corpo inerte tra le sue mani...

Era il momento di incertezza che aspettavo. Uno scatto, ed ero già alla finestra infranta. Con un balzo l'avevo scavalcata, spezzando i vetri residui e lanciandomi nel vuoto.

"No!..." aveva urlato lui, comprendendo tutto.

Con una tecnica illusoria e un kinjustu l'avevo spinto ad attaccare uno dei cadaveri degli Anbu, che avevo preparato e animato perché prendesse, per pochi secondi, il mio posto. Non aveva capito in tempo la differenza perché non aveva usato lo Sharingan, e la mia ampolla appositamente preparata aveva azzerato il suo senso dell'odorato. Il timore che avessi voluto avvelenarmi e far morire anche Sasuke l'aveva spinto ad aprirmi lui stesso una via di fuga...

E io ne avevo immediatamente approfittato, sfuggendogli da sotto il naso.

Mentre il mio corpo volava nell'aria, avevo fatto in tempo a voltare appena la testa verso quella finestra, la mia coda di capelli che frustava il vento.

Arrivederci, Kakashi.

Poi mi ero aggrappato al ramo dell'albero che avevo memorizzato il giorno prima, interrompendo la mia caduta; e da lì ero balzato acrobaticamente in avanti, nelle tenebre. Senza un'esitazione e senza sbagliare un passo. Senza una casa e senza una famiglia. Senza un passato e senza un futuro.

E senza un pensiero, se non la gioia sensuale di essere ancora vivo.

E libero!

 

 

 

 

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FINE

 

(Continua nel sequel "Kabuto Gaiden II - Shinseikatsu")

 

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