Kabuto Gaiden

 

Capitolo 5: (Netsu) (Febbre)

 

di Hana-bi

 


 

Il colmo della notte, una figura d'ombra che scostava la zanzariera intorno al mio letto.

Non un muscolo del mio corpo a tradire che me ne fossi accorto.

Abbassava la coperta del futon, e poi mi si sedeva morbidamente a cavalcioni sulle cosce.

Che sta facendo?!

Mi sfilava il kimono da notte dalle spalle, toglieva gli impacchi che mio padre aveva distribuito sulla mia schiena.

E poi... la carezza di una lingua calda, drogata sulle mie ferite, dal basso verso l'alto.

Trasalivo, il cuore che di colpo voleva esplodermi nel petto...

"Sei stato stupendo," sentivo al mio orecchio, un sussurro senza voce.

"Mi... avete tradito," ansimavo.

"Sì. E non è stato... sublime?"

Sublime!

Portavo la mano al kunai che tenevo sotto al cuscino.

"No..." Tono dolcemente ammonitore. "Non sei abbastanza forte per questo. Non ancora."

Stringevo i denti, chiedendomi se non dovessi provarci lo stesso.

Come una mantide in amore.

"Come avete... potuto farmi questo?!"

Un'altra carezza di lingua, a strapparmi un ansito eccitato.

Ahhhh...

La pelle gridava. E poi ne voleva ancora.

"Non fermarti alle apparenze delle azioni, Kabuto-kun... guarda alle conseguenze. Siamo liberi entrambi. Tu sei scagionato di tutto... innocente. Solo la vittima di una macchinazione più grande di te. Un povero ragazzo vittima di un'ingiustizia, condannato a pagare un prezzo altissimo... per un delitto da nulla come sottrarre il cuore di un morto a scopo scientifico..."

"Mi hanno torturato!"

"Sì... e te ne ricorderai per tutta la vita."  Le sue dita mi scostavano i capelli, le sue labbra erano a un soffio dal mio collo, sentivo il calore del suo respiro. "Ti ricorderai come gli Anbu hanno denudato e frugato il tuo corpo. Ti ricorderai la sedia a cui ti hanno legato, preparandoti per gli uomini di Ibiki Morino. Ti ricorderai la prigione dove ti hanno rinchiuso per settimane, come un animale, senza nemmeno una stuoia per dormire..."

Tremavo, col il respiro che mi usciva a stento.

"Ti ricorderai tutto questo, quando indosserai ancora il coprifronte con la Foglia. E... sarai felice di tradirla."

"Per voi?..."

"No. Per te, Kabuto. Solo per te."

Socchiudevo gli occhi, col cuore in tumulto. C'era qualcosa di magico nella sua voce, che vinceva la mia resistenza...

"Se solo lo vuoi... io ti dono la vendetta. Ti dono la rovina di Konoha, il paese che ti ha strappato alla tua gente e l'ha distrutta. Ti dono i tuoi e i miei nemici. Ti dono la fine dell'uomo che non ha avuto il coraggio di essere un vero Hokage, e non ti ha ucciso... né ti ha risparmiato."

Era ormai sdraiato su di me, sentivo la dolce pressione del suo bacino sui miei lombi, ed era spaventosamente erotica.

"Oh, signore, andate via... perché siete tornato?"

"Non è ovvio? Sono tornato per te. Sto rischiando la vita per te. Accetta il mio dono, Kabuto-kun..."

"No." L'amarezza in me. "Non sono nulla per voi. Mi avete gettato via!"

"Ti ho solo lasciato in custodia al futuro. Sapevo che ti saresti salvato. Ho previsto... tutto."

"Anche... che vi avrei odiato?"

"E' soltanto una passione. Come il desiderio. Non bisogna temerlo... io non ho mai paura di ciò che voglio. E tu, Kabuto?..." I suoi capelli mi piovevano sulla spalla, come una cascata setosa. "Tu... hai paura di quel che vuoi?..."

Quella domanda mi crocefiggeva...

Ho paura di quel che voglio?

Mi arrendevo, finalmente, con un gemito di passione.

Oh, Orochimaru-sama!...

Mi ero risvegliato di colpo, con la luce bianca che filtrava tra i pannelli shouji.

Ci avevo messo un po' per rendermi conto che era quella la realtà, e non era uno dei miei sogni in prigione. Era giorno pieno ormai, ed ero a casa mia, nella mia stanza, il sobrio incastro di tatami sul quale avevo vissuto per anni.

Una brezza sottile riusciva a passare attraverso i pannelli, facendo danzare mollemente il telo della zanzariera, e l'aria aveva un odore familiare, di sapone ed essenze medicinali. Un gran silenzio mi circondava, evidentemente tutti erano al lavoro. Chissà che ora era.

Ero rimasto con la guancia contro la morbidezza del futon, a riprendere contatto con la realtà.

Che sogno strano.

Non sentivo più dolore alla schiena, e c'era qualcosa di frizzante in me: ero felice. Così felice che esitavo ad abbandonarmi di nuovo al sonno, per non perdere quella preziosa sensazione. La mia mano accarezzava le lenzuola...

Tutto il mio corpo accarezzava le lenzuola.

I miei occhi si erano spalancati.

Che fine hanno fatto i miei vestiti?!

Mi ero alzato in ginocchio, e avevo visto lo stato in cui ero. Assolutamente bisognoso di un bagno.

Ma allora... non è stato un sogno?

Qualcosa mi aveva afferrato il respiro, all'idea che quel che avevo creduto di sognare fosse successo veramente...

Avevo cercato affannosamente i miei occhiali, inforcandoli. E avevo frugato tra le pieghe del futon, alla ricerca di una prova qualsiasi, anche solo un capello nero mi sarebbe bastato!

Ma non avevo trovato assolutamente nulla.

Solo il mio kunai, pulito e lucente, ancora nascosto sotto al cuscino.

 

 

 

 

"Orochimaru!" esclamava mio padre. "Non voglio più sentire quel nome in questa casa. Mai più. Ci eravamo fidati di lui, lo consideravamo con venerazione, e cosa ne abbiamo tratto in cambio? Ci ha fatto pagare caro l'aver destato Kabuto dal suo coma. L'ha attirato in una trappola! Ora basta, per me ha finito di esistere. Mio figlio è rimasto così scioccato da tutto quel che gli ha fatto passare... gli darò un sedativo stanotte, non sopporto di sentirlo gridare il suo nome persino nel sonno!"

Mi sentivo arrossire, dall'altra parte del pannello dietro al quale mi ero nascosto per origliare.

Mio padre era agitato davanti ai suoi familiari, pieno di voglia di dimenticare il suo lato della brutta avventura.

"Voi non avete idea di cosa mi è toccato vedere, quando sono stato mandato assieme alle squadre speciali per far pulizia nei suoi... laboratori segreti. Dire che è stata un'esperienza orrenda è dire poco, e sì che ne ho viste, di cose spaventose nella mia carriera... "

Come un campo di battaglia pieno di morti, e una famiglia immersa nel sangue, e un bambino con la testa spaccata?

"Ma non parliamo più di queste cose. Kabuto vorrà dimenticare... ha una vita davanti per farlo. Lasciamo che sia io a ricordare l'insulto che ci hanno fatto." Il suono di una lama sguainata, era la kodachi che mio padre teneva sempre nascosta nella fusciacca. "Giuro vendetta su Orochimaru: se lo rivedrò, lo ucciderò per quel che ha fatto a mio figlio. In quanto al Terzo... avrà modo di vergognarsi di come si è sfogato su un ragazzo inoffensivo, invece di punire un grand'uomo che è stato suo allievo."

E per molti giorni, mio padre aveva mostrato quasi un'euforia insultante. Camminava per le strade di Konoha a testa alta, con orgoglio.

E la gente gli si inchinava, mentre quando incontrava me mi guardava con pena.

Povero ragazzo, sentivo che mormoravano.

La mia storia aveva infatti già fatto il giro del villaggio; e una dozzina di colpi di shinai erano diventati, tra un sussurro e l'altro, una fustigazione quasi a morte e per di più vergognosamente pubblica. Il fatto che camminassi dopo così poco tempo era spiegato con le arti mediche della mia famiglia, ma si mormorava che mio padre fosse stato eccessivamente crudele con un ragazzo che dopotutto fino a quel momento non aveva mai fatto niente di male.

E si era risaputo anche che il Consiglio aveva deciso di respingermi all'esame di medicina. La mia assenza dalle lezioni e soprattutto il perché erano le ragioni ufficiali, ma c'era anche una sorta di rimprovero per la mia famiglia, immischiata in uno scandalo. Era una decisione assurda, dato che ero già in grado di eguagliare tutti i ninja medici già graduati; ma sapevo che proprio per il fatto di essere uno Yakushi, non avrei potuto protestare per quell'ingiustizia, e nemmeno l'avrebbe fatto mio padre che del Consiglio stesso faceva parte, e che ci teneva alla propria fama di persona integerrima. 

Mi toccava restare allievo medico ancora per un anno. E tutti si dispiacevano per me, mentre io fingevo un'eroica rassegnazione.

Però non è giusto, povero Kabuto. Con tutto quel che studia.

Ostinatamente, mio padre mi aveva riproposto alla successiva sessione dell'esame di chuunin, in compagnia di due cugini assai poco motivati. E io avevo cercato il sistema per fallire anche stavolta, sapendo che mi sarebbe stato più facile vista la serie di disgrazie da cui arrivavo. Non mi era stato difficile: nel momento di presentare la prima prova, mi ero trovato di fronte proprio Ibiki Morino, a cui non era parso vero di rivedermi faccia a faccia per rovesciarmi addosso tutta la pressione psicologica di cui era capace. Era fin troppo fresco in entrambi il ricordo del mio interrogatorio, e Ibiki si aspettava che davanti a lui mi sarei risentito nudo e legato a una sedia, anziché vestito decorosamente e in piedi davanti alla sua scrivania. Avevo deciso di non deluderlo, balbettando miserevolmente alla sue domande su balistica e tattiche d'assalto, e finendo con lo scusarmi e lasciare l'aula, tra le occhiate impietosite dei miei stessi compagni che in quel modo squalificavo assieme a me. Nessuno naturalmente aveva avuto il coraggio di rimproverarmi, e avevo badato di farmi ritrovare in qualche angolo a piangere di frustrazione, mormorando all'affettuoso amico di turno che non ce l'avevo fatta, che non c'era descrizione adeguata per quel che avevo vissuto in prigione (e notavo da dietro le lenti dei miei occhiali il desiderio sadico di sentirmelo raccontare; ma non lo accontentavo, sapendo che ognuno si sarebbe risposto a modo suo).

Alla fine gli amici si erano consultati su di me, credendo di poterlo fare senza che me ne accorgessi.

Ora basta, quel ragazzo ne ha passate troppe, finirà in depressione. Facciamo qualcosa, visto che la sua famiglia non fa nulla per lui e anzi non fa che caricarlo di pesi e responsabilità...

Mi avevano costretto a uscire con loro, per trascinarmi di nascosto in una bettola dove si erano dati da fare per ubriacarmi, pensando di consolarmi a quel modo, e in realtà consolando se stessi per tutte le fortune che ritenevano di avere più di me. Essendomi premunito di farmaci adatti, non mi era stato difficile invertire i ruoi, rimanendo sobrio mentre loro invece si lasciavano andare. E ascoltando i loro discorsi futili e sventati, in cui raccontavano anche cose che avrebbero fatto meglio a tenere per sé, comprendevo che tra i miei coetanei di Konoha sarei sempre stato un diverso, e non solo per il colore dei miei capelli. Ero diverso per le esperienze, per la capacità, per la malizia, per le aspettative... eravamo tutti genin, ma forse l'unico vero ninja ero io.

Mi ero comunque rasserenato tra di loro, e ridacchiando e barcollando mi ero lasciato trasportare in una casa dove una yuujo passabile era stata pagata per distrarmi. Era la mia prima esperienza col sesso mercenario e non era stata particolarmente esaltante, ma non mi ero rifiutato di farla. Avevo voglia di spegnere un poco quel fuoco sensuale che, nella realtà o nei miei sogni, Orochinaru aveva acceso in me.

Ah, la gioia senza pensiero di due corpi che si attorcigliano e si uniscono...

Ma sapevo benissimo che non era amore.

Come non era amore quello che la ragazza dei fiori mi dava, quasi sbadigliando di fronte allo studentello che doveva stupire e ammaliare. Ero stato con lei goffo e sbrigativo, come ci si aspettava da me. E poi ero finito a casa, con la faccia sporca di rossetto, e mio padre aveva appreso in quel modo che non ero più vergine, ignorando che non lo ero comunque da un pezzo.

Da quel momento aveva cominciato a parlare di matrimonio. Credevo che scherzasse: ero soltanto un ragazzo, e per di più in disgrazia con tutti. Ma lui al contrario sembrava molto serio, dicendomi che tra i ninja i matrimoni in età molto verde erano abbastanza consueti, data la mortalità insita nel mestiere. E mi raccontava di un nonno che si era sposato a quattordici anni, con una ragazza di tredici, ed era diventato padre a sedici...

Al mio educato rifiuto di pensare a una moglie alla mia età, si era oscurato in faccia e mi aveva ruggito che il mio dovere era obbedire e basta.

Non erano più tanto rari quegli scoppi di malumore. E preoccupavano tutti, in un uomo che da sempre era stato considerato come uno tra i più gentili del villaggio. Anche in ospedale, gli capitava di maltrattare i pazienti e i collaboratori. C'era qualcosa di febbrile in lui che non era consueto, un'agitazione che non era da lui. E a volte fissava il vuoto con espressione assorta, vacua, le rughe più profonde che mai.

Appassiva giorno per giorno, e si sussurrava che fosse stato lo shock del mio arresto a provocare quel declino. Invano avevo provato a fare una diagnosi: la sua reazione al mio tentativo di visitarlo era stata una scenata terribile, che aveva costernato tutti i presenti. Aveva urlato che non avevo imparato niente, che non ero niente, e che la prossima volta che avessi osato credermi un medico mi avrebbe cacciato da casa, rimandandomi a calci in quel nulla dove mi aveva trovato.

A udire quelle parole, avevo sentito qualcosa di acido e terribile in me...  ma mi ero doverosamente inchinato, e me n'ero andato da quel bravo figlio che ero, a svolgere il compito degradante che mi aveva dato: lavare a mano le scale dell'ospedale, per imparare a stare al mio posto.

Poi, più tardi, era venuto a cercarmi, mentre in ginocchio e con le maniche rimboccate strofinavo con uno straccio i vecchi gradini di pietra. Tutti quelli che avevano salito e sceso quelle scale avevano guardato con stupore un allievo medico ridotto al rango di inserviente. E qualcuno aveva anche riso.

"Kabuto... ora basta."

Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, perché non vedesse l'assassino che riemergeva in me. Avevo continuato a strofinare, senza dir nulla.

"Ti chiedo scusa. Ti ho detto una cosa terribile."

Avevo lasciato cadere lo straccio, decidendo che era ora di arrabbiarmi anch'io.

"Hai detto la verità, padre. Che mi hai trovato nel nulla. Io non sono tuo figlio. Non avresti picchiato tuo figlio in quel modo davanti a tutti, per l'onore del tuo clan. Non l'avresti lasciato bocciare quando sai che ha studiato ed è migliore di quelli che sono stati promossi. Non l' avresti minacciato di cacciarlo di casa, solo perché si era preoccupato per te. Non avresti fatto di tutto per umiliarlo... come stai facendo con me da quando sono uscito di prigione!"

"Kabuto," aveva mormorato mio padre, colpito.

"Comanda, padre. Agli ordini!... Ho sempre obbedito, no? Cosa vuoi che faccia adesso?"

"Che mi visiti." Una mano sulla mia spalla, che mi costringeva a rialzare la testa. Per vedere i suoi occhi disperati. "Aiutami a capire cosa mi sta succedendo, figlio mio. Ti prego."

Nel suo studio, in silenzio, i nostri ruoli si erano invertiti. Mio padre si era disteso, svestito, sul lettino e io ero diventato il suo medico. Avevo cercato di guardarlo in maniera impersonale, senza emozioni: un uomo anziano ma ancora ben muscoloso e attivo. L'avevo interrogato, tastato, sondato con la mia energia.

Trovando una situazione preoccupante in lui, un calo verticale del secondo strato di chakra, quello difensivo, con sbilanciamento di tutto il circuito. Il suo sistema immnutario era in frenetica attività ma senza ordine, come se stesse reagendo a un agente esterno sconosciuto. L'avevo cercato nelle varie secrezioni, ma mi aveva eluso; e avevo trovato tracce di degenerazione delle cellule nervose, scoprendo che morivano a grappoli in un cervello infiammato.

Era escluso che potessi curare quelle cellule col mio chakra, avrei causato più danni cerebrali della malattia stessa. Potevo prescrivergli dei farmaci per attenuare gli effetti neurologici, ed usare l'agopuntura per cercare di riequilibrare il sistema energetico (shen era comunque ancora molto forte) ma non sapevo che morbo fosse, e l'avevo ammesso onestamente a mio padre.

"Forse non è un morbo, forse è un avvelenamento," aveva detto lui, rivestendosi.

Veleno?

E avevo pensato immediatamente a Orochimaru... era venuto da me quella notte?

E se l'ha fatto... è passato prima da mio padre?!

"Può essere stato accidentale?" avevo chiesto, sinceramente angosciato.

"Un medico è circondato da sostanze tossiche." Mi aveva guardato. "Mi hai avvelenato tu?"

"Padre!..."

Mi aveva sorriso, tristemente. "Perché se l'avessi fatto, Kabuto... ti capirei."

E mi aveva lasciato, senza aggiungere altro.

 

 

 

 

La malattia di mio padre aveva il lato positivo di distogliere quasi completamente l'attenzione da me: ero diventato un po' troppo famoso per poter continuare a fare il mio mestiere di spia, ma ora che altri soggetti di pettegolezzo andavano per la maggiore, potevo riprendere la mia attività segreta.

Lasciavo dunque il palcoscenico alle sventure del clan Yakushi e agli amori clandestini di questo o quel jounin, limitandomi a fare lo studente tranquillo e remissivo: specie sotto gli occhi di Kakashi, che mi capitava di incontrare per la strada mentre andavo all'ospedale, apparentemente assorto nella lettura di qualcosa, in realtà con il suo hara puntato contro di me. Lo percepivo benissimo, ma fingevo di accorgermi di lui solo per caso e, con educata timidezza, mi fermavo per un rapido inchino di saluto prima di proseguire.

Quanto mi piacerebbe ucciderlo.

Sapevo però di non esserne ancora in grado. Sotto quel coprifronte inclinato si celava l'impianto di un occhio Uchiha e nessuno aveva ben presente di che poteri avesse dotato Kakashi. Era noto però  che fosse in grado di copiare ogni tecnica vista con quell'occhio, e fosse quindi completo in tutta la triade dei justu: tai, gen e nin.

Io da parte mia continuavo pazientemente a esercitarmi sulla quarta categoria, quella kin: le tecniche proibite insegnatemi al tempo da Orochimaru. Ma mi mancava il mio maestro, che era di nuovo scomparso chissà dove; e non osavo più avvicinarmi all'obitorio per far muovere di nascosto qualche cadavere...

Pazienza, Kabuto.

Intanto tra i ninja medici si cominciava a discutere sull'opportunità di sostituire mio padre. Le cure che gli avevo proposto e quelle a cui si era sottoposto per conto proprio non avevano fatto altro che rallentare il declino, ma ora gli era veramente difficile nascondere la propria situazione, come si era ostinato a fare fino a quel momento per mantenere la sua posizione. Urtava contro gli spigoli e inciampava goffamente, lui che per quanto anziano era comunque un ninja, addestrato al controllo del corpo. Si mormorava che avesse cominciato a bere, ma non era vero: non toccava una goccia di sakè. E nonostante questo, a volte le mani cominciavano a tremargli.

Tra i suoi appunti e i suoi diari, che spiavo d'abitudine per trovare informazioni utili, trovavo a volte riferimenti a me.

Un certo Gai Maito è venuto a ringraziarmi: sembra che Kabuto abbia soccorso il suo discepolo, e che l'abbia guarito da una distorsione alla caviglia con una sola applicazione di chakra. Ho voluto esaminare il ragazzino e l'ho fatto venire con una scusa, e ho scoperto una rima di frattura nel metatarso, perfettamente saldata. Com'è possibile?

Mio figlio mi sorprende. Due giorni dopo il suo ritorno l'ho visto nel bagno, e la sua schiena era pressoché guarita.

Mi sono fatto visitare da lui. Ho studiato il modo in cui ha fatto circolare il suo chakra nel mio corpo. Non è normale quel controllo, io ci ho messo trent'anni a ottenerlo.

Ora capisco tutto.

Orochimaru.

Quel riferimento mi aveva fatto impallidire. Mio padre aveva forse scoperto la mia vera relazione con lui?

Se era così, avrei dovuto ucciderlo al più presto...

Avevo proseguito la lettura, col cuore in gola.

Nel laboratorio di quel criminale c'erano i documenti con tutte le genalogie dei clan in possesso di capacità particolari. Aburame, Akimichi, Hyuuga, Uchiha... c'erano tutte le famiglie notevoli del villaggio, e anche di altri paesi. Orochimaru era interessato a queste linee genetiche. Per questo ha messo gli occhi addosso a Kabuto? Anche mio figlio possiede un'abilità innata? Ormai ne sono convinto. Come sono convinto che Orochimaru sappia benissimo chi erano i suoi genitori naturali.

Siamo dunque stati tutti manovrati?

Non sapevo se inorridire al sospetto che si intravedeva tra le parole di mio padre... o amare ancora di più la grandezza del mio maestro, capace di muovere il mondo pur di avermi con sé.

A qualsiasi prezzo.

Devo parlare col Terzo Hokage. Voglio che Kabuto si sposi al più presto e metta al mondo dei figli, per fissare il suo talento nella discendenza Yakushi. Un perfetto incrocio sarebbe quello con la famiglia Hyuuga, in possesso del Byakugan, il miglior strumento diagnostico immaginabile. Hiashi ha solo figlie femmine ed è risaputo che non è soddisfatto della primogenita come erede del clan, e che le preferirebbe la sorella Hanabi, o addirittura il nipote Neji nonostante il sigillo di servitù che porta. Se Hinata sposasse Kabuto sarebbe una combinazione fenomenale. Ma senza l'appoggio di Sarutobi-sama gli Hyuuga, che sono grandi guerrieri, non prenderanno mai in considerazione la mia proposta...

Questi ridicoli progetti matrimoniali mi facevano sorridere, io ero un ragazzo e Hinata una bambina ancora in accademia. Ma mio padre rivelava tutte le sue ambizioni, pateticamente esposte: il prestigio del clan, il buon nome degli Yakushi... non era poi molto diverso da Orochimaru, nella spregiudicatezza di mettere a frutto i talenti degli altri.

Per tutti io non sono che uno strumento...

Lo ero sempre stato, dopotutto.

Potevo solo scegliere da chi farmi manovrare. E non era una libertà da poco.

Riponevo i documenti con cura, e poi nel segreto della mia stanza compilavo i miei rapporti invisibili, incidendoli nelle mie carte da gioco.

Lo facevo con trepidazione, aspettando il momento che il mio maestro avrebbe avuto bisogno del mio lavoro. Pregustavo il giorno che l'avrei rivisto, sotto l'aspetto che avesse voluto (sapevo che poteva cambiare la sua età apparente, come se già fosse fuori dal tempo: l'avevo visto preparare il té col volto scavato del saggio, e andare a caccia di uomini col viso di uno snello giovane dalla bellezza demoniaca): l'avrei riconosciuto comunque e ovunque, e avrei posato il ginocchio a terra davanti a lui, aspettando i suoi ordini.

Voglio stare con te, maestro...

Inutile negarlo: dentro di me accarezzavo sogni ingenui. Ma poi io stesso mi rimproveravo, dicendomi che un uomo veramente grande non si ferma ad avere una stupida storia d'amore con un giovanissimo medico miope. Dietro la seduzione - vera o indotta da un'illusione - di Orochimaru c'erano le sue parole, che si erano bene impresse nella mia mente: ed erano state nette e crudeli, degne di un uomo che non si era mai nascosto dietro le pietose bugie.

Mi aveva abbandonato qui perché qui gli servivo. Mi aveva lasciato torturare perché odiassi Konoha, e la odiavo. Mi aveva incontrato quella notte per farsi amare da me, e io lo amavo.

E questo era tutto.

 

 

--------