Kabuto Gaiden
Capitolo 4: 偬 (Sou) (Dolore)
di Hana-bi
"È svenuto?" "No, signore. Credo che sia solo esausto." "Non ha fatto che piangere, nelle ultime ore." "È solo un ragazzo, dopotutto... lasciatelo dormire, finché può." Non stavo dormendo. Ascoltavo tutto. Quello strano silenzio intorno a me, i suoni ovattati, le conversazioni a bassa voce... ma tenevo gli occhi chiusi mentre giacevo sul pavimento della cella, tremando dal freddo e dallo stress. Ogni tanto mi sfuggiva un singhiozzo involontario, come quello di un bambino appena picchiato, ma per il resto ero completamente inerte. "Ha confessato." "Naturalmente." Un grumo di pena nel cuore. Naturalmente. Come avrebbe potuto resistere un Kabuto Yakushi qualsiasi? No, non il ninja: quello era già fuggito via. Nell'unico modo possibile per qualcuno catturato da una spietata squadra speciale di altri ninja. Nel più profondo di me. E aveva lasciato nelle mani degli Anbu solo un adolescente terrorizzato, da trattare come un criminale pericoloso. Mi avevano legato, bendato e trascinato nel loro quartier generale, dove non mi avevano risparmiato nulla: l'umiliante perquisizione a fondo, la gelida brutalità, l'interrogatorio martellante, l'angoscia, il dolore... "È questa la confessione?" Il rumore di un foglio di carta aperto. "Parola per parola." Un lungo silenzio, e poi un sospiro. "Ce n'è abbastanza per metterlo a morte." Era la mia sentenza, dunque. Addio, giovane ninja dai capelli d'argento, pronto a balzare nella notte con un kunai nella mano, per seguire il suo maestro e signore in capo al mondo... Era stato un bel sogno. Per cui era valsa la pena di vivere. Una lacrima mi era scivolata giù, ma trovavo pace nel dolore definitivo del mio cuore. Orochimaru-sama... "È proprio la gravità di quanto ha confessato a non convincerci, signore. Come è possibile che uno si dichiari traditore, spia e assassino, e lo faccia crollando in preda al panico come... un normalissimo ragazzo qualunque?" "È vero, signore. Non ha retto nemmeno alla prima fase dell'interrogatorio. Sono bastati gli aghi nei punti sensibili perché perdesse del tutto il controllo. Pur di farci smettere potrebbe aver detto tutto quel che pensava che volessimo sentire da lui... potrebbe essersi inventato tutto, un classico delirio autodistruttivo." "Però non è la sua colpevolezza o meno che ci interessa. Ve ne siete dimenticati?" "Mi spiace, signore..." "Non abbiamo una sola delle informazioni di cui abbiamo bisogno. È Orochimaru che vogliamo!" Un lungo silenzio. "Quindi... dobbiamo insistere con il ragazzo?" Una lama gelida nel petto aveva trasformato il mio respiro in un singulto, rivelando che ero sveglio. Avevo sentito il fruscio di una veste di seta che mi si avvicinava. "Allora, Kabuto?" La voce di Sarutobi, seria e triste su di me. "Dobbiamo insistere?" Brividi. Il terrore che ricominciava. "Dov'è Orochimaru?" "Non... lo so..." "Non sei suo complice? E allora dov'è andato? Quali sono i suoi piani? Chi sono i suoi alleati?!" "Non lo so..." Scuotevo la testa, debolmente. "Hokage-sama, vi giuro... non lo so, non lo so!..." Sarutobi si chinava su di me, la sua voce si abbassava in un tono primo di emozione. "Sai perché in accademia è stato insegnato a voi genin di uccidervi, piuttosto che farvi catturare vivi da dei ninja?" Le mie viscere si erano contorte dentro di me. "Forse vuoi scoprirlo di persona." "No, signore..." piagnucolavo, rannicchiandomi come un verme calpestato. "No, vi prego..." La tortura ancora, no... "Potremmo tenerti in vita indefinitamente, lo sai? Non una ferita seria sul tuo corpo. Tutto per via nervosa, pulitamente, con efficacia. Nessuno scampo, nemmeno con il suicidio, non te lo permetteremmo. Ogni giorno così, poche ore di riposo, di nutrimento forzato, e si ricomincia... è questo che vuoi?" Singhiozzavo disperato, sentendomi impazzire all'idea... "È quello che vuole Orochimaru, però." I miei singulti si erano fermati. Quello... che vuole Orochimaru?! Avevo alzato gli occhi a Sarutobi, guardandolo tra un fiume di lacrime. E avevo visto una ruga di compassione tra le sue sopracciglia. "Si è servito di te, povero ragazzo. Con la sua caratteristica mancanza di scrupoli." L'Anbu dietro di lui aveva fatto un passo in avanti. "Signore! Volete dire che..." "... probabilmente è inutile andare avanti. Stiamo perdendo tempo dietro all'unica traccia che quel pazzo ci ha lasciato, ma era fin troppo ovvia... uno studentello in medicina come complice per i suoi delitti? Questo sarebbe troppo anche per lui." La sua mano si era posata sulla mia spalla, quasi paterna. "Kabuto... hai mentito, vero?" Non potevo neanche parlare, troppo attonito, troppo sconvolto. "Non sei una spia né un assassino. La tua prima versione dei fatti era quella autentica." È una trappola?! "Ti senti inadeguato all'affetto di tuo padre adottivo. Così volevi dimostrargli di essere un valido aiuto. Volevi identificare il veleno che ha ucciso l'uomo trovato morto nella foresta, e del quale hai assistito all'autopsia. Hai chiesto segretamente aiuto a Orochimaru, grande esperto di veleni, col quale avevi un rapporto di stima... o almeno così credevi; e quel serpente ti ha chiesto il cuore del morto. Tu gliel'hai ingenuamente portato, facendo così da esca per deviare la nostra attenzione, intanto che lui fuggiva con comodo..." È questo che ha fatto? Mi ha usato... e poi mi ha abbandonato? "Signore, se questa è la versione giusta, allora Orochimaru sapeva che avremmo catturato il ragazzo." "Già. E che l'avremmo interrogato. Pensate che ci avrebbe lasciato tra le mani un complice vero, e soprattutto... vivo e in grado di parlare?" Un lungo silenzio, più eloquente di una risposta. "Ci ha letteralmente costretto a considerare il giovane Yakushi come suo complice. Ce l'ha lasciato al posto suo, perché lo uccidessimo lentamente tra le torture, alla ricerca di informazioni che non poteva darci... perché non le ha." Sarutobi aveva fatto un sorriso amaro. "Un piano perfettamente nello stile di pensiero di Orochimaru. Dev'essersi divertito, all'idea di farmi sporcare le mani in un'azione così crudele e inutile..." Un sospiro, e si era allontanato da me. "Quali sono i vostri ordini, Hokage-sama?" "Rinchiudete il ragazzo in una cella di sicurezza finché la situazione non si chiarisce. Un po' di carcere se l'è comunque meritato, per aver mutilato un cadavere senza permesso."
Un ninja è per definizione il peggior prigioniero possibile, capace di utilizzare qualsiasi cosa come arma, e fuggire in ogni situazione. Quindi non c'è peggior carceriere di un ninja. Mi avevano chiuso in una spoglia cella sotterranea, completamente nudo, perché non avessi nemmeno la possibilità di suicidarmi con un pezzo di stoffa; senza la luce del sole e senza un suono al di là del rimbombo delle porte e il rumore dei passi delle guardie; con l'unica concessione di non essere più legato e di mangiare un po' meglio. Una volta al giorno mi portavano a lavarmi, ed era tutto il movimento che potessi fare. I primi giorni erano stati i più duri, li avevo passati rannicchiato in un angolo a fissare il vuoto, con gli occhi gonfi di lacrime. Ripensavo a quel che era successo e cercavo disperatamente di ritrovare un equilibrio interiore. Rimpiangevo di non aver saputo uccidermi quando potevo farlo, maledivo Sarutobi per avermi lasciato in vita. Provavo vergogna e non sapevo neanche per cosa la provassi di più. Mi ero smarrito tra il ragazzo che recitavo e quello che ero veramente, non mi sentivo né l'uno né l'altro... E non sapevo quale sarebbe stato il mio destino. Mi avrebbero tenuto rinchiuso per sempre? Mi avrebbero bandito da Konoha? O alla fine mi avrebbero messo comunque a morte, considerandomi contaminato da Orochimaru? Dormivo poco e male, e i miei sonni erano incubi. Mi rivedevo bambino, tra due figure senza volto che erano i miei genitori, travolti da un uno tsunami di sangue. Una mano mi toglieva da quel vortice vischioso, ed era quella di mio padre. Mi voltavo verso di lui, e lo vedevo trasformarsi un una figura avvolta di seta bianca, i lunghi capelli neri agitati dal vento... Ricorda, Kabuto, che la perfetta disciplina è la via per la perfetta libertà. Tendevo le braccia verso di lui, urlando d'odio, gemendo d'amore tradito, affogavo tra le mie lacrime... i miei sentimenti erano una tempesta, ma quella figura sovrumana non ne era nemmeno sfiorata, era un punto fermo nel mio universo, e alla fine la mia anima strisciava lo stesso accanto ad essa per trovare pace. Orochimaru-sama... Era come se fosse rimasto dentro di me, anche fuggendo chissà dove. Era come se quel giorno che avevo succhiato il suo sangue, avessi assorbito anche un frammento della sua essenza. Nelle ore della mia solitudine, rivedevo tutti i momenti che avevo passato con lui e riascoltavo i suoi discorsi che sembravano sospesi nel tempo, in quelle finestre di kensho che era capace di ritagliare dalla vita quotidiana, anche da una banale passeggiata nel giardino dell'ospedale... Ogni giorno, ogni momento ci vede davanti a una scelta, Kabuto. Essere forti o essere deboli? Essere saggi o essere pazzi? Essere noi stessi o essere gli altri? Io ho scelto, io scelgo, io sono vivo per questo. Io scelgo di essere libero. E mi cerco la libertà ovunque, sempre, in ogni cosa, in ogni gesto, in ogni respiro. Libertà... quella che mi mancava. Ma forse solo in apparenza. Perché ero ancora vivo, e potevo sperare. Dovevo sperare. Un giorno ti rivedrò, maestro. Forse sarà l'ultimo della mia o della tua vita, ma ti rivedrò. Il tempo passava, senza che potessi contarlo. E poi, un giorno, invece di sbattere mentalmente contro le sbarre che rinchiudevano il mio corpo, avevo accettato la mia reclusione. Mi dicevo che quella cella altro non era che una stanza d'ospedale concessami per guarire dalle mie ferite interiori. Il silenzio e la poca luce erano farmaci che mi invogliavano a introvertire la mia energia. Dormivo di più, forse per la gran parte delle giornate, e i sogni ora non erano così opprimenti. Rivedevo me stesso, vestito con la tunica da medico e la fusciacca degli Yakushi, il mantello col cappuccio allacciato al collo. Pronto per il massimo delle mie avventure di genin, una camminata nella foresta alla ricerca di erbe medicinali: non ero infatti ancora qualificato per far parte di una squadra di ninja combattenti, come proponeva la Sannin Tsunade. Inalavo l'aria pura del mattino, risentivo la rugiada che mi bagnava le dita dei piedi, il profumo delle felci che calpestavo, rivedevo la danza dei kimono di cotone delle ragazze che andavano al fiume, il cielo così azzurro da ferirmi gli occhi. Libertà... Mi risvegliavo sapendo il prezzo. Disciplina. Allora meditavo. In silenzio, seduto sul nudo pavimento della cella, le gambe incrociate, le mani sulle ginocchia. Mi ordinavo di essere il prigioniero più mansueto, tranquillo, paziente, umile e rispettoso. Al di là della grata, maschere impassibili mi osservavano, e lo sapevo. Mi dicevo che un giorno sarebbero state le mie prede. Un giorno avrei ucciso degli Anbu, ricordando cosa mi avevano fatto. E avrei gioito nell'atto. Dissimula. Sorridevo lievemente, a quella visione del mio maestro dentro di me. Sì, Orochimaru-sama. Dissimulerò.
Un giorno senza nome, mentre ero sotto la doccia, mi ero accorto che al posto dei miei onnipresenti guardiani c'era un uomo solo. Non potevo vederlo chiaramente in faccia, non avendo gli occhiali. Ma i capelli più bianchi dei miei e il volto oscurato da una maschera nera me lo facevano riconoscere, assieme alla figura alta e agile. Kakashi? Avevo chiuso la doccia, restando a guardarlo mentre l'acqua mi grondava addosso. Che ci fa qui? Il mio catturatore mi stava studiando, con le braccia incrociate sul petto. "Il Terzo Hokage ha deciso di scagionarti completamente dal sospetto di complicità con Orochimaru," aveva detto. Che cosa?! "Signore!" avevo esclamato, ad occhi spalancati. "È vero?... È successo qualcosa, l'avete catturato?" "No. Non c'è persona più elusiva di lui. Semplicemente l'Hokage ha concluso le sue indagini su di te, e su quanto è accaduto la notte in cui Orochimaru è fuggito. Ed è giunto alla conclusione che tu sei solo un'altra delle sue vittime, non il complice. Tutto quel che hai dichiarato è stato considerato estorto con la tortura e senza fondamento. Non è stata trovata nemmeno una prova della tua colpevolezza, anzi sembra che tu abbia una solida fama di bravo ragazzo tra gli abitanti del villaggio. E il fatto che tu ogni tanto ti accompagnassi a Orochimaru era logico, visto che la tua famiglia l'ha considerato per anni una sorta di nume tutelare. Non ti si può condannare sulla base del fatto che l'ammirassi..." Il cuore mi batteva a grandi colpi nel petto. "Vuol dire che... sarò liberato?" Kakashi aveva annuito. Mi ero lasciato andare ad un sorriso timido e carico di sollievo. "Oh... grazie della bella notizia, signore!" Avevo allungato una mano per prendere l'asciugamano, ma lui aveva afferrato di scatto il mio polso, tirandomi poi verso di sè. L'avevo guardato sconcertato, quell'occhio scoperto e vicinissimo che mi guardava sornione. "Però devo farti i complimenti, ragazzo. Ti tieni in forma..." Mi ero sentito arrossire, chiedendomi se per caso il grande Kakashi non avesse un gusto segreto per le persone del suo stesso sesso. "Signore!" avevo mormorato, imbarazzato. "Che cosa..." "Oh, non è quel che credi tu," mi aveva interrotto, con voce allegra. "Solo che quando si è nudi è difficile nascondere certe cose... come per esempio una muscolatura come la tua." Uno sguardo dall'alto al basso. "Niente male... per un allievo medico." Mi ero sentito sprofondare, alla malizia della sua voce. "Sono... pur sempre un genin, signore!" "Già... bocciato all'esame di chuunin e proprio nella prova di taijutsu." Un sorriso sotto la maschera. "Che peccato, con questo fisico da giovane... guerriero." Quella parola era rimasta sospesa tra noi. E poi lui mi aveva lasciato il polso, e mi aveva cacciato tra le mani uno yukata ripiegato. "Vestiti, tuo padre ti aspetta." Un'ultima occhiata cordialmente minacciosa, e se n'era andato. Avevo respirato a fondo, per riprendere la calma. Sapevo perfettamente cosa aveva voluto dirmi Kakashi con quello sguardo. Hai convinto gli altri, ma non hai convinto me. Attento, giovane Kabuto, perché ti tengo d'occhio.
Mi avevano bendato gli occhi, trascinandomi poi per chissà quanti cunicoli, la rete sotterranea di Konoha scavata in generazioni. Quando mi avevano tolto la benda, avevo scoperto di trovarmi al Palazzo del Fuoco. Mi avevano condotto nel cortile, sotto un sole che abbagliava la mia vista sfocata; ed avevo incontrato mio padre che mi attendeva, assieme a un gruppo di amici di famiglia e parenti, e un altro gruppo di severi uomini anziani vestiti di nero. Tra di loro, l'Hokage con la sua veste formale e il copricapo conico. Nessuno si muoveva ed era chiaro che si trattava di una sorta di cerimonia formale. Rubando il cuore del ninja morto, avevo offeso la sua famiglia. Questa era stata chiamata dall'Hokage a sancire la riparazione dell'offesa, onde non lasciare spazio a inimicizie future tra i clan: lasciar correre questioni d'onore era pericoloso tra famiglie di ninja, e Sarutobi aveva il compito non solo di giudice ma anche di paciere. L'Hokage aveva detto poche parole ai presenti, scusando la mia giovane età e dicendo che a suo avviso avevo pagato abbastanza il mio reato con tre settimane di carcere duro. Tre settimane... mi sono sembrate tre mesi. L'etichetta esigeva che salutassi innazitutto il capo del mio clan. Ero andato di fronte a mio padre e mi ero inchinato. Per tutta risposta lui mi aveva assestato un paio di ceffoni, davanti a tutti. E aveva gridato che non ero degno di portare il nome degli Yakushi. Avevo osato guardarlo di nuovo, con le guance in fiamme. Avevo visto i suoi occhi luccicare di lacrime. Padre!... Il suo sguardo su di me era commosso, pieno di pena. Ma la sua faccia era contratta in una smorfia solenne e severa, dura come la pietra. Era il mio signore, ed era in collera con me. Mi aveva afferrato per un braccio e mi aveva spinto davanti alle figure vestite di nero. Mi aveva scaraventato in ginocchio in malo modo, e mi aveva ordinato con durezza di chiedere umilmente perdono per il mio delitto. L'avevo fatto, inchinandomi profondamente davanti a loro e ricordando che quelli erano i parenti dell'uomo che avevo smascherato per Orochimaru... Io ho ucciso quell'uomo. Non gli ho solo rubato il cuore. Era seguito un pesante silenzio. Poi il più anziano degli uomini vestiti di nero aveva brontolato che accettava le mie scuse. In fin dei conti avevo rispettato la salma del loro congiunto e le mie motivazioni non erano state malvage, ma solo frutto dell'irruenza giovanile. La prigione dura era stata una punizione sufficiente. Mio padre aveva tuonato che non bastava. Ero un allievo medico e, praticando un'autopsia, avevo osato arrogarmi le prerogative di un medico vero. Avevo tradito la fiducia che la comunità concedeva alla divisione medica di cui lui era a capo. Mi aveva ordinato di sfilarmi lo yukata dalle spalle. Avevo obbedito, lentamente, senza voltarmi a guardarlo con un atto di puro coraggio. Avevo pensato che mi avrebbe decapitato. Invece non aveva brandito una katana, ma uno shinai. E aveva cominciato a calare colpi duri sulla mia schiena nuda, con ritmica regolarità. Avevo cercato di sopportarli con dignità, ma mio padre picchiava troppo forte, come se sfogasse in quel modo la sua tensione. Dopo una mezza dozzina di bastonate avevo vacillato, con le lacrime agli occhi, e avevo posato le mani a terra, chinando la testa e lottando per non gridare ad ogni colpo... Ma non mi ero mosso, non mi ero sottratto al castigo, e non avevo chiesto pietà. E alla fine erano stati i parenti stessi del morto a chiederla per me, invocando l'autorità dell'Hokage perché mio padre si fermasse. Non avevano avuto dubbi che avrebbe proseguito fin quasi ad uccidermi, pur con il dolore evidente di far questo al proprio figlio adottivo. Tutti erano rimasti impressionati dalla severità e serietà con cui il clan Yakushi aveva lavato ogni macchia del proprio onore. Sarutobi aveva dichiarato che la disputa era conclusa, e che Kabuto Yakushi era libero e reintegrato nel suo grado di ninja. Quindi se n'era andato col suo seguito. seguito dalle figure vestite di nero. Ero rimasto in ginocchio in mezzo al cortile, senza forze, ansimando di dolore, con la schiena pulsante e rigata di sangue. Ma ero libero, finalmente... Libero! E solo allora mio padre mi si era avvicinato, pallido e tremante, rimettendo a posto lo yukata sulle mie spalle ferite, togliendomi i capelli sudati dalla faccia per legarli di nuovo nella coda da medico, e dicendomi tra le lacrime che non aveva avuto altra scelta. "Ora è tutto finito... tutto finito... andiamo a casa, figlio mio." Ero scoppiato a piangere, in maniera liberatoria, abbracciando le ginocchia di mio padre e implorando il suo perdono per tutta l'angoscia che gli avevo fatto provare, mentre tutto il clan ci circondava commosso. Era stato un momento di felicità assoluta. Ma mentre mi rimettevo in piedi, con le gambe che tremavano e sorretto dagli amici, qualcosa di strano mi aveva costretto ad alzare lo sguardo. Uno degli Anbu era appollaiato su una ringhiera che dava sul cortile, armato solo con una wakizashi, e le sue braccia non erano nude, ma coperte da una rete fitta che arrivava fino alle dita guantate. I suoi capelli erano raccolti in una treccia quasi femminile, che penzolava sulla sua spalla. C'era qualcosa di familiare nel modo in cui il corpo era ripiegato, pronto a scattare come una molla. Non avevo potuto resistere. Avevo concentrato il poco chakra che mi rimanesse negli occhi, modificando la curvatura dei miei cristallini. E l'Anbu aveva staccato la maschera fantastica che portava, scostandola un poco perché vedessi un volto pallido, l'angolo di un sorriso sensualmente eccitato... ... e un meraviglioso occhio dorato.
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