Ipse Dixit

 

Capitolo I

 

di Vitani

 



SEITEN TAISEI - 1 -

Lui era lì.
Era lì, qualunque cosa ciò avesse significato.
Era lì e non capiva cosa volesse dire.
Lì.
Lì dove?
…lì.
Quel luogo non aveva nome, non poteva nemmeno essere descritto.
Lui sentiva di esistere, di essere, sentiva la sua anima, un cuore che batteva, i suoi sentimenti e le sue emozioni.
Sapeva di essere vivo.
Non era avvolto dal buio, no, questo no.
Era avvolto da un nulla assoluto, indefinibile ed inimmaginabile, come uno stato di perenne dormiveglia, a metà fra risveglio ed oblio.
Non sentiva un corpo.
Sentiva un cuore battere, ma non un’essenza fisica.
Solo quello stato di galleggiamento onirico ed infinita attesa, come di chi sia sommerso dall’acqua e si debba innalzare di un solo centimetro per inspirare finalmente aria pura.
Come di chi abbia davanti a sé una porta invisibile ed abbia già avanzato un piede nel valico senza essere ancora dall’altra parte.
Come chi abbia saltato un burrone e si trovi sospeso nell’aria a metà fra l’uno e l’altro ciglio.
Questo suo inesplicabile essere era fermo ed immobile esattamente in quel punto.
Sospeso nell’infinitesimale durata di un istante, senza poter procedere né retrocedere d’un solo passo.
Era bloccato eternamente in quella privazione di tempo, senza percepirne lo scorrere, ascoltando il battito ritmico d’un cuore che non sentiva come suo. Lo percepiva vicino, ma al contempo attutito, un lieve eco di qualcosa di esterno alle sue sensazioni eppure parte di esse.
Non riusciva ad individuarne la provenienza.
Era come se gli echeggiasse tutt’intorno, contro la sua volontà.
…volontà…
Lui era qualcosa?
Sì, perché stava lì, in quel luogo senza nome che luogo in realtà non era.
Sentiva il suo pensiero, o la sua coscienza, o ciò che era, scorrere ed analizzare ogni dettaglio di quello stato in cui si trovava da un tempo quasi infinito, al di là di ogni memoria e comprensione.
Non riusciva a ricordare quando era iniziato.
…iniziato?
C’era stato forse qualcosa prima di quello?
Come poteva essere così certo, così cosciente di sé, e allo stesso tempo non riuscire a risvegliarsi, non riuscire a varcare la soglia invisibile che aveva davanti?
In verità gli pareva di ricordare d’averci provato molte volte, ad andare più in là.
Ci aveva sempre provato, e non c’era mai riuscito.
Ogni volta qualcosa lo bloccava.
Ogni volta che sentiva il desiderio di avanzare, di uscire da quello stato di torpore indotto, veniva prontamente ricacciato indietro da qualcosa.
Nemmeno quel qualcosa aveva nome.
Era come se la densità stessa della sua essenza cambiasse all’improvviso, ogni volta che provava a spingersi più in là.
Sentiva come una costrizione, un malessere, qualcosa che lo trascinava inesorabilmente indietro.
Perché, per quale ragione si affannava e premeva per raggiungere una porta di cui ignorava l’effettiva esistenza?
Perché era così sicuro dell’esistenza di qualcosa, un qualcosa di materiale e non fatto unicamente di pensiero?
Perché, nonostante tutto, percepiva se stesso come un’unità fisica?
Aveva molti ricordi, lui… molti, veramente molti.
Ricordava d’aver, un tempo, camminato sulla terra; ne ricordava la compattezza ruvida e calda sotto le piante nude dei suoi piedini da bambino; ricordava il sapore della fresca acqua di sorgente, la sua limpidezza, quanto fosse bello specchiarvisi e riconoscere i propri lineamenti; ricordava l’odore dell’erba verde e bagnata dalla rugiada del mattino, quello muschiato degli alberi delle montagne su cui aveva amato arrampicarsi; ricordava le sue pazze corse senza meta sui prati, a rincorrere gli uccelli e le farfalle gialle e rosse, il sapore succoso e zuccherino dei frutti maturi e quello dolciastro del dorato miele…
Ricordava la bellezza dell’arcobaleno, della nebbia, delle nuvole che cibavano la terra con l’umido frutto del loro grembo, ricordava la bellezza della natura e del sole.
Aveva nuotato nell’acqua, un tempo, nudo, si era immerso fino a toccare il fondo e poi era riemerso senza nulla che lo contrastasse, stendendosi sull’erba e asciugandosi sotto la calda luce solare che lo abbracciava, beandosi di quel calore e sentendosi padrone del mondo.
Non aveva mai ucciso un essere vivente, che fosse un animale o uno degli esseri umani che vivevano giù lungo la montagna, lontano dalla foresta e lontano da lui.
Nessuno l’aveva mai disturbato.
Gli animali erano sempre stati suoi amici.
I suoi unici amici.
Passava tutto il suo tempo a giocare con loro.
E gli umani… aveva mai incontrato umani?
Sì… e…
Oh, ora iniziava a ricordare anche qualcos’altro… ricordava quel giorno, di pioggia, un anno particolarmente piovoso.
Ricordava il vento che gli ululava nelle orecchie con forza, per poi placarsi all’improvviso e lasciare tutto avvolto nel silenzio.
C’era stato un istante in cui, pura immagine dello smarrimento, non aveva saputo cosa fare. Le sue narici avevano captato un odore estraneo, un odore che mai aveva sentito prima.
Era corso verso la fonte dell’odore con tutta la velocità consentitagli dal suo giovane e forte corpo, poi li aveva scorti: esseri che si reggevano su due zampe come lui, privi di pelliccia come lui, denutriti.
Forse erano saliti sulla montagna in cerca di cibo, a causa delle piogge torrenziali che probabilmente avevano devastato i loro campi.
Forse…
Li aveva fissati, sbalordito, così come loro avevano fissato lui, altrettanto stupiti.
Che ci faceva un bambino, nudo, in quel posto?
Un bambino dai lunghi capelli castani, morbide orecchie a punta e felini occhi dorati.
E allora lui aveva visto una cosa che mai, mai avrebbe dimenticato.
Quegli animali che aveva sempre considerato suoi unici amici erano lì, a terra, morti, divenuti pezzi di carne utili solo ad essere mangiati.
L’odore di sangue era pungente, viscoso, quasi palpabile.
Lentamente la pioggia aveva ricominciato a cadere, bagnando il suo volto delicato da undicenne.
Lavando via il sangue, mischiandone il forte odore con quello della terra umida.
Era stato allora che il suo urlo si era sparso verso il cielo, disperato.
Un urlo che era quasi un ruggito, pregno di rabbia, di odio.
Carne da macello… glieli stavano portando via… i suoi unici amici… la sua unica compagnia su quella montagna in cui era solo.
Solo.
Nessuna traccia di altri come lui.
Era stato in quel momento che aveva ucciso per la prima volta.
Per vendetta, per orgoglio, a causa della sua ira.
Era rimasto lì, sotto la pioggia, a piangere, con le mani inzuppate nel sangue, quel sangue ch’era stato il primo a fargli scoprire il sapore dell’odio.
Mai come in quell’istante la sua solitudine gli era pesata, unica creatura vivente in quel paesaggio distrutto dalla morte.
Aveva urlato ancora molte volte, in lacrime.
Ricordava di aver ucciso tutti gli uomini che aveva incontrato, di essere sceso fino a valle per ucciderne altri.
Ricordava quella rabbia che non si placava mai.
Perfino in quel momento gli faceva male, in quel momento immobile e perfetto in cui contro la sua volontà si trovava.
La sua prigione.
Quella era la sua prigione.
L’impossibilità di muoversi, di parlare, perfino d’avere un corpo.
Non sentiva nulla, a parte il battito di quel cuore, non vedeva nulla tranne i suoi ricordi.
Un uomo gli era venuto incontro, con sulla fronte un chackra.
Avevano combattuto, lui era stato sconfitto.
L’avevano punito per quelle sue uccisioni apparentemente prive di scopo.
Da lì non ricordava più nulla.
Solo le sue forze che venivano meno, si sentiva svenire.
E non si risvegliava.
Avvolto nella sua prigione dei sensi, era morto al mondo.
Tentava di muoversi, senza riuscirci.
Tentava di parlare, ma nessuno lo sentiva.
Andava avanti, veniva buttato indietro.
Ma ogni tanto… ogni tanto riusciva ad andare più in là.
Sentiva incrinarsi lo spazio di nulla che lo circondava, e allora un calore accecante e un senso devastante di forza lo opprimeva, spingendolo fuori.
Spingendolo ad aprire quegli occhi che non aveva mai chiuso.

- continua -