I peccatori che oscillavano sull'orlo

di 8a elevazione


 

C’è una posizione morbida, richiami, bianco su nero.

-…-

Le dita intrappolano il tubo plastico trasparente, oltre al quale scende l’inchiostro che con acide impressioni blocca curve e linee rette sulla superficie bidimensionale. Con sporadiche mosse accidentali il suo palmo sfila attraverso i capelli, riportandoli indietro a posizioni casuali e ritornando a sorreggere la testa attraverso la mandibola.

Sulle sue palpebre grava il peso dell’aria leggera che filtra con noncuranza dalla finestra spalancata mentre qualche ammasso di generalità insipide gli si avvicina con parole insulse, disprezzabili.

Complimenti Kaede, dice a sé stesso senza aprire bocca. Complimenti.

I concetti si interrompono sulle mura, i meccanismi logorroici rinnegano le lancette mentre qualcuno si conferma silenzioso o inutile, a seconda dei casi.

C’è consapevolezza stabile. Lo sai, lo so.

L’unico componimento accettabile è quello di un organo di avversione che si trasforma in organo  di concepimento concreto e provoca quel piacere causato dalla pelle tesa, dagli occhi riversi verso l’alto ma nascosti dalla chiusura, dalla stretta convulsiva o dalla pressione involontaria delle dita, ma il tempo non è concesso. C’è qualcosa di completo.

A seconda dei casi, ci si può oscurare. Tanto nessuno è interessato a vedere, a carpirne ogni significato, come fosse tutto costruito su atomi vitali.

Il mio microcosmo, le tue irascibili accondiscendenze al fato.

Quello che accade causa omicidi interni, minuscoli e gentili. Ma forse è meglio nascondersi, farsi punire dalla mente stessa ed evitarsi di piangere, perché tanto è da ciechi, da muti.

Alla fine tocca ai nostri schianti. Il nostro modo di respirare implica verbi vari all’infinito: sanguinare, dormire, obliarsi.

Siamo spaventosamente simili e tremanti e conosciuti.

Allora ti osservo dalla distanza di questa struttura ambigua che corrisponde alle nostre lingue, mentre scosti oggetti con l’attenzione che Dio ripone sul colore dell’acqua, in analisi perpetua, per allontanare ogni cosa, ogni persona.

Il tempo è sempre lo stesso, non muta che per le percezioni personali ed io lo osservo spostarsi mentre mi perdo nell’umanità del respirare.

-Problemi Sakuragi?-

-No, professore. Stavo solo…-

-…Sbagliando ingrediente. Certo. Non è una novità per lei, vero?- Questa piccolezza tarchiata e fragile nella sua palese impotenza matrimoniale, trasudante odio e nullità, mi disturba costantemente con le sue improbabili sequenze di insulti rancidi. Non mi tocca, non mi toccherà. Non lo ha mai fatto.

-Ovviamente- Asserisce una voce, sibilando alla mia schiena sul vuoto, avvicinandosi con circospezione intima. Mi prende gentilmente l’angolo di un arto, voltandosi poi con l’immediatezza del segreto.

Lo scatto inafferrabile della mia testa inclinata verso sinistra, o il leggero alzarsi dell’angolo della mia bocca, lo avvisa. Lo spinge verso la comprensione.

Ci sono calcoli.

Trascorre così il doppio di un quarto, trascorre sussurrando formule e sbraitando ordini, perché il regime si adegui a sé stesso, gratificandosi. Anch’io ho cominciato a seguirlo. Cercando di accettarmi. Cercando di cancellarmi.

Mi lascio ingoiare dai corridoi, come se fosse una delle tante possibilità che ho per lasciarmi sparire, ma non accade mentre le spalle degli altrui si urtano, le temperature si alzano, nonostante l’inverno, nonostante l’odio.

La mia andatura si compiace della velocità media intorno, anche se posso concedermi solo qualche istante di superiorità, perché intravedo il bianco del tormento varcare un limite fisico che deve farmi capire. Aspetta. Aspetterà.

Forse posso fermarmi.

Forse posso lasciare la presa.

Forse… No. Sono immune dal sollievo e dalla felicità.

L’ho capito osservandolo spostarsi tra i corpi caldi intorno, guardandolo mentre toglie dal suo viso ogni più piccola particella del dolore che esplode in lui sempre e comunque, seguendolo mentre cerca di celare il volto al mio sguardo adorante, vedendolo spiarmi con atti affilati e incombenti, dolci e defraudanti, amari e laconici. Alieni.

Ecco perché.

L’umanità è arsenico nelle vene di un santo. Sono ginocchia piene di tagli come le mura colme di crepe dopo un terremoto. È un assassinio regolare, pulito. Non c’è nessuna macchia.

Ecco perché.

L’ho visto rischiare, ma mai quanto me. L’ho visto cadere, ma senza infrangersi come ho fatto io. L’ho visto genuflettersi, ma con la nobiltà di un martire. L’ho visto massacrarsi di mutismo, ma mai con la disperazione degli stupidi. L’ho visto guardare lontano, ma senza la leggerezza degli infanti.

Io ho cercato una strada pulita, chiara che non lo includesse e ho sbagliato.

Perché siamo così simili, da provocare paura.

-Perché ci hai messo tanto?-

-Stavo pensando a una cosa- Mi guarda con aria interrogativa, d’accusa. Come se i miei tentativi precedenti di allontanarlo fossero stati pianificati in brevi istanti di riflessione, mentre il suo corpo era lontano ed io non potevo avvertirne il languido tepore. –Pensavo che...forse potremmo andare a prendere un caffè più tardi. Ti piace l’idea?-

Stringe le labbra in un componimento facciale quasi buffo mentre, infilando le mani nelle tasche, si avvia verso le linee metalliche che solitamente separano gli studenti e il tetto dal suicidio. Mi fa quasi ridere il pensiero di questo placarsi delle masse così semplice e autoritario. Comunque devo interpretarlo come un sì. Bene. Mi ha nuovamente intrappolato.

-A cosa stavi pensando Hana?-

Il suo profilo è così lontano. Taglia la visuale tra il cielo e l’eternità, mentre io mi rendo singolarmente conto che tutto questo è soltanto un fuga temporanea. Un semplice addio di circostanza che si avvia verso la decadenza. La fine.

Ma è dopo la fine che viene il principio, non il contrario.

-A quanto ci assomigliamo, mentre tutti gli altri vedono in noi il perfetto esempio di antitesi-

-Ma davvero?- Il tono ironico incrinato da una risata così isolata che mi fa quasi male.

-Davvero, sì…- Abbasso lo sguardo e poi lo rialzo per vedere delle circonferenze aeree dissolversi e scomparire, come nulla.

-E perché pensavi proprio a questo?- Lo osservo mutare espressione e cadere su lineamenti duri, rabbiosi e trattenuti. Credo che ci saranno l’urlo, il biasimo e la frustrazione.

-Vuoi davvero saperlo?!-

-Certamente-

Perché… mi sento maledetto ogni volta che ti tocco visto che mi sembra di toccare me stesso. Mi sento mostruoso ogni volta che entro nella tua camera perché ho paura di non poterne più uscire. Mi sento un assassino ogni volta che ti allontano perché è come se fossi tu ad allontanare me. Mi sento compiaciuto nel comprendere che siamo noi i peccatori che oscillavano sull’orlo. Mi sento niente vedendoti sussistere su queste linee troppo sottili, troppo irreali…

Mi vedo odiato. Semplice.

-La ragione la conosci. Non criticarmi- Cercando di inserire un distacco tra di noi, vengo afferrato e scaraventato a suolo. Batto la testa, avverto la presenza di un punto che brucia, ma l’ustione è sulla parte superiore del corpo, quella a contatto con il suo petto adirato e con la sua bocca velenosamente infettata di lingue trascorse con il sapore di un acido che sa di leziosità.

-Non voglio criticarti, stronzo! Ho semplicemente paura- I suoi capelli cadono su di me, i suoi polsi si irrigidiscono per bloccarmi, tutto il suo corpo è impegnato a fermarmi.

-Paura di cosa!? Cosa?!- Progressivamente ferirsi. Implorandosi di smetterla. No. Mai. –Hai tutto! Tutto! Di cosa puoi avere paura? Di un sentimento che non ti appartiene? Di una famiglia che non esiste? Di cosa hai paura Kaede?! Di me?!-

Se ne va via da me. Se ne va via, guardandomi affannato. Io resto inchiodato alla mia incredulità irosa continuando a vederlo mentre respira profondamente dalla sua immobilità statuaria.

-Di quello che potresti farmi-

-Ti ho dato ogni cosa. Come puoi avere ancora dei dubbi?-

-Forse è la tua naturale predisposizione per l’abbandono Hana, che mi disturba così tanto…- E’ tornato ad un sarcasmo accidentale mentre gesticola nervosamente, nonostante la tranquillità.

-Abbandono. Tu mi parli di abbandono…-

-Sì, abbandono Hanamichi. Quello per il quale ti senti soffocare ogni volta che qualcuno comincia a sentire qualcosa di profondo per te-

-Stronzate!-

-Credi? Allora perché soffri così tanto, eh?! Perché non ti lasci andare a questa schifosa cosa che ci ruota intorno. Questo ammasso di… esistenze mediocri, che sembra interessarti in modo così spasmodico e naturale ma che in realtà non ti lascia dormire la notte-

-Non ho intenzione di abbandonare nessuno Kaede!-

C’è il freddo.

Un attimo di silenzio, vi prego.

Fermate un universo qualunque, strozzate ogni respiro e lasciatevi dormire. Ho bisogno di fermare questo giocattolo impazzito che si prende gioco di me. Mi sbatte, mi prende, mi scruta e mi infila aghi ovunque. Prende la mia essenza.

Ma a questo punto ti avvicini, prendi il mio viso tra le mani, le dita e le unghie.

Appoggiando piano quel respiro veloce e rarefatto sulla punta della mia lingua, assaggiandone il lento pulsare, chiudi ed apri gli occhi, permettendomi di perdermi nel tuo tremare. È mormorare.

-Lo hai già fatto-

Anche se sono solo carne?

 

* * *

 

-Someone speaks, someone hears, no need to go any further, it is not he, it’s I, or another, or others, what does it matter, the case is clear, it is not he, he who I know I am, that’s all I know, who I cannot say I am, I can’t say anything, I’ve tried, I’m trying, he knows nothing, knows of nothing, neither what it is to speak, nor what it is to hear, to know nothing, to be capable of nothing, and to have to try, you don’t try any more, no need to try…-

-Grazie Sagiwara, ottima lettura- Inchino sprezzante. Si congeda con un’eleganza talmente ostentata da rendersi fasulla. Tipico -Allora… sa dirmi di chi è questo testo Sakuragi?-

-Samuel Beckett- Un accenno di assenso.

-Uhm. E sai dirmi anche di quale testo si tratta?-

-The unnamable-

-Periodo storico…-

-Primo Novecento- Il professor Atama* mi guarda compiaciuto per poi rivolgersi al collega, che continua a studiarmi con il solito cipiglio imperscrutabile dal distacco di due pareti rettangolari. Le mani congiunte all’altezza dell’addome, gli angoli della bocca quasi spinti verso il basso e gli occhi piccoli piantati sulla mia faccia.

-Dunque Hasira*, ora dovrai riconoscere quanto ti ho detto- Un brivido pressante mi percorre violentemente la schiena. Incontro rapidamente i suoi occhi, rimanendone colpito negativamente.

-Sarà Ryuichi, ma questo ragazzo è sempre stato un pessimo elemento. Un teppista, un perditempo, uno sfaccendato che non sapeva cosa fare della sua vita. Ed ora comincia prendere voti altissimi da un giorno all’altro, segue le lezioni e si guadagna la simpatia di un pignolo come te. Non so proprio cosa pensare, realmente-

Osservatemi per piacere. Davvero, che meraviglia di stronzate peccaminose.

Queste posizioni lucide e rafferme che mi si presentano con le rughe marcate, le guance cadenti, i denti graffiati dal troppo ringhiare. Quante accuse posso ancora permettermi di gettare su questi due osservatori del niente.

Non vedono. Non sentono. Non toccano. Applausi.

Uscendo dall’ufficio ripiombo nel brusio generale che inquina l’aria. Folla contro folla. Gole, circuiti, nocche impallidite, clavicole, caviglie e schiene che si muovono all’unisono in un asincronismo palese e cruento.

-Ho saputo della redenzione-

-Ciao Yohei-

-Allora…pratica chiusa?-

-Come?-

-Sei passato? Ti hanno pulito? Accettato? Insomma ti aiuteranno?-

-Da quel che ho capito… penso proprio di sì- Un colpo che implica una certa forza mi prende in pieno collo mentre la risata cristallina di lui afferra il mio udito, in un istante che mi sembra pieno di fastidio. Mito mi sta infastidendo.

-Bene- Capisco la sua bontà e la sua amicizia, ma non riesco ad accettarla o a renderla parte di me, come una volta. Non è di questo che ho bisogno.

-Senti… devo andare adesso-

E di cosa ho bisogno dunque?

Forse di quella sagoma che si è velocemente spostata dall’angolo alla porta ed è entrata nell’aula senza guardarmi negli occhi. Mi avvicino alla soglia, ma quando metto piede nella stanza vedo che lui ha già rialzato la sua barriera blindata e cercare di forzarla sarebbe più un errore che una dimostrazione di interessamento.

Pretendendo posto mi applico nell’immedesimazione di questo ruolo: indifferente. Seguendo gli ultimi discorsi. Ascoltando il suono che mi rimbalza verso gli allenamenti. Sentendo la stoffa che scivola sulla pelle. Aspettando che il sudore si plachi. Piano.

Con gentilezza.

-Volevo solo chiederti una cosa- Il mio braccio che impedisce l’uscita ed il suo corpo teso che tende verso di me, pericolosamente. Io scandisco. –Che cosa siamo noi?-

-Tu un idiota…-

-Smettila- Il tono della mia voce deve arrivargli evidentemente stanco, tirato, perché sembra pensare alla domanda che gli ho fatto con più serietà e precisione.

Poi… tace.

 

* * *

 

C’è un predicatore.

Qualcuno di alto e privo di intelletto sulla punta della testa. Sgualcisce la propria immagine gesticolando con versi rapidi e bagnati, sgranando gli occhi da dietro la teca.

-Spegni-

-Credi che la nostra condotta possa essere paragonata a quella di due peccatori?-

Grandi sorrisi, strette di mani, inchini compiacenti. Lo osservo scostando l’irreparabile costretto dentro alle lenzuola.

Resta ricurvo su sé stesso, lo sguardo allungato davanti a sé, le braccia che cingono amabilmente le lunghe gambe richiamate vicino al petto. Cerca calore. C’è una lotta dentro di lui, ma io non la placherò.

-Quale condotta?- Una delle rare concessioni della sua bocca sottile e piegata mi devasta.

-Sesso occasionale, totale mancanza di sentimenti, il fatto che siamo…-

-Lascia stare- Devo costringere questi giorni ad essere meno instabili.

La mia mente non continuerà a sopportare questa altalena di ferite, colpi, insulti e violenze.

Io vengo qui, mi chiudo dietro una cortina di metallo, lascio i cieli plumbei vibrare sopra la città come se fosse qualcosa che non mi riguarda, lo prendo con me e ci imponiamo di esistere, anche se solo per un istante. Non ha senso, è mostruosa questa situazione.

-Non ne sei capace- Comincia ad avvicinarmi. –E’ inutile, Hana. Non puoi permettertelo-

-Non capisco di cosa tua stia parlando- Di nuovo quella voce in stasi, gelida, distante.

-Del fatto che vuoi lasciarmi indietro-

Rivoltando la mia visuale incontro la sua. Mi osserva. Mi osserva come se stesse decidendo in che punto piantarmi una lama per poi lasciare che rivoli di sangue scivolino fino alla base, vedendo crescere qualche fiore spuntato dal mio corpo. Dov’è il senno adesso? Chi se ne è appropriato?

-Ancora questa storia?-

-Smettila di vedermi come un nemico-

Ma tu sei nemico di ogni mio pensiero. Sei aspro sulle mie membra e spietato sulle mie parole. Per questa tua umanità che trascende ogni tipo di consapevolezza. Non ci sono teorie, discorsi, trattati, assuefazioni tali da spingerti alla autodistruzione… anche se ogni cosa grava sulla tua testa, anche se ogni più piccola particella di sofferenza fa parte di te.

Tu sei nemico perché sei me.

Terrificante composizione di parti del mio animo.

-Sono così stanco-

-Lo so. Ma l’unico modo che hai di trovare pace è quello di stare insieme a me-

-Pace?- Rido a questa affermazione, quasi blasfema, su percentuali altissime. – Non c’è pace-

-Forse perché non la vuoi trovare-

C’è una tenerezza omicida tra le sue lettere.

Allora ripone le sue braccia intorno a me, proteggendomi da questo incessante movimento interno comprendente autoflagellazione che oppone resistenza ad un comportamento normale, ad una vita normale. Mai. –Adesso calmati-

-Allora salvami-

 

* * *

 

-Chi sei tu?-

Gli anni ti attraversano spesso.

Trapassano il corpo come fossero un respiro molto profondo, come uno sguardo perso tra le facce di una massa che si sposta. Oscillazioni, movimenti oscillatori, variazioni periodiche di un lento e rapido pulsare interiore. Inconfessato e dondolante, che rotola dalla punta alla base della lingua per cercare di convincerla a tacere.

-Sono qualcuno che è venuto per aiutarti-

Ma ci sono azioni che è spaventosamente impossibile arrestare. Non c’è speranza, non c’è concezione del centro intorno al quale ruota ogni cosa. Ed è a quel punto che ci si perde.

La mia colpa è stata quella di non avere retto questo vuoto opprimente che ci ha coinvolti entrambi.

-Come?-

Toccandoti.

Celandoti a chiunque.

Contemplandoti.

Annullandomi, sussurrando.

-Adesso l’ho capito-

Sono rimasto un ammiratore della bellezza di attimi come questi.

C’erano atti di decadenza nel passato di ieri. Ora sembrano proiezioni di stoffa rese effimere dalla luminosità che si sta sprigionando in me.

Eppure… c’è stata anche la costante assenza, l’impeccabile discesa verso l’oblio, gli incontri notturni incastrati tra i gemiti, le circostanze ripiegate, le osservazioni avverse che degeneravano in fisicità, l’interpretazione sbagliata di un qualcosa di giusto, l’esattezza nel colpirsi, l’esagerazione del distacco. Il giudizio.

-Come?-

Adesso. Le dita si chiuderanno. Le vene avranno un sospiro per cui svuotarsi. Il caos si ricorderà di me.

-L’unico modo per salvare me stesso è quello di salvare te. Così… come l’unico modo per salvare te è salvare me stesso-

-L’unico modo per salvarmi è salvarti. L’unico modo per salvarti è salvarmi-

-E’ molto alto qui-

-L’ho scelto apposta-

-Allora andiamo?-

-Andiamo-

Abisso e beatitudine, grazie a Dio.

C’è qualcuno.

 

 

 

 

 

I personaggi sono stati creati ed appartengono a Takeiko Inoue.

I professori Atama [à testa, intelligenza, cervello] e Hasira [à Colonna] sono invece creati da me.