Io vi farò cacciatori di uomini

di Yu


la prigione del burattinaio

 Si narra di un eterno uomo senza paura.

Viveva nella sua Reggia, grande e scura.

Ascoltava lo scorrere dell’acqua e il fluire dei pensieri.

Parlava al vento e alla Luna, parlava agli Angeli e ai sentieri,

che nel suo grande e chiuso giardino si ritrovavano.

Osservava le stagioni e gli alberi, le foglie che cadevano.

Egli sapeva di essere libero, ma piangeva.

Perché? Io ho tutto – si diceva.

E mai di là si scorgeva lume,

Poiché tutto intorno era il fiume,

che spruzzava una spiaggia, infelice e spoglia.

Niente porte sulla soglia,

solo un muro desolato.

Oltre il muro era il giardino di Memoria,

di cui si perse ogni gloria,

dopo che tutte giacquero a fondo

nell’antico pozzo tondo.

Da lì si stagliava la torre nera,

protetta alla base da una fiera.

Salite le scale tortuose e sfuggenti,

si giungeva alla sala dei tormenti.

Ivi giaceva tra i funerei guanciali

un visitatore senza eguali.

Dormiva

e sognava di una vita futura,

sognava di far sorridere l’uomo senza paura.

 


 
Prefazione:

Ho tentato di essere il più oggettivo possibile, tuttavia dato il mio coinvolgimento nella vicenda, prego che perdonerete eventuali esagerazioni o giudizi affatto imparziali. Prego anche di lasciar correre alcune mie vene malinconiche che emergeranno senza dubbio da questo testo. Terrei molto a rendere noto il motivo di questo mio gesto. Non intendo essere scagionato, compatito o accusato, vorrei che tanto la mia prigionia, quanto le mie colpe passassero in secondo piano. Dunque, tutto ciò che è qui di seguito riportato vuole soltanto essere un dono alla persona grazie alla quale ho la possibilità di scriverlo.

Grazie a cui posso essere libero.

Per dimostrargli che non ha vissuto invano, che qualunque sbaglio abbia pensato di aver commesso nei miei confronti, non si trattava di uno sbaglio, poiché egli non ha mai avuto torto. La mia vita prima di conoscerlo è stata solitudine, dolore e solitudine, e così sarà senza di lui. Tuttavia non voglio il suo perdono, né il vostro.

A mio fratello, Abel.

                                          25 Dicembre 2004

 

 


 

CANTO PRIMO

 

Allorché il principe ritrovò la bella e la volpe il lupo

 

Stava sulla soglia una pianta, glicine profumato, accarezzata dal vento delicato come un pensiero; ondeggiava, spandendo la sua essenza di segreti silenzi, aggredendo le mura antiche simbiotiche all’edera rossa. Il portone scuro, serrato, memore di remote tragedie, osservava il lento spegnersi dei suoi riflessi nella luce del tramonto, rosso come l’edera.

Rosso come il sangue.

Il canto ammaliatore di una sirena lambiva l’orecchio di coloro che con indifferenza vi passavano poco lontano nello svolgersi della loro grigia esistenza. Si diceva che ascoltarne le parole conducesse alla follia – nessuno si era mai avvicinato tanto da farlo -, tuttavia si dice anche che coloro che peccano contro uomo, contro Natura e contro Dio siano destinati all’Inferno. Non è così: essi sono diretti ad un luogo assai peggiore.

Posso ricostruire nella memoria la bellezza sintetica e fredda di queste mura, rivisitare ad una ad una tutte le grandi sale eleganti, sino alla torre, sino a quella porta che mi è sempre stata preclusa, quella porta dietro la quale si trovano la mia anima e il mio cuore. Riesco a riconoscere il canto di quella sirena, prigioniera immortale della mia morente casa. 

 

<< Chiedo perdono a Dio perché ho peccato. Ho peccato contro me stesso e le persone a me care. Ho peccato di superbia e di vanità. Chiedo perdono a Dio perché ho preteso che mi parlasse, perché ho preteso che mi ascoltasse, perché ho preteso che mi guardasse. Quando sono io che non ho visto, non ho ascoltato, non ho parlato.

Chiedo perdono, perché ho creduto di essere nel giusto. Perché ancora penso di essere nel giusto. Chiedo perdono perché non so amare. E non so capire.

Chiedo perdono, perché ho meritato. Ho meritato ogni singola sofferenza patita.

Chiedo perdono perché ho creduto di avere il controllo e il distacco. E non li ho mai posseduti.

Così adesso proverò a vedere, ad ascoltare e a parlare. Ci proverò, anche se penso di non farcela. Almeno ci proverò. E ringrazio Dio, se riuscirò di nuovo a sentirlo, a parlargli.

A vederlo. >>

 

E senza respiro posso ascoltare ancora la sua voce.

Stava sulla soglia, la pianta accarezzata dal vento ondeggiava, spandendo i piccoli petali viola a mescolarsi con i suoi capelli dorati; il portone scuro osservava i riflessi del tramonto spegnersi lentamente negli occhi distratti. Tra le dita affusolate stringeva lo stelo del fiore pericoloso come il desiderio.

Rosso come il sangue.

Pochi sono coloro che in quest’epoca possano vantare un simile passo, carico della grazia e della fuggevolezza di Ermes; simile ad uno spettro l’uomo elegantemente abbigliato aveva attraversato il viale decadente, che separava la costruzione dagli acuminati spuntoni del cancello. Una targa a lettere ricamate svettava sul portone; portava un messaggio sbiadito dal tempo accompagnato dalla sottoscrizione Von Roe. Al di sotto, una pesante catena, logorata dalle innumerevoli stagioni in cui era stata utile al suo fine, impediva l’accesso.

Lasciò che una spina penetrasse pigra le sue carni morbide e subito allungò il braccio verso il blocco di ferro. Non appena una goccia di sangue vi si versò, il sigillo esoterico che vi era stato imposto si ruppe e la catena si frantumo in mille pezzi.

Staccata la targa, la posò a terra e sopra di essa dispose la rosa.

 

<< Ho infine avuto la pena di far ritorno a questa famiglia. Dopo quasi due secoli, che tu possa riposare in pace, padre. >>

 

Glen Von Roe scomparve nell’oscurità della casa.

Questo è ciò che so, che ho sentito. Al di là di ciò che ho vissuto.

 

 

Referto n°1

 

Camille Lablanche

 

Secondo la legge del karma colui che ha agito in modo retto nella propria vita, avrà nella prossima maggiore felicità ed uno stato spirituale più elevato. Lo stato più elevato di reincarnazione è la donna. Non incontrare nella prossima vita le persone che si sono amate od odiate in questa, significa aver tenuto un comportamento tale da non avere con loro alcun trauma da risolvere.

Il 12 Marzo 1845 nacque ad Annecy, nella Francia sudorientale al confine tra Italia e Svizzera, una bambina a cui i genitori ferventi cattolici diedero il nome Camille – vittima sacrificale –. Ella crebbe molto graziosa, energica, amabile, ma affetta da un male sconosciuto. Male per cui meno di cent’anni prima si sarebbe ricorsi all’esorcismo; strada che, tentata, si dimostrò peraltro inutile. Non si trattava tanto del corpo, quanto della mente. Non appena si addormentava ripercorreva avvenimenti accaduti prima della sua nascita, relativi a luoghi e persone del tutto oscure; era a conoscenza della lingua inglese, latina e greca, di strani simboli e sortilegi che diceva provenissero dall’Antico Medioevo – probabilmente era ancora incapace di sfruttarli -. L’apice fu la sua ferma convinzione di sentire di continuo il fratello piangere, cosa necessariamente infattibile, poiché non ebbe mai un fratello. Nel Dicembre 1860 Camille, a soli quindici anni, lasciando detto che si avviava a decidere il suo destino si allontanò da casa; non si ebbe di lei più alcuna notizia.

Tuttavia vi è un fatto interessante per la sua singolarità: il 31 Ottobre 1862, tutti coloro che alloggiavano nella residenza principale dei Von Roe, eccezion fatta per il capofamiglia, furono assassinati da un’ospite la cui descrizione corrispondeva ad una ragazzina di 15-17 anni, dai profondi occhi verdi e lunghi capelli ramati. Gli omicidi non furono mai risolti, poiché i corpi non presentavano alcuna lesione esterna abbastanza grave da essere mortale, né vi era nel sangue traccia di veleno; soltanto i loro cuori avevano simultaneamente smesso di battere.

I morti furono in tutto 13, eppure il capofamiglia non volle che la presunta colpevole fosse inseguita, neppure per un semplice interrogatorio. In un impeto di follia, dichiarò ch’ella era la punizione di Dio per ciò che era successo al figlio e subito dopo si chiuse in un silenzio impenetrabile.

A meno di una settimana di distanza dal lugubre episodio, la presunta omicida si ripresentò alla villa: Il 5 Novembre, per un colpo di pistola alla testa, moriva quella che senza dubbio fu Camille Lablanche. Il capofamiglia, James Von Roe, invocata la legittima difesa fu rilasciato pochi giorni dopo e si premurò di far chiudere la residenza madre, ponendo il suo sigillo nobiliare – e non solo quello -.

 

 


 

Canto secondo

 

Di quando il lupo incontrò l’agnello

 

Sono nato il  31 Ottobre 1817 a Shrewsbury nella contea di Shropshire, tra Inghilterra e Galles, in una villa che si affaccia sul fiume Severn. La prima cosa che videro i miei occhi fu – ironia della sorte - il colore della speranza. Fu mia madre a darmi il nome Cain, nella fiducia che avrei compiuto il mio destino, affondando nel sangue la famiglia del mio padre naturale, James Von Roe.

Avevo nove anni ed osservavo le sottili incrinature sulla superficie del caffé, prodotte dal vibrare dei passi del capofamiglia, quando mi fu riferito che avrei conosciuto mio fratello. Sapevo che si trattava del figlio della Signora della residenza principale. Il piccolo erede della casata era stato istruito alle arti oscure sin dalla nascita e vantava a soli otto anni il privilegio di affermare “io sarò il più giovane sciamano della storia”; in effetti il rito d’iniziazione era fissato per il suo tredicesimo compleanno. Non che la cosa mi sconvolgesse; le doti ereditate da mia madre, pur senza alcun tipo di insegnamento, avrebbero potuto facilmente portarmi al suo livello. Comunque sia, per quanto allora non osassi neppure pronunciarlo, sono stato un figlio illegittimo. Vidi mia madre per l’ultima volta all’età di sei anni, appena prima che fosse ripudiata a causa delle sue idee non troppo conformi ai dogmi – ma forse anche delle sue, non troppo celate, smanie vendicative nei confronti di mio padre -. Ero avvezzo al contegno che egli manteneva nei miei confronti: passeggiava nervosamente per la stanza ignorandomi, senza dubbio infastidito da una formalità inderogabile. Forse un giorno sarei stato utile ai suoi scopi, perciò mi teneva in vita.

Dopo avergli assicurato che mi sarei comportato degnamente, mi feci aiutare a vestirmi per andare a passeggio. Desideravo ardentemente immergermi nella neve, nella vecchia Inghilterra, nella campagna sperduta dove si trovavano le nostre proprietà.

Un sottile nastro rosso attirò il mio sguardo come un magnete, provocandomi un senso di imbarazzo per la mia stessa eccessiva vitalità; era di un rosso intenso, vermiglio. Aveva l’aria di nascondere qualche segreto proibito, quel colore. Da poco me ne stavo seduto su di un grande ramo basso ad ascoltare il silenzio, finché non lo vidi fluttuare. Era tutto così bianco attorno a lui, eppure si muoveva, si avvicinava e si fermò sotto il mio albero. Un secondo dopo era scomparso dietro la testa di un bambino dal viso di bambola, ornato da riccioli d’oro; le labbra di pesca si schiusero dolci e sorrise, mentre gli occhi vispi mi fissavano divertiti.

 

<< Ti stavo cercando >>

 

- Perché? - Domandai.

 

<< Come ti chiami? >>

 

- Dovresti saperlo, se mi stavi cercando. -

 

<< Tu…sei Cain >>

 

- Dunque tu sei Abel – conclusi con tranquillità. 

 

<< Sì, sono Abel >>

 

Il solco sulla neve si fece più profondo, si mise in punta di piedi e mi tese le mani, come se volesse prendermi in braccio. Fu allora che per guardare meglio il suo volto - e questa sarà sempre colpa sua - persi l’equilibrio precipitando nel mare bianco.

Non rise, rimase a fissarmi mentre mi rialzavo.

indossava un soprabito invernale, pulito, elegante, calzoni e calzature molto raffinati. Senza bisogno d’altro spiccava nitida la sua discendenza. Pareva poco meno che un angelo o una giovane ninfa dei boschi.

 

- Conosci la storia di Abele e Caino? – domandai, apparentemente senza motivazione.

 

<< Sì >>

 

- Significa che io ti ucciderò, perché è il mio destino -

 

<< Non importa >>

 

- Non hai paura di morire? -

 

Abel scosse la testa con convinzione, mentre con le sue piccole mani tiepide mi aiutava a ripulirmi dalla neve rimastami sulla schiena.

 

<< Però mi dispiace… >>

 

- Perché? -

 

Continuando a guardarmi e a sorridere, sfilò il nastro rosso dai capelli e vi posò sopra un bacio leggero per poi allacciarlo con calcolata lentezza al mio polso.

 

<< Perché mi mancherai >>

 

Questo fu il mio primo incontro con Abel, voluto soltanto dal destino. Nostro padre si opponeva fermamente alla nostra frequentazione. Venni in seguito a sapere che il motivo per cui mi aveva informato dipendeva da mio fratello: egli si era svegliato quella mattina affermando “oggi conoscerò Cain”, quindi si era comportato come ogni altra giornata.

Questo suo atteggiamento merita forse di essere chiarito.

 

 

 

 


 

Referto n°2

 

La famiglia Von Roe

 

Nel Medioevo la credenza nella stregoneria era diffusa in tutta Europa; sorretta da leggende e superstizioni popolari, si accompagnava a riti pagani, talvolta rielaborati alla luce del Cristianesimo, e a pratiche magiche che facevano ricorso ad erbe medicamentose o psicotrope. È a questo periodo che risale la tradizione, ormai quasi millenaria, della stirpe Von Roe, infatti malgrado le leggi li proibissero tali riti erano molto praticati, soprattutto nelle campagne. Le cose cambiarono verso il XIII secolo, quando si cominciò a considerare la stregoneria come opera del diavolo e si diffuse la credenza nel Sabba, riunione periodica di streghe e stregoni caratterizzata da riti orgiastici, omicidi rituali e atti d’adorazione di Satana.  L’inquisizione impose un ferreo controllo su tutto ciò che poteva avvicinarsi alla stregoneria chiunque fosse anche solo sospettato di praticarla, veniva processato e nel peggiore dei casi condannato al rogo. I metodi del tribunale ecclesiastico sono già tristemente famosi. È vero dunque che la magia veniva condannata, per buona sorte – o meno - nella nostra famiglia in quell’epoca si celava nientemeno che il consigliere dei regnanti inglesi. L’arte occulta è sempre stata la principale fonte di sostentamento e la più importante delle peculiarità necessarie a far parte di questa casata. Mai ebbe importanza quali fossero le tecniche utilizzate, anche la magia nera, proprio quella che la chiesa andava condannando, era ben accetta. In seno alla famiglia si sono susseguiti maghi, streghe, sciamani – in grado di sentire e comandare gli spettri -, negromanti – evocatori dei morti, controllano i cadaveri -, veggenti, alchimisti, persino indemoniati, fossero essi di cuore puro o malvagi.

Generato il 13 Dicembre 1818, Abel Von Roe, che avrebbe dovuto ereditare la conduzione della famiglia, fu forse lo sciamano più potente mai conosciuto. In grado persino di controllare alcuni aspetti della metempsicosi - reincarnazione -, vantava tra le altre la facoltà di ricordare le sue vite precedenti. Io fui indirizzato alla negromanzia, tuttavia il progetto falli: a questo è da associarsi la mia rovina.

Dunque l’11 Novembre 1862 come già detto, a seguito dello sterminio attribuito a Camille LaBlanche e dopo quasi ottocento anni di “onorata carriera”, la famiglia Von Roe, ritrovatasi senza eredi – in realtà uno ce l’aveva, ma incapace di generare una prole – e senza speranze, dovette chiudere i battenti. James Von Roe morì di vecchiaia e paranoia un solo anno dopo, mentre i successori della casata cadetta, ottenuta la libertà, si dispersero. Ciò non significa che quasi mille anni di studi e matrimoni combinati siano andati perduti; senza dubbio da qualche parte sono nati e nascono dei bambini in grado di sfruttare al meglio le loro speciali capacità.

Ciò nonostante la vera sciagura, nonché la reale cagione del sigillo imposto alla casa, si abbatté sul povero - spietato - James ventidue anni prima della sua morte e coincise con la mia consacrazione spirituale, passo d’obbligo per essere degni del diritto di successione. Il 31 Ottobre 1841 segnò l’assoluto fallimento dei propositi dei Von Roe: fu la data in cui entrambi gli eredi diretti, l’uno per origine inconfutabile, l’altro per riconoscimento tardivo, furono mandati a memoria come trapassati.

 

 


 

Canto terzo

 

Di quando il lupo si fece mangiare dalla bambina

 

L’inverno del mio quindicesimo anno, sesto dopo l‘unico - fino ad allora - incontro con Abel, la mia vita subì un cambiamento radicale. Per la precisione era il mattino del 10 Dicembre 1832, avevo da poco compiuto i quindici anni ed ero appena stato affidato ad un nuovo precettore, per essere finalmente istruito all’arte dell’occulto. Stavo appunto cercando di imparare ciò che mi era stato spiegato il pomeriggio precedente, quando la porta della mia stanza si spalancò di colpo, per richiudersi subito dopo alle spalle di una ragazzina dai lunghi capelli dorati. Ella cadde in ginocchio tenendosi il volto fra le mani, ansimava per la corsa che doveva aver fatto in mezzo alla neve con quel vestito prezioso e leggero.

 

- State bene, miss? -

 

Domandai alzandomi ed avvicinandomi alla soglia. La sentii ridere piano, mentre il suo respiro si acquietava. Quando le fui vicino ne notai il pallore, perciò presi una coperta e la poggiai sulle sue spalle. Non ebbi neppure il tempo di spostarmi che mi aveva gettato le braccia al collo. Sbilanciato da un simile impeto caddi a terra trascinandola con me. Senza dubbio mai più nella vita ebbi occasione di specchiarmi, tanto nitidamente a tale distanza, nella cupa luminosità del Mare del Nord; fu un istante poiché lei si spostò. Restò tuttavia senza pudore a cavalcioni sul mio addome e si perse in un discorso senza capo né coda, rivelando un tono assai poco femminile e rivolgendomi un assai poco elegante “tu”.

 

<< Poiché non mi andava che fosse un editto a comunicartelo, ho pensato che fosse meglio venire di persona…perché, vedi, secondo me non è affatto bello il modo in cui lui ti tratta! D’altronde a breve farai parte della mia famiglia, mi fa così piacere!!! Quindi è giusto che tu sia trattato come meriti, cioè devi essere informato delle cose… >>

 

Protesi una mano a sfiorare le sue labbra per farla tacere. Le sue gote, che abituatesi al calore della stanza erano ritornate di porcellana, si imporporarono nuovamente.

 

- Perdonatemi, ma temo di non aver compreso. Sareste così cortese da dirmi innanzitutto il vostro nome? -

 

Fui fulminato dal suo sguardo, simile a quello di un bambino ferito; eppure non fissava me, fissava il mio polso sull’orlo delle lacrime.

 

<< Hai gettato il mio regalo…non ti ricordi più di me...? Forse ha ragione mio padre a dire che mi odi. >>

 

Dimenticando le buone maniere avvicinai il suo voltò e lo fissai, infine scossi il capo divertito. Mi rialzai tirando su anche il mio ospite ed adagiandolo sul letto.

 

- Come puoi pretendere che ti riconosca così conciato? Per di più dopo sei anni…Per fortuna me ne sono accorto, stavi per fare la fine della mia ultima ragazza. Non ne potevo più di sentirti parlare.  -

 

I grandi occhi di Abel mi osservavano innocentemente, dimostrando, com’era più che prevedibile, di non aver compreso la mia uscita. Era ancora un bambino; o meglio adesso sembrava una bella ragazzina di quelle per cui ti sentiresti in colpa tutta la vita se gli facessi qualcosa di male. Senza dubbio si era agghindato a quel modo per poter passare inosservato da una residenza all’altra; infatti a coloro che abitavano la casata cadetta era vietato anche soltanto vedere i membri della diretta discendenza. Permaneva sul suo volto quel broncio divertente che solo i bimbi sanno fare; tra i ricci ribelli mi fissava lo sguardo di un cerbiatto caduto in una tagliola. Solo ora ho realizzato di aver sempre suscitato in lui una sorta di timore reverenziale, qualcosa di impalpabile che si poteva scorgere solo nel profondo del suo sguardo. Mi voltai.

 

- Vado a prenderti qualcosa di caldo da bere -

 

Pregai che se ne accorgesse da solo, anche se non ci speravo poi molto non avevo alcuna intenzione di abbassarmi ai suoi sentimentalismi – piuttosto la morte -. Egli si alzò di colpo e mi corse dietro, saltandomi alle spalle. Fece sciogliere i miei capelli e quando mi volsi un sorriso beato illuminava il suo volto di fronte ad un ormai vecchio nastro vermiglio. Ebbe l’accortezza di non dire nulla, solo seguirmi, guardandomi compiaciuto – cosa di per sé già molto fastidiosa -.

In tutta la villa si sparse la voce che la mia futura sposa era venuta a trovarmi. Nemmeno per un istante ad uno solo degli inquilini venne l’idea che quello al mio fianco potesse essere un ragazzo. D’altronde non era minimamente concepibile che il discendente diretto, lo sciamano più potente e giovane nella storia della famiglia, potesse non solo aver infranto la regola più importante della casata, ma avere altresì l’aspetto della principessina di una fiaba. Così senza pudore Abel saltellava entusiasticamente da una sala all’altra, ridacchiava ogni volta che gli veniva posta una domanda e correva veloce a nascondersi dietro le mie spalle; trovandosi di fronte a me nessuno aveva più il coraggio di chiedere.

Ho sempre pensato che avesse un gran bisogno di socialità e soprattutto di libertà, d’indipendenza, egli era un aquila rinchiusa nella gabbia dorata che spetterebbe ad un canarino, tuttavia non avrei mai immaginato che la sua vita accanto a James potesse essere tanto solitaria e triste.

Dopo che finalmente riuscì a comunicarmi il motivo della sua visita, non sapevo bene cosa aspettarmi: James Von Roe aveva deciso di riconoscermi. Avrei dovuto abbandonare il mio precettore, i miei compagni, la mia nutrice che considererò sempre più che una madre e la mia casa per essere quello che avevo sempre voluto, per ottenere il rispetto che mi era dovuto, il potere, la libertà. Eppure quest’improvvisa decisione di mio padre non mi convinceva, a meno di un anno dall’iniziazione di Abel, unico vero erede del clan. Ebbi la netta impressione che anche questa volta si trattasse di un capriccio di quel ragazzino prodigio che mi sorrideva entusiasta davanti agli occhi.

D’altra parte com’era possibile negargli qualcosa?

Mi trasferii alla casata madre la sera stessa. Vennero a prendermi il maggiordomo e due cameriere non appena calò il buio, mi comunicarono la notizia e ci dirigemmo alla residenza; la cosa voleva essere tenuta nascosta. Appena giunto al castello mi fu consegnato un programma per i pranzi, uno di studio ed uno per le uscite e le visite di cortesia che sarebbero state effettuate; cominciavo già a sentirmi male. Il mattino seguente avevo la mia prima lezione con il precettore che aveva seguito anche Abel: Edward Alexander Von Roe, ritenuto il più colto nonché il più valente insegnante in vita. Suo compito era di istruirmi in ogni materia, inclusa la magia. Il campo che avevano scelto per me – forse con una vena di sarcasmo – era la negromanzia. Abel si offrì di fare da assistente al maestro; alla mia età ero ancora poco più che un profano e avevo davvero molto da imparare, forse per questo nostro padre acconsentì alla sua richiesta. Il principino era riuscito a ritornare senza farsi scoprire e quando arrivai, sotto l’occhio vigile e severo del padre, mi salutò formale e gelido come se non ci fossimo mai conosciuti. In quel momento mi parse la persona più adatta al ruolo che ricopriva. Solo allora mi resi conto di quanto fosse in realtà complessa la personalità di Abel; fui colto da una sensazione di soffocamento e da un vago senso di nausea, discese sul mio capo l’ombra del tradimento, sentivo di essere stato ingannato. Per un istante ebbi la certezza che entrambi non volessero che uccidermi e stessero solamente aspettando il momento migliore. Purtroppo oramai non potevo che fidarmi di mio fratello, lui che doveva essere il prediletto da Dio, lui che doveva essere l’agnello.

 

Canto quarto

 

Come addomesticare un lupo

 

Fu difficile, ma riuscii ad adattarmi alla rigida etichetta e all’eremitica esistenza che il mio nuovo status imponeva, purtroppo fu il mio atteggiamento già di per sé molto schivo a farne le spese. La mia cinica indifferenza si fece dare man forte dall’appena acquisita capacità di mascherare ogni emozione dietro un freddo sorriso sintetico, rendendomi all’apparenza il migliore dei conversatori e nondimeno incrementando la mia insofferenza verso qualunque forma di socialità e il mio bisogno quasi vitale di isolamento. Presi dunque l’abitudine di rifugiarmi, dopo le lezioni e nelle pause tra i vari impegni di ogni giornata, nel fienile che si trovava immerso nella campagna poco meno di un miglio a nord della villa principale. Certo, mi costò parecchie rimostranze e castighi tanto da parte del precettore che del mio stesso padre, tuttavia come ne valse la pena allora adesso nonostante tutto lo rifarei.

Il sole di Maggio filtrava attraverso gli spiragli del vecchio tetto di legno, andando a baciare con i suoi vivaci raggi la paglia lucente. Immerso nelle tenebre dei miei pensieri e dell’arte oscura cui ero oramai alquanto pratico, godevo del quieto tepore cui la forza generatrice della primavera permetteva di permeare all’interno del fienile. Mai come allora sentii su di me il peso opprimente del sonno eterno; chiunque sarebbe stato in grado in quell’istante di scorgere la tonalità opaca in cui versava il fuoco della mia anima. Avevo il bisogno fisico e insopprimibile di un contatto, necessitavo di nutrirmi di luce, più di quanto i miei polmoni potessero essere costretti all’ossigeno.

Eppure mi lasciavo lentamente sprofondare nell’oblio della dimenticanza.

A soli diciassette anni avevo la stessa inclinazione a vivere che poteva avere un settantenne condannato all’ergastolo e cosa ancor più preoccupante la mia apatia era tale da impedirmi di ritenerlo un problema risolvibile. Non ero in grado di focalizzarne la ragione, ma le lacrime scendevano dai miei occhi; quegli occhi che tanto piacquero a mia madre, poiché erano come i suoi e rispecchiavano le verdi vallate del Galles. Piansi silenziosamente, fino al momento in cui un rumore di passi fendette la tiepida pace fissata dal ritmico ed ovattato frinire delle cicale.

 

<< Ti stavo cercando >>

 

Giunse una voce da sotto il piano rialzato su cui mi trovavo. Come di consueto la vittima che avrei voluto immolare alla mia perversione mi rincorreva in tutta la sua feroce ingenuità. Decisi di non rispondere. Mi sono sempre chiesto chi fosse veramente il malvagio ribelle tra di noi; me lo domando ancora. Avvertii il fruscio dei suoi vestiti, mentre saliva pazientemente la scala di legno.

 

<< Non vuoi sapere perché? >>

 

Mi domandò amareggiato, giungendomi alla spalle. La parola mi uscì fredda, metallica, mentre steso continuavo a fissare la luce che filtrava dal tetto.

 

 - Perché? -

 

In silenzio si sistemò al mio fianco, scoraggiato dal mio tono inanimato, ma incapace di rassegnarsi di fronte alle barriere che avevo eretto nei confronti della mia stessa umanità. Ne fui profondamente infastidito; un atteggiamento che non si addiceva al suo carattere autoritario e glaciale era per me una pugnalata al fianco, significava offuscare pericolosamente l’unico lume che ancora faceva da guida alla mia mente stanca. Ma ancor più fastidioso fu scoprire che tutto il lavoro di schermatura e distacco che avevo perpetrato per modificare il mio carattere era stato inutile. Poiché il silenzio regnava ormai da alcuni minuti, volsi il capo cercando di mantenere il tipico sguardo gelido e pregando affinché non si scorgessero i segni del pianto. Il suo viso era rivolto verso di me, occhi negli occhi, sorrideva affettuoso.

 

<< Io non ti abbandonerò mai, sappilo >>

 

Tutto ciò che avevo creduto di lui da quando ero stato accettato si frantumò ancora una volta in mille pezzi e risorse dalle ceneri l’immagine del bambino che avevo conosciuto a nove anni. Compresi che neppure per un istante aveva dubitato di me, mai una volta aveva concepito ch’io potessi essere cambiato. Si stiracchio placido, perdendosi anch’egli a contemplare le fenditure luminose tra le travi guastate dal tempo.

 

<< Gli spiriti dicono che tu mi guardi in modo strano >>

 

Esordì infine accigliandosi. Era dunque quello il motivo per cui mi cercava. L’oscura serpe che strisciava nella mia coscienza sussurrò alla mia mente che sapevo bene di cosa stava parlando. Raggelai al pensiero che Abel aveva occhi in ogni dove.  

 

- Non capisco -

 

Non vidi alcuna alternativa alla menzogna. Quello che era, da due anni a tutti gli effetti, mio fratello scosse il capo con leggerezza.

 

<< Non ha importanza, ma fa attenzione a nostro padre >>

 

Si tirò su di colpo, ripulendosi i vestiti e dirigendosi verso la scala.

 

<< Andiamo, Alex ci sta aspettando! >>

 

Corse veloce lungo tutta la campagna verde e profumata, le sue risate riecheggiavano dominando la quiete rumorosa ma omogenea che la caratterizzava. Quando giungemmo alla villa la sua esuberanza scemò, tuttavia per una qualche oscura ragione pareva incapace di frenare il suo buonumore, tanto che l’istitutore fu costretto a riprenderlo diverse volte, come mai aveva fatto prima d’allora. Perseguitato dalla consapevolezza della vastità di visione che egli poteva avere e dall’angoscia che qualcuno prima o poi sarebbe riuscito a distruggere il suo equilibrio mentale, e non volevo assolutamente essere io, quel giorno presi la mia risoluzione. Ciò che in due anni non erano riusciti a fare tanto la magia nera quanto mio padre, addomesticarmi, egli lo ottenne senza neppure provarci. La mia divenne la maschera della perfezione ed io il più diligente e affezionato dei fratelli maggiori.

 

Canto quinto

 

Come ridestare una volpe

 

Rapidamente passarono gli anni; tra le lodi appassionate del precettore e quelle ufficiali del padre, solo ogni tanto mi passò per la mente l’idea che stavo ingannando anche persone che non se lo meritavano. Dopo tre soli anni di apprendistato avevo, nel mio settore sia ben chiaro, eguagliato la fama e l’abilità di mio fratello. Tanto egli era esperto nella divinazione, nella metempsicosi e nel placare e controllare gli spiriti, dunque nel donare la pace, quanto io, soggiogando la volontà delle anime e dominandone con facilità i corpi sino a essere capace di scacciare del tutto un’anima dal suo involucro ancora in vita, padroneggiavo appieno la capacità di strapparla. Eravamo oramai giorno e notte. Inoltre il mio distacco, o se preferite chiamarla professionalità, mi impediva di provare alcun tipo di rimorso o qualsivoglia sentimento nei confronti di ciò che rientrava nei miei compiti. Questo mi rendeva giorno dopo giorno migliore agli occhi di mio padre, ma sempre più pericoloso per i suoi progetti; era noto il suo timore che io rivendicassi il diritto di successione. La mia popolarità nella famiglia era oramai al pari con quella di Abel, se non superiore; ero divenuto il povero ragazzino che si era dovuto guadagnare il posto in cui si trovava con il sudore e il sangue, quel ragazzino che amava la famiglia più d’ogni altra cosa, senza contare che il mio aspetto mi favoriva con tutte le fanciulle che miravano a divenire le future signore della casata madre. Abel non aveva un immagine molto virile. Tanto che un vociare sommesso aleggiava, sotto forma di pettegolezzo, tra i membri più influenti della dinastia; essi non lo ritenevano adatto a perpetuare la loro discendenza. Inoltre anche se passata in secondo piano vi era la questione della casata cadetta, che mai una volta aveva potuto vederlo e quando ciò fosse avvenuto avrebbe certo prediletto colui che sino a pochi anni prima ne faceva parte.

Quando ebbi il coraggio di rivolgere la mia attenzione ad Abel per comprendere quale fosse la sua reazione in merito, fui sorpreso di cogliervi una forte di tristezza; non sembrava essere invidia, piuttosto pareva provare una sorta di pena nei miei confronti. Avevo la certezza che dimostrandogli di tradire la sua fiducia avrei ottenuto da lui disprezzo, se non addirittura odio, tuttavia persino questa si dimostrò vana. La mia insoddisfazione si trasformò in rabbia, velenosa e recondita.

Frequentai traviandole tutte coloro che avrebbero potuto essergli date in sposa, mantenendo la mia facciata di freddo e irreprensibile erede modello incrementai le preferenze nei miei confronti. Desideravo che scomparisse agli occhi di tutti, smaniavo che mi odiasse e che lo gridasse con tutta la prepotenza, la crudeltà e la collera che mai avrebbe potuto avere in corpo. Avrebbe dovuto diventare il lupo e sbranarmi senza

misericordia.

Al contrario, il giorno del suo diciannovesimo compleanno, si presentò senza annunciarsi ad una delle esercitazioni periodiche che Edward Alexander mi faceva fare per affinare la mia capacità di controllo e testare il livello di miglioramento. Senza dubbio egli sapeva che avrei preso parte al ricevimento della sera e dato che avrebbe potuto parlarmi nemmeno due ore più tardi non aveva motivo di presentarsi da me durante un’esercitazione. Stimai che avesse infine consumato la sua pazienza. Osservava, forse un po’ in apprensione, i corpi dei guerrieri che Alexander mi aveva ordinato di scagliare contro il sigillo del divoratore di anime. Da buon burattinaio ed incantatore qual ero, con quella prova ottenni l’accettazione da parte di colui che attendeva alla magia oscura sin dalle origini della discendenza Von Roe: Il principe Abbaddon, figlio di Lucifero e Lilith, padrone delle chiavi dello Sheol – l’angolo più remoto dell’Inferno –. Nondimeno Abel attese pacato ch’io terminassi, quindi mi segui alle mie stanze. Era già tutto pronto, perciò congedai la servitù; non avevo affatto voglia di farmi spogliare, lavare e vestire da una delle mie tante amanti proprio di fronte a lui.

 

- Se hai necessita di parlarmi, seguimi pure, poiché debbo prepararmi a stasera. -

 

Mi assecondò senza fiatare e si fermò sulla soglia della grande stanza. Preparandomi per il bagno, dallo specchio notai che fissò la mia schiena, finché non mi immersi nella vasca.

 

<< Come sai, oggi è il mio diciannovesimo compleanno… >>

 

Assentii, mentre mi rilassavo assaporando l’abbraccio delle essenze profumate.

 

- E sarà celebrato come meriti -.

 

Abel scosse lieve il capo, facendo ondeggiare i capelli dorati, e si avvicinò. Si  inginocchiò ai piedi della vasca, posando le braccia sul bordo, per potermi fissare negli occhi con il suo sguardo più ammaliatore.

 

<< Saresti disposto a farmi un dono, fratello? >>

 

Abbassò lo sguardo e prese a tracciare con la punta di un dito dei piccoli cerchi sulla superficie dell’acqua calda, intanto che il vapore gli arrossava le guance.

 

- Qualunque cosa -

 

Il pensiero mi sfuggì, perso com’ero tra il piacere del bagno rilassante e la sua vista. Per la prima volta dopo quasi cinque anni, annebbiato dai vapori, mi permettevo di assaporare senza maschera la soddisfazione di contemplarlo.

 

<< Tempo fa lasciai correre, ma ora sono un adulto e penso di avere diritto di scelta >>

 

Nonostante il torpore riuscii a ritornare immediatamente in me e cercai di mascherare l’agitazione, causata tanto dalla sua premessa quanto dal successivo silenzio, lavando i capelli e lisciandoli. Riuscii persino ad udire il suono delle gocce d’acqua che ricadevano sulla superficie azzurra increspandola.

 

<< Per questo motivo pregherei, se è questo che stai facendo, che tu rinunciassi all’idea di proteggermi da te stesso >>

 

Nonostante il calore che mi circondava il sangue arrivò a gelarmi nelle vene. Senza preavviso mi alzai in piedi, uscii dalla vasca e preso l’ampio asciugamano lo avvolsi attorno al corpo. Mi diressi al guardaroba, fermandomi a sgocciolare di fronte ai vestiti pregiati e cercando di decidere quale indossare, ma soprattutto cosa rispondere.

 

- Non mi pare di averti trattato con molto riguardo negli ultimi anni, per quanto abbia sempre mantenuto il contegno del buon fratello. Anzi la mia impressione è quella di aver tentato di surclassarti e di esserci infine riuscito. -

 

Abel mi seguì con calma e passandomi accanto protese una mano a sfiorare il velluto nero di un vestito dai ricami aurei e vermigli. Lo scrutai impensierito; era un abito oltremodo lussuoso per essere destinato a me, inoltre non l’avevo mai visto prima. Tuttavia decisi di dargli retta e lo scelsi. Nonostante le mie parole egli si premurò di aiutarmi ad indossarlo, sistemandolo sulle spalle e chiudendone i bottoni anteriori. La testa china prestava attenzione alle mani candide impegnate ad agganciare l’ultimo bottone, quello più in alto, permettendomi di respirare l’essenza di balsamo emanata dai suoi capelli, quando egli sollevò il capo e ad occhi socchiusi si protese sino a sfiorare le mie con le sue labbra di pesca. Sussurrò nel mio respiro.

 

<< Vorrei che tu fossi il mio dono >>

 

Per buona -  e sempre più ironica - sorte l’orgoglio prese il sopravvento sul sentimentalismo, che da una vita tentavo di sopprimere in tutti i modi, e subito mi allontanai. L’idea che fosse stato lui a mentirmi per tutti quegli anni, quando al contrario mi aveva smascherato all'istante, ebbe la capacità di risvegliare tutto l’astio sempre taciuto per la condizione cui lui stesso mi aveva condotto. Il dubbio che avevo sempre avuto di non essere altro che un suo capriccio - il suo giocattolo! - si trasformò in una convinzione.

 

- Allora è così? Hai ragione a non temermi, non posso uccidere colui che non é Abele -

 

La mia personalità era squarciata tra l’attaccamento e l’ostilità; poiché nei suoi confronti nutrivo entrambi ed entrambi si esprimevano con una propria voce. Era forse una mia colpa quella di non aver compreso che avevo sempre avuto di fronte a me la volpe? O era mia la colpa di aver risvegliato il lato oscuro di una creatura celeste?

Egli sorrise paziente, come se neanche avesse compreso le mie parole.

Mi voltai verso l’uscita e presi a camminare, ma prima di uscire gli dichiarai guerra.

 

- Dunque rivendicherò il diritto di successione! -

 

Sentii il frusciare dei suoi abiti, con la grazia che gli era usuale si spostava anch’egli, mentre senza speranza mi giunse alle orecchie il suo bisbigliare.

 

<< Nostro padre ti ucciderà… >>

 

La sera stessa dichiarai le mie intenzioni, gettando il caos tra i membri della famiglia.

Dopo quel giorno, Abel, come io l’avevo conosciuto, scomparve dalla mia vita. Un gelido, nobile, eccelso sciamano prese in modo definitivo il suo posto; nostro padre incise abbondantemente nell’impostazione della sua natura. Mi rendo conto che fui io, seppure attraverso la mano del capofamiglia, a soffocare il suo bisogno, quel bisogno di socialità che sin dalla prima volta avevo visto ardere febbrile nei suoi occhi. Il bambino che avevo conosciuto non poteva più sopravvivere senza luce, privato di calore e dolcezza.

Molte volte ho avuto l’occasione di parlagli, anzi ebbi addirittura l’impressione che fosse lui a cercare simili pretesti, tuttavia mai una volta sfruttai quei doni che avrebbero potuto essere così opportuni. Ero persuaso che lui pretendesse da me delle scuse ed un cambiamento, per questa ragione il mio orgoglio di ferro mi impediva di accettare un simile prezzo da pagare; - d’altra parte, addomesticato o meno, il lupo resta sempre un animale impertinente -.

Così mi apprestavo a trascorrere nell’angoscia, nell’astio e nel dolore i quattro anni peggiori della mia vita. Spentasi anche l’ultima fiamma che poteva rischiarare la mia anima, pensai di ritrovarmi nel più buio degli isolamenti e cominciai ad attendere con impazienza il giorno dell’iniziazione.

Ero certo che sarebbe coinciso con la mia morte.

 

Canto sesto

 

Di quando il cane morse il lupo e il lupo sbranò la volpe

 

Pioveva.

La bufera imperversava al di là della grande vetrata e il vento impietoso spazzava con violenza la prima neve contro gli alberi esili e spogli piegati alla sua autorità, quando, per la seconda e ultima volta della mia vita, venne a chiamarmi mio padre. Era buio, dall’ingresso in tutta la sala le ombre della fiamma si agitavano nella danza dei morti; finiva il giorno. Le mie narici erano pervase dall’odore dell’umidità: nel presagio della mia iniziazione sentivo lo smuoversi della terra, ma era ormai tardi per tirarsi indietro. Solo il vento sputava la sua collera contro i blocchi spaccati della torre scura, eppure l’Inferno picchiava alla porta, reclamava la mia vita.

Seguivo il mantello di James verso la sommità della fortezza tetra, disse che la serata era perfetta e il fato era ben disposto. Eppure tra i riflessi di luce tenue della candela, tremolante sotto i suoi passi, ne intravedevo il volto ogni volta più pallido e grave. Scorsi il palmo sulla pietra fredda e liscia, sulle strette pareti della scalinata curva e buia, disperdevo il mio calore raggelando la mia inquietudine - quanto avrei dovuto serbarlo! -. Indossavo degli abiti cerimoniali, un lusso neppure mai sognato. Li sentivo orribilmente simili ad un corredo funebre, dalla cui pece spiccava la mia pelle giovane e morbida, mentre il rumore dei nostri passi risuonava a morto lungo gli stretti corridoi. La sala in cui giungemmo era circolare, molto ampia, spoglia ed al suo centro si trovava una grande bara nobiliare circondata di offerte e candele oscillanti; quasi che si trattasse del sarcofago di un faraone.

Per placarmi rivolsi tutta la mia mente ad Abel, anzi alla persona che era stato.

Mi fu spiegato che quello era il più pregiato e potente fra i mezzi della famiglia, per questo avevo l'obbligo di portarlo sotto il mio controllo. In tal modo sarei divenuto il più potente dei negromanti il giorno stesso della mia iniziazione e avrei dimostrato il mio inequivocabile diritto alla successione. Poiché non si trattava di un semplice morto, avrei dovuto manifestargli la mia forza e stringere con lui un patto di sangue. Mio padre scomparve dietro la porta, sentii lo scattare del grande lucchetto e dalla bara esposta alla luce si issò un uomo.

Seduto a braccia conserte mi fissava con occhi color sangue, sulle spalle e sul petto scendevano i capelli splendenti e la pelle rassomigliava al cristallo; godeva di quella arcana gioventù che può essere unicamente eterna.

 

<< Mostrati >>

 

Protese la mano delicata adornata dalle unghie affilate facendomi cenno di avvicinarmi, attirandomi a sé. Quando uscii dall’oscurità, un’ombra di compiaciuto stupore passò dagli occhi alle labbra rubino che si piegarono in un gelido sorriso. Estese il suo gesto sino a sfiorare i miei capelli scuri. Avvicinandone una ciocca al volto, socchiuse gli occhi e né inspirò la fragranza.

 

<< Ti aspettavo, ora uccidimi >>

 

- Sei già morto -

 

Scoppiò a ridere freddamente e scivolò fuori dalla bara. Si avvicinò ad una delle grandi finestre murate, vi poggiò il palmo e subito dopo la fronte, come se avesse voluto abbracciare l’aria che si trovava al di là di essa.

 

<< Sei ingenuo proprio come Eleanor >>

 

Eleanor Von Roe fu mia madre. Se sono stato confinato fino a i nove anni nella casata cadetta lo devo a lei, ma le devo anche le capacità che a quindici mi hanno reso il privilegio di essere riconosciuto. Scoprii in quel modo che mia madre era stata come pensavo una negromante, tuttavia la sua affermazione era una premessa a qualcosa che avrei preferito non sapere.

 

- Perché dici questo? – mormorai inquieto.

 

<< Eleanor passò qui un intera notte >>

 

- Hai tentato di uccidere mia madre? -

 

Ridendo sommessamente si voltò con la schiena contro la parete umida, il palmo che ancora la sfiorava, con lo sguardo mi penetrò a fondo affascinato.

 

<< Tuo padre l’ha fatto >>

 

Scossi senza vigore il capo. Un passo dopo l’altro mi avvicinai a lui, arrivando a fissarlo negli occhi a pochi centimetri. La mia mente andava perdendosi nel vellutato abisso di desiderio che scorreva in essi; ebbi l’impulso di strapparglieli. Abbassai lo sguardo.

 

<< Possiedi il mio corpo, annienta la mia volontà, è questo che devi fare. Possibile che non ti sia stato detto come comportarti! >>

 

Il suo tono era andato murando da languido a compiaciuto, incrementando di pari passo la mia angoscia.

 

- No! – mi agitai.

 

Sorrise nuovamente. Cominciavo a comprendere quale fosse la sua natura. Il muschio odoroso ricopriva la pietra umida dietro le sue spalle, mentre i capelli lisci e morbidi carezzavano il velluto nero dell’abito pregiato. Tra le labbra carnose immaginai i denti affilati, ma la bocca si serrò. Persa la sua freddezza divenne inaspettatamente triste.

 

<< Dunque…egli ti ha mandato a morire, non è così? >>

 

Non me ne sorpresi affatto; era quel pensiero che si affacciava alla mia mente, senza poter essere afferrato, era il presagio che pervadeva le mie narici. A soli ventiquattro anni per me sarebbero suonate le campane. Ed era senza dubbio ciò che desideravo.

Mi lasciai ricadere all’indietro desistendo dal trattenere il velenoso miasma dei miei pensieri, ma delle braccia forti e sottili mi sostennero, impedendomi di sentire l’impatto con il pavimento freddo. Il mio cuore diede un colpo secco mentre uno soffio d'aria gelata percorreva la mia carne e le mie ossa, poi prese a rallentare, lo sentivo battere nei timpani come una melodia dolce e nostalgica. Doveva essere un requiem. I suoi denti avevano penetrato la mia carne, beveva il mio sangue con bramosia; per un istante mi sentii a lui indispensabile più dell’aria, per la prima volta come con nessun altro. Ascoltavo le forze, la vita abbandonarmi. Scorrevano lontano. Il corpo era sempre più pesante e la mente più offuscata.

Si staccò da me ansimando, volgeva lo sguardo altrove come se stesse facendo violenza a se stesso. Il sangue denso e scuro macchiava le sue labbra e provai l’irrefrenabile desiderio di baciarle, ma le forze non me lo consentirono. Si squarciò un polso con le unghie lucide e lasciò che l’essenza vitale scorresse alla mia bocca.

Di nuovo pensai con forza ad Abel; sarei riuscito a dirgli addio?

Il mio orgoglio non aveva più alcuna importanza, esso se ne andava con me.

Un qualunque sciamano avrebbe potuto sentirmi allo stato spirituale ed egli era il migliore, era riuscito persino a percepire i lamenti dei corpi che io controllavo – alla fine di tutto mi sono fatto questo appunto: devo dare più importanza ai particolari -.

 

<< Io sarò il tuo servo, non permetterò che tu muoia, ma vendicami! >>

 

Il vampiro continuava a sorreggermi e rimasi nella sala una notte intera. Furono le mie prime vere tenebre: morte e risurrezione.

Per buona sorte le mie capacità di stregone fecero sì che potessi preservare entrambe le nature; tenendo saldo il mio corpo attraverso l’unione delle arti di possessione integrale e di negromanzia avrei potuto continuare ad essere “vivo” il giorno e non-morto durante le ore notturne. Ciononostante dovetti convenire con Aspes – questo era il nome del serpente che mi tentò – sul fatto che prima possibile avrei dovuto nutrirmi. Tanto che decisi di vendicarci entrambi, non appena la porta fosse stata riaperta.

Fui svegliato di colpo dalle urla esasperate di mio padre. Il mio nuovo consigliere era chiuso nella bara. La serratura scattò come avesse avuto vita propria e la luce entrò feroce nella sala, bruciando i miei occhi. Accecato percepivo violento il calore, l’odore e lo scorrere del sangue. Prima di poter formulare un pensiero balzai verso colui che sprovveduto si stagliava nella luce del mattino.

Si dice che il destino abbia il senso dell’umorismo, se è così, deve essere inglese.

Sentii mio padre gridare. Gli occhi serrati mi dolevano, ma la carne tiepida e il sapore del sangue stavano riordinando rapidi il caos della mia mente, mentre il mio corpo era sempre più forte. Mi trovavo preda di un piacere immenso, superiore a qualunque altro mai provato; per la prima volta avvertivo come miei i ricordi, i pensieri di un altro individuo. La paura che registravo era quieta, silenziosa, quasi ch’egli sapesse ciò che lo aspettava e non avesse quindi motivo di temere il suo carnefice. Benché il suo cuore fosse oramai a malapena udibile non provava né odio, né rabbia, anzi era come se una sottile e acuta nota di senso di colpa risuonasse dal profondo del suo spirito. D’improvviso me ne resi conto: non poteva essere mio padre.

Spalancai gli occhi del tutto ristabiliti e lo vidi; sorrideva.

Urlai.

Urlai sino a restare senza parola, mentre lacrime scarlatte colavano dai miei occhi, imbrattando la sua pelle candida. Abel sorrideva indulgente come al nostro primo incontro, sollevò a fatica una mano a sfiorare il mio volto. D’impulso la sostenni poggiata alla mia pelle; era così fredda.

 

<< Temo che mi mancherai >>

 

La mia mente vacillò e cadde, frantumandosi in cocci come un vaso rotto.

Volse il capo a nostro padre, che sbraitando agli altri di correre a salvarlo, allarmato si agitava sulla soglia, spostandosi freneticamente nel corridoio, per poi rientrare.

 

<< Padre, promettetemi che non lo ucciderete >>

 

Scese il silenzio, totale e immobile.

Egli chiuse gli occhi ed il suo petto si fermò.

 

Costretto a rimanere in un mondo assolutamente privo di senso, sentii mio padre sbraitare che ero sempre stato un mostro, che meritavo un castigo peggiore della morte.

Mi urlava che Abel era venuto per proteggermi.

Compresi solo allora che mio fratello, per potermi sottrarre alla morte, nonostante il mio comportamento immeritevole aveva tradito l’intera famiglia ed era giunto a sottomettere persino James. Era stato ormai troppo tardi per entrambi. Di qualunque tipo fosse il mio rancore nei suoi confronti me ne dimenticai all’istante, tuttora non riesco a precisarlo.

Non opposi alcuna resistenza alla pena che fu decisa. Presi il posto di Aspes, prigioniero della torre e tenuto in vita da cinquecento anni a seguito di un crimine del quale non v’era più alcuna memoria. È sorprendente come un simile trattamento possa influire sul carattere. Ma non potevo sapere fino a che punto il mio gesto, oltre ad aver distrutto buona parte del mio cuore, avesse intaccato la fierezza di James Von Roe. Costretto a rispettare l’ultima volontà di Abel, vincolò la sala ad un sortilegio che ripetesse senza sosta la tragedia a tutti i sensi di coloro che la visitavano, dopodichè mi rinchiuse al suo interno; senza cibo, né acqua, né sangue. Un essere umano sarebbe resistito forse per cinquanta giorni, tuttavia nemmeno un negromante, mezzo vampiro, avrebbe potuto resistere più di un secolo senza cedere la presa sul corpo. La condanna era di settecento anni.

 

 

Referto n°3

 

Glen Von Roe, l’ultimo erede

 

Glen Abel Von Roe nacque, il 27 Aprile 1982, a Swansea nella contea di West Glamorgan nel Galles meridionale e fu presumibilmente assassinato a Shrewsbury nella contea di Shropshire. I suoi genitori sono stati Helen e Stuart Von Roe. Appartenenti alla casata cadetta della famiglia, in seguito alla disgregazione si erano trasferiti, sposandosi e dando alla luce Glen. Helen era famosa in tutto il Galles per le sue capacità terapeutiche, che si rifacevano ad antiche tradizioni magiche. Il secondo nome del figlio volle essere un tributo al defunto Abel Von Roe erede legittimo dell’ultimo capofamiglia, morto misteriosamente a soli 23 anni. Glen rifiutava il suo primo nome, affermava altresì di essere finalmente tornato al posto che aveva lasciato vacante con la sua prima morte, il 31 Ottobre 1841, e che non appena l’occasione si fosse presentata sarebbe tornato a compiere ciò che per ben due volte aveva fallito. Lasciata la famiglia, che mantenendo le tradizioni dell’antica discendenza lo aveva istruito alle pratiche occulte - trovando in lui un degno erede -, giunse sino alla vecchia dimora dei Von Roe, dove, il 14 Maggio 2004, ebbe luogo la sua inspiegabile scomparsa. Nemmeno dei genitori si ha più alcuna notizia; la polizia inglese sta valutando l’ipotesi dell’omicidio-suicidio.

In conclusione avrei dovuto immaginare che grazie alle sue facoltà sciamaniche egli fosse in grado di riconoscere la voce di un non-morto. 

 

 


 

Ultimo CANTO

 

Se la bella addormentata divora i principi…

 

Da un tempo senza principio si ripeteva davanti ai miei occhi la stessa scena. Ogni notte ed ogni giorno che mai filtrava la ristagnante oscurità della torre, quella era l’unica cosa che mi era concesso vedere. Percepivo come lontana la presenza corporea che era solita risvegliare in me quel violento desiderio di carne e sangue, col quale avevo ormai imparato a convivere e non riuscivo a spiegarmene la ragione; la certezza che intorno a me non si trovasse altro che morte si insinuava sempre più a fondo nel mio animo. Non c’era altro che freddo e buio, un’aria malsana, umida, un forte odore di muschio e il fetore della mia natura umana che marciva. Nel silenzio si susseguiva soltanto il ticchettio regolare dell’acqua sulla pietra e sulla mia martoriata mano destra, bloccata come il resto del corpo dal pesante groviglio di catene, ammonimento senza fine per aver abbandonato la mano di Dio. Avevo fame; una fame rubino come il sangue, che in nessun caso bagnava le mie labbra aride, ma che in ogni caso non era abbastanza per concedermi il riposo eterno. Nulla sarebbe stato sufficiente per quello, poiché la mia condizione era senza dubbio la pena più giusta per la mia colpa irrimediabile.

Coglievo dei suoni giungere dall’esterno. Riconobbi il vento delicato. Immaginavo nella primavera lucente il glicine odoroso spargere i suoi petali chiari, nutrendomi di una visione impalpabile, ma di nuovo come ogni giorno, ora, istante udivo dei passi pesanti e ansiosi, dolcemente crudeli nel loro avvicinarsi all’incubo.

All’improvviso fui del tutto cieco, una cecità bianca e luminosa mi bruciava gli occhi e la pelle, le mie membra furono libere e ingovernabili nel loro istinto. Cullai la speranza di aver perso il senno. Eppure ancora si rispecchiava sulle mie pupille doloranti, lenta, concentrata, travolgente, scorreva e si avvicinava precisa, la perpetuazione del mio crimine più grande. Sentii replicarsi in me la smania della prima notte. Ringhi, silenzio, zanne, gemiti, laceravo la carne e assaporavo la potenza dell’uomo, creatore della distruzione. 

L’ebbrezza si era impossessata di me; il sangue carico mi riempiva la bocca e le vene pulsavano violente e il cuore mi picchiava nei timpani. Compresi a stento che questa volta era reale, qualche stolto della famiglia doveva avermi liberato senza conoscere ciò a cui andava incontro, forse nutrendo la speranza di scoprire un qualche tesoro aveva invece trovato l’abbraccio della morte. La sua insignificante esistenza, i suoi ricordi si affacciarono alla mia mente frastornata, fluivano inattesi e veloci come il sangue. Attimo dopo attimo risanavo da ogni dolore, mi liberavo di ogni imperfezione. Man mano che il mio corpo rinvigoriva era il suo terrore ad incrementare, temeva terribilmente la morte. Eppure si trattava di un sentimento singolare; era una paura stanca, come quella di dover ricominciare da capo qualcosa di molto importante. Né odio, né pena affioravano dalla sua mente indebolita, ma saldo, inamovibile vi era il perdono.

In preda alla frenesia non riuscii a riflettere, né a vedere finché non placai la mia sete. Solo allora fui in grado di osservare colui che boccheggiava sotto di me: il pallore della morte avvolgeva già il suo volto come il trucco di una dama, le labbra violacee come un petalo posato sul filo dell’acqua tracciavano un sorriso mesto, mentre ciocche dorate intrecciavano, portandola alle mie narici, una dolce essenza. Ondeggiava il suo petto al ritmico dilatarsi del respiro che andava spegnendosi.  

 

- Abel -

 

Soltanto questo riuscii a sussurrare. Era un ragazzo giovane dai capelli corti e gli occhi chiari. Non era lo stesso Abel, era diverso, non aveva quei dolci e pericolosi lineamenti di bambola.

Eppure era senza dubbio lui.

Un espressione seccata gli si dipinse sul volto esangue. Riuscì a mormorare qualche parola asprigna, raccogliendo tutte le forze rimastegli, per poi affidarsi completamente al mio abbraccio.

 

<< Dopo centosessatré anni potresti anche dire qualcosa di più >>

 

Mi chinai sul suo volto posandovi un bacio delicato e sussurrandogli all’orecchio.

 

- Sarò così loquace che sentirai la mia voce anche dopo la morte -

 

Ancora, come un tempo, sorrise amorevole, lasciando ch’io mi specchiassi per un’ultima volta in quel Mare del Nord in cui avrei voluto affogare, trafitto dai mille aghi del gelo.

 

<< Grazie… >>

 

Egli stava sulla soglia, lambito dal vento dei morti, tra le braccia di colui che aveva rubato la sua vita. Ondeggiavano lievi i capelli spandendo nel buio la loro luminosità. Tante piccole lacrime ne macchiarono il pallore, una rugiada che racchiudeva crudele il tramonto, rosso come il desiderio, scivolava lenta sino al pavimento scuro. Risuonava violento e possente tra le mura l’urlo penoso e straziante del lupo ferito.

Più forte e malinconico di quanto non fosse mai stato, gli abitanti di Shrewsbury avvertirono risalire dalla campagna il lamento della sirena incantatrice.


 

Postfazione

È forse l’imprevisto a farci tornare sui propri passi?

L’abitudine, confido in lei.

per ben tre volte sono stato la causa della morte di colui che fu mio fratello Abel, per ben tre volte egli ha gettato la sua vita per salvarmi, sterminando persino la sua intera famiglia. La facoltà di assimilare i ricordi delle vittime mi ha mostrato troppo tardi la verità. Ora sono libero, ciò nonostante stabile dimoro in questa torre con il mio servo a guardia dell’entrata, rivivo la tragedia nel mio castigo senza tempo e attendo, attendo.

Sono pazzo?

Sarebbe inammissibile ch’io non lo fossi: non vi è nulla di ciò che ho fatto su cui tornerei indietro!

Come ultima cosa ringrazio quanti leggeranno questo scritto, poiché per merito loro, nonostante il mio salvatore abbia infine raggiunto la serenità, potrò compiacermi di condannarlo a non dimenticare.

Cordiali saluti,

                                                   Cain Von Roe