a)
Questa è la mia prima yaoi. Non è che stia chiedendo clemenza o cose
del genere. Chiedo solo di comprendere che ROSSO non è solo il rating della
fic ma anche il colore della mia faccia mentre mi accingo a postare, ed è
stato quello che avevo addosso mentre scrivevo la maggior parte della storia.
E’ stato molto imbarazzante, ma spero ne sia valsa la pena. b) Amo
la coppia Roy/Ed e sempre l’amerò.
Prima d’ora non sono mai riuscita a scrivere un qualcosa che “elevasse” il
loro rapporto a un qualcosa di sessuale. Finalmente ce l’ho fatta, voglio
condividerlo col mondo! ^.^ c) Menzione
d’onore per Ale, la mia beta splendida e insostituibile! Io la finirei con le note
noiose e lascerei alla lettura. Vostra Imbarazzantemente
Aficionada RizafromKeron
In un giorno di pioggia di RizafromKeron
Tu dici che ami la pioggia, ma quando piove apri l’ombrello. Tu dici che ami il sole, ma quando splende cerchi l’ombra. Tu dici che ami il vento, ma quando tira chiudi la porta. Per questo ho paura quando dici che mi ami! *** Succede sempre nei giorni di pioggia. Col
ticchettio frusciante dell’acqua contro i vetri intervallato da cupi rimbombi
lontani. La luce dei lampi a sferzarci con le sue ombre violente e i bagliori
bianchissimi. A volte basta solo che il cielo
sia di un grigio scuro e uniforme. Il sesso per noi è un evento
stagionale. * Ero
finito nel suo ufficio a dare spiegazioni su un rapporto, a suo dire,
criptico. Mi
aveva accolto con l’aria saccente di un maestro di scuola, senza nemmeno
darmi il permesso di accomodarmi. Tanto
l’avevo fatto lo stesso. “Sembra
scritto da un bambino dell’asilo, e neppure troppo sveglio.” Poi aveva scosso
la testa con l’aria affranta di un dottore che sta per darti tre settimane di
vita. “Sarai anche piccolo, ma io non posso accettare questa immondizia.” Bastardo! Prima
che potessi dirgli dove poteva ficcarsi quel fottutissimo bambino dell’asilo
di cui andava cianciando (ma non uno piccolo!), mi aveva gettato addosso in
malo modo i fogli, dopo avermeli strappati davanti al naso con una smorfia
schifata. Con
tutto il tempo che avevo impiegato per redigerli… Un
quarto d’ora scarso, ma decisamente intenso. Sadico figlio di puttana! Avrei
dovuto riscriverlo lì davanti a lui. Poi
aveva preteso che gli raccontassi tutto a voce. Il
mio sospetto è che quel mangiastipendio a sbafo non l’avesse nemmeno letto,
il mio rapporto, e volesse solo risparmiarsi la fatica. Non era la prima
volta che succedeva. C’ero abituato e l’avevo presa con molta più filosofia
di quanto avrei dovuto. Non
c’era nemmeno Al a trattenermi dal mollargli un pugno, quella volta, e non
avevo voglia di finire nei guai per aver alzato le mani su un superiore.
Perché se in strategia mi batteva di almeno tre lunghezze, fisicamente ero io
il più forte. Mi
ero buttato sul divano e gli avevo sciorinato la tiritera. Lui
si limitava ad annuire distratto e ad esibirsi in mugugni d’assenso, chinando
la testa su certe carte che sicuramente gli erano state consegnate quella
mattina e che lui aveva deciso di svolgere solo all’ultimo minuto. Aveva
l’aria dell’attore consumato impegnato nel ruolo di punta: Ufficiale dell’esercito che si occupa di
documenti importanti. A
tratti guardava il cielo. * Con la pioggia non ha mai molto da fare a parte il
solito lavoro di scartoffie. Il Tenente fa in modo di non
sovraccaricarlo, perchè diventa apatico. Evita persino di bighellonare
per la città, in quei giorni. I temporali lo fanno sentire
inutile. E
questo lo rende felice, in un modo strano e malinconico tutto suo, che a me
non è mai interessato comprendere. Perché in fondo non c’è proprio niente da
capire. Roy Mustang è matto, e basti questo. Tutte
le volte in cui gli dico che per me è inutile anche con un sole che spacca le
pietre quasi si commuove. * Quando
mi ero accorto che quell’aria distratta e affranta era segno che il
Colonnello non stava ascoltando una parola di quello che dicevo, avevo
cominciato a inventare. La mia missione si era trasformata in un groviglio di
frasi disarmoniche: spaziavano dalla lista delle commissioni che mi aveva
dato Al nell’ingenua convinzione che le avrei fatte, a fantasiosi insulti
verso la sua persona. Non
c’era un motivo preciso per gli improperi. Era
divertente vederlo annuire svagato alle gocce d’acqua mentre gli davo della
merda cercando di apparire il più compito e professionale possibile. Avevo
persino assunto una postura educata e rispettosa, da soldato ammodo. Non
ci andai leggero ma non mi sentivo in colpa. Era
lui che si era distratto. Colpa
sua. Clic. Swish. Frush. “Tutto a posto Colonnello?” Clic. * Non viene mai da me. Neanche
quando sono solo. Forse
crede che sarebbe troppo strano. A
me non interessa, non sono una ragazza. A
volte mi fa chiamare dal Tenente Hawkeye. Più
spesso mi telefona da casa sua. Non
ho nemmeno l’accortezza di prendere un ombrello prima di gettarmi a capo
chino lungo le strade zuppe. E
corro. Perché
non c’è mai tempo. Perché
i temporali sono sempre troppo brevi. Quando
busso o mi faccio annunciare, prima di farmi passare ci tiene a chiarire
attraverso la porta che mi ha fatto venire solo per controllare dei
documenti, o per farsi aiutare con delle ricerche. A
volte si sente nostalgico. E
allora il mio resoconto non lo soddisfa. Lo
dice a voce alta, sostenuta, di modo che tutti sentano. Peccato
che siano sempre orari in cui l’ufficio è semi-deserto, se non fosse per
l’immancabile, riservata presenza del Tenente Hawkeye, o momenti in cui per
le strade girano solo ubriaconi e coppiette. Tipologie umane il cui ultimo pensiero
è preoccuparsi di un ufficiale che fa entrare in casa un ragazzino. Da
lui è un rifugio e una prigione. Non
si entra senza permesso. * Quel
giorno, tra le altre cose, avevo scoperto il motivo per cui il Colonnello
riusciva sempre a sapere che ore fossero senza aver mai bisogno di ricorrere
al suo orologio, andando ad affossare tutte le mie precedenti ipotesi su metodi
campagnoli legati alla lettura dei fondi di caffé, alle macchie d’inchiostro o
a precise abitudini intestinali. La sua
vita lavorativa era scandita dai controlli. Ne
avevo contati ogni quarto d’ora. Cronometrati. Clic. Gira
la maniglia. Swish. Si apre la porta. Frush. Il fruscio di una chioma bionda. “Tutto
a posto Colonnello?” Poi di nuovo Clic. Al
secondo controllo, tra una chiacchiera e l’altra, sapevo di aver sprecato
quindici minuti davanti a un foglio inesorabilmente bianco. E avevo la
sensazione che molti altri ne sarebbero seguiti. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
terzo mi ero reso conto che così si poteva anche impazzire. Una
volta esauriti gli argomenti, quando persino quella soddisfacente sequela di
improperi si era fatta vacua di fronte all’indifferenza dell’altro, ero
rimasto sul quel divano a chiedermi se non avrei dovuto raccontargli dei
rapporti conflittuali con mio padre. Mi era rimasto solo quello da dire,
ormai. Optai per il silenzio. In
attesa d’ispirazione. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
quarto mi ero stancato di starmene seduto ammodo. Mi ero sdraiato di sbieco,
una gamba a dondolare sul bracciolo della sedia col tallone a battere
ritmicamente contro il legno, l’altra storta in malo modo sul tappeto. Le
dita dell’automail all’altezza del petto, a tendere e allentare l’elastico
dei capelli, la mano sinistra stesa all’indietro, oltre la testa, con il foglio
stretto tra le dita. Fissavo
il soffitto, annoiato, ponendomi questioni basilari sul lessico. Stronzo di un Ufficiale in Comando l’avrebbero accettato in un resoconto formale? Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
quinto mi erano venuti i crampi e il foglio si era accartocciato. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
sesto mi ero alzato per prendere un altro pezzo di carta visto che col primo
ci avevo fatto un aeroplanino, e avevo lanciato un’occhiata al Colonnello. Se
ne stava alla scrivania fingendo di fare un ottimo lavoro, annuendo
meccanicamente quando l’occasione lo richiedeva, o telefonando a qualche
ragazza. Inalava a pieni polmoni per poi esalare con calma in lunghi sospiri,
il che avrebbe dovuto indurmi a pensare che il lavorio mentale di quell’uomo
era così intenso da arrivare a stancarlo fisicamente, e che quindi non avrei
dovuto rappresentare per lui un ulteriore motivo di stress. Però
credo che avrebbe funzionato in maniera più efficace se non avesse passato
l’ultima ora e mezza sulla stessa pagina. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
settimo controllo avevo pensato di potermela filare di nascosto e di far
scrivere il mio rapporto ad Al per poi consegnarglielo l’indomani: ma davanti
alla porta, con le dita già strette attorno alla maniglia, mi era stato
intimato di tornare al mio posto e finire il compito che mi era stato
assegnato. Ero stato guardato con quello che, nelle intenzioni, avrebbe
dovuto essere uno sguardo di biasimo. Di
nuovo lo sgradevole sospetto d’essere tornato a scuola, a Resembool. Avevo
lanciato un’occhiata disgustata al divano di finta pelle. Sul
cuscino c’era ancora il segno delle mie chiappe. E
un foglio su cui svettava una sola frase: Mi manderà a casa prima o poi? Avevo
scosso la testa. E
avevo obbedito. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. All’ottavo
non potevo più fare a meno dei controlli. Erano
il nostro metronomo, il polso, il battito del nostro cuore. Allo
scattare del quindicesimo minuto il clic metallico della maniglia, e la testa
del Tenente Hawkeye faceva capolino dalla porta non più per assicurarsi che
il suo superiore svolgesse i compiti assegnatigli, o che io non lo
distraessi, ma per distillare il tempo. Il
secondo foglio era diventato una barchetta. Clic. Swish. Frush. “Tutto
a posto Colonnello?” Clic. Al
nono avevo messo da parte le astruserie e mi ero convinto che tanta solerzia
fosse semplicemente dovuta ad una paura tutta femminile: il Tenente temeva
che ci fosse una giovane e avvenente segretaria nascosta nell’armadio, pronta
a compiere col Colonnello, tra un timbro e una firma, turpitudini
inenarrabili di fronte all’innocente Alchimista d’Acciaio. A
quel punto mi aveva solleticato un pensiero. “Avrà
mai fatto sesso in ufficio?” L’avevo
borbottato piano. Rivolto
a me stesso. “No,
mai.” Clic. Swish. Frush. Thud! Al
decimo controllo, messo di fronte alla rivelazione che Mustang aveva sentito
ogni parola di quanto avevo detto fino a quel momento, ero caduto dal divano
sbattendo il sedere ed ero impallidito come uno straccio da cesso. O
una pagina bianca. * Entro sempre nella stanza chinando appena la testa
nella parodia di un saluto formale, o sollevando il braccio in un originale ibrido
tra un saluto militare e un gesto scortese, se l’umore è adatto. Quando
gli passo accanto guardo dritto avanti a me, lasciandomi alle spalle una scia
acquitrinosa d’acqua gelida. Niente
confidenze con la porta aperta. E
anche quando è chiusa, andiamoci molto cauti! Lui
resta sulla soglia e mi osserva in silenzio. Con
la spalla premuta contro l’uscio. I
miei sono gesti meccanici. Sempre
gli stessi. Avanzo
di pochi passi. Lascio scivolare dalle spalle il cappotto per poi calciarlo
stizzito ai piedi dell’attaccapanni in un mucchio confuso. Non
sopporto il tessuto appiccicoso. Seguono
guanti e maglietta. Non
i pantaloni, anche se me ne libererei volentieri, perchè il Colonnello sembra
a disagio con la nudità maschile. Strizzo
la treccia tra i pugni per spremermi di dosso l’acqua in eccesso. Mi
asciugo in fretta le mani sui calzoni fradici senza risolvere granché per poi
passarle sullo schienale di un divano, un tendaggio o, se il Colonnello è
abbastanza pronto di riflessi, uno straccio. Poi
strofino gli stivali luridi per terra. Ogni
volta mi assicuro di finire in una pozzanghera, sulla strada. E,
da bravo Cane dell’Esercito, gli lascio sempre un ricordino sul tappeto. * Di
colpo la situazione non mi era piaciuta affatto. Per
la prima volta da quando ero entrato in quell’ufficio, Mustang era di
buonumore. Aveva disteso il volto, assunto un’aria da guitto, e si era
concesso uno di quei sorrisi languidi che riserva alle donne. Compresa
Winry, che fa specie a sé. E
come se non bastasse dovevo ancora fare il mio rapporto. Vaniva
voglia di trottargli alle caviglie e supplicarlo di lasciarmi andare a casa.
Se fosse servito avrei persino potuto dirgli quanto ero mortificato di aver
detto quelle frasi. Assicurarlo che non sarebbe accaduto mai più, e che
domani all’alba mi avrebbe trovato al cancello con la busta stretta tra i
denti. Ma,
andiamo, non era così idiota da cascarci. Al
massimo avrei potuto scusarmi per essermi fatto sentire. Avevo
cercato di distrarlo nell’unico modo che mi era venuto in mente. Dando
vita a un dialogo illogico. “Credo
sia possibile fare sesso qui dentro eludendo la sorveglianza del Tenente.” Il
Colonnello Mustang aveva sbuffato scettico, aggrottando la fronte. La mia
affermazione sembrava infastidirlo. “E’
possibile, le dico.”, avevo insistito. Lui
si era accigliato ancora. “Che
puoi saperne tu?” Niente,
ovvio! I
miei tentativi riguardo al sesso si erano fermati a goffe fantasie con la
bibliotecaria del turno di mattina della Prima Sezione: una quarantenne
sgradevole con le caviglie gonfie e gli occhiali grossi quasi quanto il culo. Di
affascinante aveva solo l’accesso a certi volumi malagevoli su cui mi sarebbe
piaciuto tanto mettere le mani, e quando mi rifiutava una consultazione gli
ormoni adolescenziali si mettevano in moto e io cominciavo a pensare che
avrei fatto qualsiasi cosa per
ottenere quei libri da lei. Nell’immaginazione
era lei a trascinarmi dietro uno scaffale per costringermi a farle di tutto, e
finiva con un pompino straordinario. Nella realtà mi odiava e non mi avrebbe
fatto nemmeno consultare un dizionario. Ma
a Mustang quello non l’avrei mai confessato. “Io
ce la farei.” “Oh,
ne sono convinto.” Il
suo non mi era sembrato affatto un complimento. Invaso
da un’ondata improvvisa di irritazione avevo stretto i pugni, ficcandomi le
unghie nella carne fino a sentire dolore. La mano d’acciaio aveva prodotto
uno stridio acuto. Soddisfatto, avevo forzato il viso in una smorfia piacevole. “Quindici
minuti sarebbero sufficienti anche per lei.”, avevo insinuato afferrando il
mio cappotto. Ora il mio unico pensiero era decidere se mi sarebbe convenuto
sollevare il cappuccio della giacca girando sotto la pioggia come un
coglione, o piuttosto fare una corsa fino a casa per prendermi l’immancabile
predicozzo di Al sulle mie insalubri abitudini. “Ma vedo che la conversazione
non è di suo gradimento, quindi se non c’è altro me ne andrei”. Lui
aveva ridacchiato scuotendo la testa. “Non
uscirai di qui finché non mi avrai consegnato il tuo rapporto.” Maledizione! Ma
non avevo intenzione di arrendermi. Avrei
fatto qualsiasi cosa per non dargli quella soddisfazione. Mi
ero avvicinato alla sua scrivania e vi avevo poggiato sopra i gomiti,
chinandomi in avanti con aria complice. Mi ero guardato intorno con
circospezione, come sul punto di rivelargli il segreto della Pietra
Filosofale: poi avevo piegato la nuca di lato ghignando con aria subdola. Normalmente
parole e gesti fluiscono in un corso tranquillo e ordinato dal cervello al
corpo. C’è tutto il tempo di prendere azioni e vocaboli e analizzarli uno per
uno, per controllare che abbiano un senso, prima di distribuirli tra il
palato e il corpo. Si
prevede se questo causerà un plauso o un rimprovero. Ci
si regola di conseguenza. Poi
ci sono i momenti irrazionali. Quelli
di cui non si ha voce in capitolo. E
non sai come va a finire finché non vi si assiste. “Perché
invece non facciamo una scommessa, Colonnello?” Sollevandomi
sulle punte dei piedi, mi ero allungato per baciarlo. Non mi aveva fermato. Ma si era rifiutato di
ricambiare il mio gesto. A
dispetto della sorpresa aveva avuto la prontezza di mente di scostare la
testa di lato all’ultimo secondo. Solo un po’, questione di centimetri, ma
più che sufficienti a permettermi soltanto di premergli le labbra contro lo
spigolo della bocca. Questo
rendeva quel bacio poco più di un saluto tra amici. Teneva
serrata la mascella in una linea dura, tesa. Le
mani, aperte sul ripiano, tremavano appena. Non
c’era nulla di erotico. Mi
divertiva. Leccare
la pelle ruvida e salata, premergli il naso contro le guance in modo
innocente. Mi piaceva il contrasto con le mie, vergognosamente glabre.
Sentivo i muscoli tendersi, sobbalzare piacevolmente al mio tocco. Di tanto
in tanto, tra uno schiocco e l’altro, alzavo lo sguardo per osservare sotto
palpebre serrate a forza le pupille fuggevoli e impazzite. Guardava ovunque
tranne che il sottoscritto. E
io avevo sorriso. Nella
mia ingenuità mi era sembrata una cosa carina. Con
un ultimo bacio avevo poggiato la fronte nell’incavo del collo e avevo
sospirato contro la sua pelle inalandone a fondo l’odore. Inaspettatamente
piacevole. “Il
Tenente è là fuori e tra un minuto esatto entrerà in questa stanza a fare il
suo controllo di routine.” Avevo snocciolato la mia ovvietà lanciando
un’occhiata da sopra la spalla in direzione della porta. Lui aveva taciuto,
senza capire. “Se riusciamo a non farci scoprire nei quindici minuti che
abbiamo avrò vinto, e me ne andrò senza scrivere il suo stupido rapporto.” “Se
ci scoprisse ti caccerebbe e non lo scriveresti comunque.” La
sua voce vibrava piacevole contro la fronte. “E’
vero…”, convenni compiaciuto, mentre la mano saliva a tirargli all’indietro
una ciocca di capelli che mi infastidiva. “Ma anche se non accetta, tra poco
il Tenente ci troverà in una posizione equivoca, e sarà molto spiacevole per
entrambi.” Le mie labbra gli avevano lambito l’orecchio, strappandogli un
brivido. Poi
ero scivolato piano giù dal tavolo, avevo sorriso, e gli avevo porto un
foglio che mi era rimasto attaccato alla maglia. Lui
non l’aveva accettato. “Non
ha mica scelta.” Ma
lo sapeva già. Clic. * Quando lo osservo incontro
sempre la faccia di un animale in trappola. Viso
smunto, capelli scomposti, occhiaie profonde. Uno
sguardo abbattuto, a tratti abulico. Sono
momenti in cui lo ucciderei. La
porta si chiude, io scatto. E’ istintivo. Copro
la distanza che ci separa a grandi passi pesanti, rabbiosi, per sublimare la
voglia che ho di prenderlo a calci. Gli
artiglio i vestiti e lo costringo ad abbassare quella schiena che si ostina a
tenere piegata all’indietro: forzo brutalmente i muscoli tesi allo spasmo
quando vorrei solo conficcargli le dita nella pelle, penetrargli l’acciaio nelle
ossa e farlo gridare di dolore. Perché tutti sentano. Lo
bacio fino a farmi male. Soffoco
gli insulti nella sua bocca. Me
lo stringo contro ed è già pieno di desiderio. Quando
lo mordo e lo pizzico trattiene a stento i gemiti. Ma
proprio non riesce a nasconderlo, quel cazzo di disappunto. Non
ci vuole un genio per rendersi conto che trova disgustosa la sola idea di
trovarsi tra i piedi un ragazzino sboccato e rozzo dalle voglie irruente. Che
preferirebbe mille volte avere accanto una bella donna con gli occhi grandi e
scuri: una signorina esile, timida e delicata, con lunghe ciglia e labbra
piene, che sorseggi vino e si tormenti deliziosamente ciocche sottili di
capelli. Sono
sempre così le sue conquiste. Le
sfoggia sotto il sole, belle e brillanti come gioielli. Ridono
alle sue battute e accavallano le lunghe gambe. Però
è me che cerca nei giorni di pioggia. Mi vuole. Forse
più di quanto io non voglia lui. Ma
ha un modo insopportabile di negare l’ovvio. Non
è molto lusinghiero, mi fa incazzare, ma un po’ lo capisco. Non
c’è insulto peggiore dell’essere frocio, per un uomo che non vuole esserlo. * Non
avevo avuto un motivo preciso per mettere alle strette a quel modo il
Colonnello. A
scrivere quel ridicolo rapporto non avrei impiegato più di dieci minuti. Mezz’ora,
se proprio avessi voluto fare un ottimo lavoro. Tergiversare
mi aveva portato via più di due ore. Non
avevo avuto il desiderio di vederlo sbiancare a quel modo nel momento in cui
il Tenente aveva fatto capolino dalla porta e ci aveva trovati innocentemente
l’uno di fronte all’altro, separati da una grossa scrivania. La scena le
doveva essere apparsa comunque un po’ strana, perché aveva accantonato per un
istante la proverbiale flemma e si era concessa un’alzata di sopracciglio,
indugiando sulla porta un secondo più di quanto non avesse fatto in tutte le
visite precedenti. Mi
era dispiaciuto vederlo così. Il
mio non fu un dispetto. Quando
la porta si era richiusa non ero corso a inginocchiarmi subito tra le sue
gambe per desiderio o passione. Gli avevo posato le mani sulle cosce e
l’avevo guardato negli occhi, sospirando. Ma
non lo amavo. Nemmeno
mi interessava. Al
diavolo anche quella stupida scommessa! Volevo
solo baciarlo, perché la prima volta era stato bello. Gli
avevo afferrato il davanti della giacca, tirandolo verso di me. “Abbiamo
poco tempo, facciamo in fretta.” Lui
mi aveva afferrato i polsi. Me
li carezzava, nervoso. “Non
possiamo.” “Sì
invece.” “No.” Mi
aveva stancato. La
sua indecisione era ridicola. Avevamo
poco tempo e lui lo sprecava così. Forse
per lui i baci, semplicemente, non erano abbastanza. Allora
mi ero fatto mollare le mani con uno strattone stizzito che l’aveva lasciato
confuso, e ne avevo approfittato per aprirgli la cintura e sbottonargli i
pantaloni, intervallando la manovra con sporadiche imprecazioni. Ci
stavo mettendo troppo tempo. E
non ne avevo. La
cintura era un aggeggio infernale. Quegli stupidi bottoni erano troppo
piccoli e continuavano a scivolarmi dalle dita d’acciaio. Il desiderio
accresceva il nervosismo, e non mi aiutava neppure quella fitta penombra, o
il dolore al ginocchio costretto sul pavimento. Ma il
Colonnello era ansioso e arrendevole tra le mie mani. Il suo
respiro ricordava lo scrosciare della pioggia. Avevo
lasciato da parte le idiozie che mi affollavano il cervello, preferendo
concentrarmi sulle questioni pratiche. Avevo scostato gli strati di tessuto:
oltre giacca, camicia, pantaloni e slip, alla ricerca del suo sesso. Lo
trovai, grande ed eretto. Era
più eccitato di me. Avevo
allungato entrambe le mani per prenderlo. Al
contatto con quella d’acciaio aveva rabbrividito da capo a piedi. Poi
i polpastrelli avevano sfiorato leggeri, quasi senza toccare, la pelle
bollente, ed ero stato io a sussultare in preda ad un’ansia improvvisa. Non
ho mai stretto a me molte persone. Pochissime
l’hanno fatto con me. Gli
abbracci dicono troppo. Più
dei baci, o del rapporto fisico. E’
un momento intimo di una bellezza agghiacciante. La
prima volta che si stringe tra le braccia un corpo nuovo, questo smette di
essere un fascio vibrante di muscoli e sangue pulsante: c’è quell’istante
rivelatore, quell’improvvisa meraviglia in cui si chiudono gli occhi e
nell’intervallo di un sospiro la mente ripassa tutti quelli che si sono
abbracciati in precedenza. Cataloga
resistenze, palpiti, sensazioni. Le collaziona. Quasi
mai è bello come l’ultimo. Ci
si sente talmente vicini all’altro che viene voglia di scappare. La
prima cosa del Colonnello Mustang che avevo stretto tra le mie mani non era
stato il suo corpo fremente in un abbraccio, ma il suo sesso teso e tremante. Prima
di cambiare idea mi ero chinato su di lui e gliel’avevo preso in bocca, cominciando
a succhiare piano la punta, diffidente. Non era certo il sogno della mia vita
fare un pompino al mio superiore, ma non era poi troppo spiacevole. Saggiavo
ogni minima reazione. “No…” Gemeva
senza scostarmi. “No…” Nemmeno
mi toccava. “No…” Lo
ripeteva, ancora e ancora, come un mantra. La nuca piegata all’indietro,
lasciva, e la lingua stretta forte tra i denti a soffocare i gemiti tra un
diniego e l’altro. Conficcava a fondo le dita nei braccioli della sedia, a
far leva al bacino, e veniva incontro alla mia bocca tentando di penetrarmi
più a fondo. Inesorabili e lente, spinta dopo spinta, le sue remore lo
stavano abbandonando. “Sì…” * Il Colonnello Roy
Mustang è una delle persone più pigre che esistano al mondo. L’assoluta
indolenza che domina ogni suo agire gli impedisce di muovere un dito per
opporsi all’ammucchiarsi di scartoffie sulla scrivania, o all’avanzata del
disordine nella sua casa, a meno che non abbia la pistola del Tenente Hawkeye
puntata alla tempia. Le leggende, qui a Central, narrano che il Colonnello
Mustang rimanga in un appartamento finché non è troppo sporco per viverci, e
a quel punto si trasferisce. E’ come se ritenesse il caos un qualcosa dovuto
a un’invincibile forza del destino. Un
impulso che non si può far altro che subire. E’
pigro al punto che sono sempre io a salirgli sopra per scopare. “Questa
volta lascio fare a te, Acciaio.”, dice con un sospiro affranto, come fosse
dispiaciuto di non farcela. Come se le altre volte ti ammazzassi di fatica,
inutile e ozioso individuo! “Tu
sei giovane.” Ignora
il mio sguardo tutt’altro che lusingato a quell’ovvietà e si butta stancamente
sulla prima superficie confacente ai suoi bisogni che gli capita a tiro, con
le gambe che ancora tremano per il mio primo assalto: un letto, o un divano.
No a pavimenti e tappeti, per via della sua “povera schiena”… In
ufficio, a meno che la stanchezza non raggiunga livelli di guardia allarmanti,
predilige la sedia della sua scrivania. Secondo
lui è più sicura perché la gente si aspetta di trovarlo lì quando entra. Peccato
che non si aspetterebbe di trovargli me in braccio. E anche se fossi
accovacciato tra le sue gambe, è certo che non offrirebbe un gran riparo se
qualcuno avesse la grande idea di entrare in un momento poco simpatico. Ma
se sistemarsi là lo fa stare più tranquillo, lo rilassa e gli evita
tachicardie, chi sono io per impedirglielo? Mustang
affonda le spalle contro la poltrona del salotto, un piede riverso malamente
a terra, l’altro poggiato sul basso tavolinetto, a poca distanza
dall’immancabile, ironica cuccuma di caffé fumante. Puntella i gomiti sui
braccioli e piega la nuca all’indietro, chiudendo gli occhi in un sospiro
soddisfatto. Poi
tocca a me svestirlo. Mi
sembra di avere a che fare con un vecchio ubriacone. Lo
spoglio piano, quasi con la paura di svegliarlo. Un
abito alla volta, strato dopo strato. Gli
stivali cadono sul tappeto con un tonfo attutito, seguiti dalle calze. Poi
slaccio la cintura e abbasso i pantaloni. Fino
alle ginocchia. La
camicia invece gliela lascio. Aperta
fino al terzo bottone, come piace a me. Mentre
gli sollevo un po’ a fatica i fianchi per calargli i boxer, con il labbro
inferiore trattenuto tra i denti e una smorfia di attenta concentrazione ad
accartocciarmi la fronte, non posso fare a meno di chiedermi se si comporta
in questo modo anche con le donne con cui esce. La
risposta è sempre negativa. E’
una gentilezza che riserva di sicuro solo a me,. Ci
tiene troppo alle apparenze, e poi chi sopporterebbe questo peso morto? Il
pensiero che faccia sesso con altre, però, mi dà fastidio. Non
che abbia l’esclusiva, o la voglia. Ma
mi dà fastidio. Mi libero
anch’io di tutti i vestiti. Sciolgo
anche i capelli, mi preferisce così. Veloce,
con rabbia, sotto il suo sguardo scostante. * Poi
cominciò a carezzarmi i capelli. Mi
aveva afferrato piano al punto che me n’ero accorto solo dopo un po’, quando
le sue moine s’erano fatte più insistenti: lasciava scivolare i polpastrelli
nella chioma, piegando le falangi a trattenere ciocche scomposte tra le dita. Mi
sfiorava col timore innocente di una prima volta. In
un certo senso era così. Non
m’aveva mai toccato. Non
a quel modo. Non
mi si era mai avvicinato per cose che non fossero gli sfioramenti
convenzionali dei saluti, o qualche dolorosa pacca sulla schiena a seguito di
una battuta ironica di cattivo gusto. Era
strano. Non
fastidioso, non piacevole. Ma
non avevo tempo di pensarci. Non
ora che avevo preso confidenza. Non
ora che ero riuscito a strappargli dei gemiti. Li
soffocava stringendo le labbra tra i denti fino a farsi uscire il sangue. Avevo
accelerato un po’ il ritmo della bocca e delle mani, e piccoli mugugni
appagati avevano cominciato a echeggiarmi in testa scuotendomi dentro ed
elettrizzandomi come fanno i lampi col cielo, al ritmo frenetico di un cuore impazzito. E
ad ogni sospiro stringeva più forte. E
ad ogni spasmo delle falangi spingeva più a fondo coi palmi, poi mi ritraeva
all’indietro artigliando manciate di capelli fin quasi a strapparmeli dal
cranio. Io stringevo un po’ la presa dei denti sul suo sesso: glieli poggiavo
appena dietro il glande, a mo’ d’avvertimento, ma lui sembrava trovarlo solo bello. Un
brivido, e quella violenza tornava a farsi gentile blandizia. Lo
aveva fatto più volte, incapace di trattenersi. Gli
piaceva. Non
poteva negarlo. E a
me piaceva che gli piacesse. E quella
frase non aveva alcun senso grammaticale. Quei
pensieri, la situazione, il tempo e il mio stesso corpo. La
mia lingua che scendeva e saliva su di lui, e lo circondava coprendolo
d’ansia, e tornava a compiacerlo un'altra volta, le mani che lo stringevano
devote, gli sfioravano le cosce, scivolavano sotto la giacca cercando i
muscoli tesi. Gli occhi che, tra ciocche sudate, cercavano il suo viso riverso
al cielo cupo: stravolto e accartocciato da un piacere che conteneva a
fatica. Ed
era ancora bello. Non
aveva senso e basta. Persino
la sua voce si era fatta strana. Schiacciata
in un’infinità di frammenti atterriti. L’orgasmo
mi aveva colto completamente impreparato. * E’ sempre stanco. Col
sesso fiacco almeno quanto lui. Eppure
è lui a chiamarmi, a farmi abbandonare mio fratello con un pretesto stupido a
cui con ogni probabilità nemmeno crede perché non è un idiota, che ha l’unico
scopo di mettersi il cuore in pace; a interrompere le nostre ricerche; a farmi
correre come un deficiente sotto l’acqua ghiacciata, a fare lo slalom tra
pozze fangose. Dannazione,
potrebbe anche fingere un po’ di interessamento! Ha quel
sogghigno compiaciuto sulle labbra. E una
giustificazione sempre pronta. In
questo è un genio. “Devo
aver bevuto troppo.” “Ho
avuto una giornata pesante.” “Ho
paura di aver cominciato a perdere colpi. Sarà l’età.” “Il
Tenente Hawkeye oggi non mi ha lasciato in pace nemmeno un minuto.” Le
scuse sono tante, piccolo Acciaio. Scegli quella che preferisci. Risvegliarlo
è più faticoso dell’Esame per Alchimisti di Stato. E
devo farlo in fretta. Prima
che smetta di piovere Prima
che qualcuno possa aver bisogno di lui. Prima
che i mille dubbi che lo affollano prendano il sopravvento. Lo
accarezzo e lo succhio finché non si degna di comparire un’erezione
accettabile. Poi
gli salgo sopra a cavalcioni. Piano, facendo attenzione a non fargli male con
l’automail quando sistemo le ginocchia ai lati dei suoi fianchi. Ci
mancherebbe solo quella distrazione, per farmi ricominciare tutto daccapo. Credo
che potrei impazzire, in quel caso. A
prepararmi, invece, impiego poco. Basta
trovare la giusta posizione. Gli
infilo un preservativo e lo guido dentro di me trattenendo a stento una
smorfia di dolore, sostenendogli il sesso di modo che non scivoli. Perché non
riesce a fare neanche questo, il bastardo! Perché: “Potrei
farti male.” “Tu
sei più bravo di me.” “Mi
eccita vedertelo fare.” Fosse vero. “Sei
tu a conoscere meglio di chiunque altro il tuo corpo e i tuoi ritmi.” Non
mi ha mai chiesto come faccia a non aver bisogno di penetrarmi con le dita
prima di accoglierlo: non credo che se lo domandi, forse non sa nemmeno che
bisogna farlo, o più probabilmente è convinto che l’Alchimista d’Acciaio l’abbia
dato a talmente tanti uomini da potersi prendere in culo qualsiasi cosa con
la facilità con cui esegue una trasmutazione alchemica. Preferisco
passare da puttana. Lasciarlo
in quella ridicola convinzione. Perché
l’imbarazzante verità è che arrivo preparato da casa. Mi
abituo prima di uscire, chiudendomi in bagno per qualche minuto. Poggio
la fronte alla parete, forzo l’anello di muscoli spingendo piano e roteando
le dita, soffocando gemiti e sospiri in un asciugamano. Nel mio braccio
sinistro quando la fretta è tanta e ho bisogno di qualcosa di più efficace. Rischio
sempre che mi senta Alphonse. Morirei
se qualcuno lo scoprisse. Ma è
necessario. Farlo
lì vorrebbe dire perdere altro tempo. Spinta
dopo spinta, mentre scendo su di lui, sussulta e freme. Passo
le mani sul suo petto, indugiando sul rilievo dei capezzoli bruni che fanno
capolino dal tessuto bianco. Vi passo sopra i palmi in pigri vellicamenti,
poi i polpastrelli in svelte frizioni. Mi
piace sentirli duri sotto di me. Sentire
la sua eccitazione pulsarmi dentro. Avere
l’illusione che ogni fibra del suo corpo smani per me. Una
mano ruvida mi accarezza la linea della mascella e il pollice indugia sul
labbro inferiore. La lingua fa capolino dalle labbra, ne assapora la pelle.
E’ lievemente salata. Piacevole. Chiudo
gli occhi. Gusto
le sensazioni. La
tenerezza di quel momento. E’
un caldo sospiro a lambirmi il volto. “Acciaio…” Sollevo
le ciglia. Sorrido.
“Colonnello.” Niente
confidenze, è vero. Persino
nell’abbandono dell’orgasmo le nostre labbra non invocano nomi, ma titoli. Nella
stanza non ci sono mai persone. E’
meglio così. Chiamarsi
per nome è una brutta abitudine da innamorati. Una
cosa stupida da ragazzine senza cervello. Potremmo
insospettire qualcuno. Tanto
non è niente di serio. E
per me è indifferente. Le scuse sono tante, piccolo Acciaio. Scegli
quella che preferisci. * Ero
rimasto fermo. Immobile. Incredulo. Ansante. Quel
bastardo… Mi
era venuto in bocca! E adesso? L’avevo
guardato con gli occhi spalancati, atterrito. Piuttosto
sciocco da parte mia, cercare l’aiuto di un uomo che aveva appena avuto un
orgasmo. Si riprendeva dall’immane fatica riverso all’indietro sulla sua
poltrona, ansante e sudato. La bocca spalancata in un ridicolo boccheggio da
pesce, lo sguardo stralunato, i capelli appiccicati alla fronte. Del tutto
dimentico della mia presenza. Io
conservavo lo sperma sulla lingua, senza sapere che farci. Era
denso, un po’ aspro. Ingoiarlo mi disgustava. Ma
non era come se avessi molta scelta. L’alternativa
era una sola. Sputarlo. Sì,
ma dove? Mi
guardai intorno. Tappeto?
Pavimento? Certo,
grande idea. E magari dopo avrei potuto passarci un dito sopra e scrivere “Ho fatto un pompino a Roy Mustang”,
tanto per rendere più ovvia l’evidenza. Il
bricco del caffé sulla scrivania? Come
no. Col rischio che poi qualcuno lo bevesse, o che qualche addetto alle
cucine si divertisse a spettegolare coi colleghi a riguardo. Stava
cominciando a venirmi il voltastomaco. Il
cervello non voleva proprio funzionare. Metterlo
nella tasca del cappotto? Fare
una corsa al bagno? Una
pianta? Sì. Vicino
all’ingresso. Sarebbe
andata bene. Mi
ero voltato in direzione del vaso e avevo fatto per alzarmi, ma lui doveva aver
indovinato le mie intenzioni perché, senza aver ancora riacquisito la
completa padronanza di sé, mi aveva trattenuto. “Aspetta.”,
aveva ansato a fatica. “Non
sputarlo, qualcuno potrebbe accorgersene.” Mi
aveva sollevato sostenendomi la testa, passando le dita esauste sulla linea
della mascella dolorante, sulle gote piene, sulle labbra sporche e
appiccicose. Avevo emesso un guaito colpevole. Mi aveva
ricordato la mia infanzia. Quando
rubavo la marmellata e la mamma mi scopriva. Era
strano sentirsi così piccoli dopo aver fatto una cosa da adulti. L’avevo
fissato supplicante. Avevo
scosso la testa. Mi
faceva schifo. Non
potevo… “Dammelo.” E
mi baciò sulla bocca. Aprì
la sua perché gli dessi lo sperma. Allungai
la lingua dentro di lui e gli passai tutto fino all’ultima goccia, come lui
aveva appena fatto con me. L’inghiottì e mi lasciò accasciare a terra senza
forze mentre lui, ancora un po’ scosso, si richiudeva a fatica i pantaloni e
riacquisiva un aspetto accettabile per il mondo. Era
stato bello. Il
nostro primo bacio. * Devo concentrarmi un po’ prima di cominciare a muovermi. Lo
afferro per la camicia, mi sollevo, ricado su di lui. E’
piuttosto semplice a dirlo così. Meccanico. Ma
non è facile trovare il giusto ritmo. Tenere
sulle spine un uomo. Con
lui, poi, è un’arte. Se
sono troppo lento rischio di dover ricominciare tutto daccapo. Se
il piacere mi travolge e decido di muovermi in fretta mi toccherà assistere
all’amplesso più breve della storia delle umane vicende. Perché lo scopo del
Colonnello, e con me non ne ha mai fatto un mistero, è raggiungere l’orgasmo
il più in fretta possibile. Io sono, per dirla semplice, l’equivalente di una
sega da ragazzino. Neanche
lo sforzo di calarsi le mutande. Due
colpi e via. Ma
io non sono disposto ad accontentare i suoi desideri anche in questo. Farmi
usare fino a questo punto sarebbe troppo umiliante. Ad
ogni affondo la mente lavora un po’ di più. Cataloga
ogni sospiro, ogni fremito. E il
mio corpo reagisce. Il
sesso dovrebbe essere un piacevole abbandono dei pensieri. Io
non posso distrarmi neppure un istante. Con
lui poi le distrazioni sono fatali. La
nostra è una sfida continua. Un
eterno provocarsi. Mi
piace. E’
stimolante. E
mi diverte da morire. Ha
una faccia stupida che è un piacere contemplare. Gli
occhi neri, spalancati, seguono i miei movimenti con aria incredula, come se
proprio non si capacitassero della mia presenza. Come se fossi lo scherzo di
qualche sbronza da addio al celibato. Sibila
piano, a denti stretti. Dal
labbro cadono gocce di saliva. La
fronte è piegata in una smorfia sofferta. Quando
scopiamo sembra sempre sul punto di piangere, come i bambini. E
come i bambini lo prendo e me lo premo al petto. Gli
porto il viso nell’incavo della clavicola. Lo
tengo stretto per i capelli e guido le sue labbra in tenere carezze al ritmo
del mio desiderio, mentre l’altra mano, quella d’acciaio, tira forte il
tessuto ruvido della camicia e accarezza la pelle rubandogli singulti
piacevoli. La sua lingua mi assapora, i denti mordono, e premono, e lasciano
segni che dovrò giustificare a mio fratello una volta tornato a casa. “Acciaio…”,
sussurra. E’
una dolcezza insostenibile. Lo strattono
come una bambola, facendolo tacere. Poi
lo affondo in me tanto forte da ritrovare il dolore iniziale. Anche
il mio sesso, premuto contro il suo stomaco, comincia a fare male. E
allora stringo gli occhi e ingoio l’orgoglio, nell’impeto di un folle
desiderio. “Mi
tocchi, Colonnello…” Lo
imploro. Lui
ansima e tace. “Ne
ho bisogno.”, insisto. Anche
se dopo mi sentirò umiliato. Anche
se rifiuta ogni volta di accontentarmi. Dice
che gli piace da impazzire quando faccio da solo. La
verità è che è convinto che se lo facesse e lo trovasse bello, diventerebbe
un gay con certificato di garanzia. Perché
il Colonnello Mustang è un adulto, e come tale ha una morale tutta sua che
gli permette di metterlo in culo a un ragazzino e restare comunque un virile
soldato se non è lui a fare la prima mossa, e poi trema come una bambina
quando si tratta di toccare l’arnese altrui. Non
arrivo proprio a capire la logica. Se
non si traducesse nell’ennesima sega solitaria lo troverei divertente. Ma
restare lì a riflettere sull’ironia della situazione non mi farà raggiungere
il piacere a cui anelo da quando il telefono ha squillato alle prime gocce di
pioggia battere alla finestra della mia stanza d’albergo. Mi
accarezzo piano. Seguendo
il ritmo dei miei affondi. Tengo
lo sguardo fisso su di lui tutto il tempo. C’è
chi la trova una cosa molto erotica. Un
incontro d’anime e sguardi. Per
me è solo un fastidio. Preferirei
mille volte poggiare la fronte contro di lui e chiudere gli occhi
riempiendomi le narici del suo odore. E’
che Mustang cerca sempre di serrare le palpebre appena mi distraggo, per
immaginarsi assieme a qualche donna che non ha voluto rovinarsi la messa in
piega uscendo con la pioggia. Le
prime volte mi ha fregato con questo trucchetto becero. Finchè
una volta non è venuto gridando “Ednee”. Se
si azzarda a farlo ancora lo ammazzo. Niente
fantasie. Nemmeno
un pensiero fugace. Ci
sono io qui, a sopportare le sue stronzate da pigro. Non
darà il merito delle mie fatiche a qualche puttana immaginaria. Invoco
il suo nome perché non si dimentichi di me. Gli
ficco nel cranio la mia voce. Mi
tocco e lo chiamo. All’infinito. “Colonnello” Un
gemito. “Colonnello” Un
grido rabbioso. “Colonnello” Deve
sovrastare ogni cosa. I
tuoni, le paure, la pioggia leggera. Anche
il dolore che mi preme dagli occhi. Il
calore insensato che mi divampa nel ventre. Persino
lui. “Colonnello” La
parola perde senso nell’imminenza dell’orgasmo, quando il mio corpo si
arrende alle sensazioni con un ringhio cupo. E’ un piacere rabbioso e libero che
vuole solo me e non chiede l’aiuto di nessuno, una cosa che è soltanto mia. Poi
in quel momento, per la prima volta sono davvero consapevole della mia
nudità. Della schiena sudata e bollente, dei capelli disfatti, dei miei
ansiti strozzati. Mi
sento sporco e malconcio. Disgustoso. E mi
allungo verso di lui. Premo
la mia fronte contro la sua. Lo
guardo negli occhi per tutto il tempo. Basta
che mi stringa attorno al suo sesso perché venga contemporaneamente a me, e quando
vedo le palpebre appesantirsi lo schiaffeggio con la mano d’acciaio. Forte al
punto che esce sangue. Ci
sono io qui con te. Sono
io a darti piacere. Ti prego,
non lasciarmi solo. Sta
ancora piovendo, non vedi? * Il
Tenente Hawkeye era entrato a fare un altro controllo e ci aveva trovati
così. Il
Colonnello seduto alla scrivania a firmare l’ultima scartoffia. Io
seduto composto sul divano, a capo chino. Tremavo,
con le ginocchia strette al petto. Non
potevo uscire eccitato com’ero. Non
mi aveva fatto venire. Non
c’era stato tempo. Non
m’importava. Ero
felice. * “Mi piaci.” E’
un sospiro tenue che quasi si perde inascoltato. Io
sorrido appena infilandomi il cappotto. S’è
addormentato ancora. Non
so come faccia. Alla
fine il Colonnello Mustang si concede quasi sempre un breve riposo. E’ più un
pesante torpore, un chiudere gli occhi un momento. Si
appisola un poco, mai più di cinque minuti. Per
allora devo essere sparito da lì. Non
gli piace trovarmi al risveglio. E’
dura fare la fantasia proibita. Perché
è questo che sono. Un
sogno indesiderato. Entro
ed esco dalla sua vita in silenzio. Difficile,
quando si è giovani e irruenti di natura. Quasi
sempre inciampo nelle scarpe, o mi lascio dietro un guanto. Ho
poco tempo per vestirmi e non sempre riesco ad uscire dall’appartamento in
maniera decente: a volte ho i pantaloni sporchi, o macchie strane sulla
maglia. Altre non ho tempo di rifarmi la treccia e allora esco coi capelli
sciolti o legati in una coda alta, per poi andare a sistemarmi alla bell’e
meglio in un vicolo. Non
ho voglia di rifilare ad Alphonse l’ennesima balla su me che inciampo e cado
nella melma dopo essermi visto attraversare la strada da un gatto nero. Neanche
sono superstizioso. “Mi
piaci.” Lo
ripete ancora, e io non saprò mai se è sveglio ed è con me che parla, o se mi
immagina fremente tra le sue braccia, o se sta confessando il suo amore alla
dolce Ednee, o se è tutta una finzione e Ednee sono io, cioè il modo in cui
il Colonnello riesce ad aggrapparsi ridicolmente agli ultimi brandelli di virilità. Mi
fa ridere. Criptico
persino nel sonno. C’è
chi lo definirebbe un codardo. Io
no. Non c’è coraggio nel farsi scopare. L’unica
differenza tra me e lui è che io amo la pioggia. Per
me è fremito e attesa, per lui un lento declivio verso la follia. A
volte credo che dovrei smettere di precipitarmi da lui alle sue chiamate. Ma poi
corro sempre finché il cuore non mi scoppia nel petto. Perché
quella potrebbe essere l’ultima volta. Sono
io il codardo tra noi due. Ma
va bene anche così. Mi
offre già tanto. Un
corpo caldo da stringere. E quei
sussurri occasionali nel sonno. Non
credo alla stronzata dello “specchio dell’anima”. Gli
occhi mentono quanto il resto del corpo, se sai dissimulare. Le
cose più interessanti si notano quando lo sguardo lo si distoglie. Nelle
forme di un uomo accorto che con me s’abbandona fiducioso al sonno. Chiunque
può sbraitare d’odio nel fremito dell’ira, o d’amore nel pieno di un orgasmo. Ma
mi piace pensare che le parole più vere anneghino nel tenue scroscio della
pioggia.
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