NOTE :i personaggi sono miei e no, non mi
diverto a torturarli così!!!!
In nome del
padre parte
IX
di Dhely
'Ti amo'
Avrebbe voluto urlarlo. Almeno sussurrarlo.
Almeno pensarlo piano, tra un gemito e l'altro, pregando che non gli
sfuggisse dai denti perché, altrimenti, avrebbe rischiato di farlo
scappare.
Era semplice chiudere gli occhi e immaginarselo lì, immaginarsi il suo
calore, i suoi movimenti. Era semplice trattenere le lacrime e immaginare
che il singhiozzo che schiantava il petto fosse solo la malinconia. Era
semplice non pensare a nulla, allontanarsi dal proprio corpo, avvicinarsi
a qui ricordi fissati nella sua mente e vivere di essi, in essi . .era
facile, sì, lo faceva così spesso, ormai.
Avrebbe voluto sentire il rumore gentile della pioggia battere tintinnando
contro il vetro e scivolare lentamente, ruscellando lungo le strade scure
in cui aveva camminato mille e mille volte, leggero e solo. Avrebbe voluto
sentire il calore scoppiargli dentro come il gemito lungo e indifferente
di un cielo che vedeva troppo poco sole ma che lo corteggiava come un
amante troppo a lungo distante.
Colonia. La sua Colonia. La *loro* Colonia.
Bella e aristocratica, le due torri del Duomo che svettavano contro il
cielo come due artigli che graffiavano il grigio che si rifletteva
indifferente nel Reno.
La Colonia in cui s'era perso. La città in cui era naufragato, mettendo
all'asta anche la propria dignità, fuggendo come un animale braccato da
una vita che con troppe spire stava cercando di soffocarlo. Una città in
cui aveva intravisto uno spiraglio di luce proprio quando si trovava sul
gradino più basso della scalinata che portava alle fogne del mondo.
Ma lì, ora, per quanto cercasse, e si affannasse, non c'era lo scintillio
dorato che l'aveva rapito.
Aveva freddo. Il gelo gli scivolava, goccia a goccia, nell'anima,
nonostante quel corpo bollente sfregasse ritmico contro il proprio. Come
velluto su una statua di marmo.
La semplice frizione non bastava a fargli sentire tepore, perché il vuoto
che sentiva era all'altezza del cuore, era una parola che non poteva
formulare con la gola, erano gesti che gli erano imposti.
Non era la prima volta. La sua Colonia era spesso stata lontana.
Non era la prima volta, no.
Ricordava bene momenti peggiori.
Corpi più ripugnanti contro il proprio, mani più pesanti, violenza più
bruciante.
Ma il disprezzo era sempre quello, sempre lo stesso. E bruciava di sale e
sapeva di lacrime che doveva ingoiare e faceva male . . male.. ma sapeva
che, se avesse chiamato non sarebbe venuto nessuno. Allora, a che pro
agitarsi e negarsi quando non avrebbe ottenuto nulla?
Lo sapeva, lo sapeva . . conosceva tutto in ogni minimo dettaglio, sapeva
il dolore che avrebbe provato, poteva immaginare come gli avrebbe fatto
male il corpo, l'indomani. Ma quello che aveva dentro, quello non sarebbe
cambiato. Doleva già ora.
Non era la sua, la loro Colonia, quella, no.
Gemette, un movimento violento gli strappò un sussurro dai denti serrati,
le lacrime gli bruciavano la pelle, lentamente, fuoco liquido, acido che
gli corrodeva la pelle.
Renè gli strattonò con forza i capelli prima di lasciarlo andare, un
profondo respiro sussurrato che gli scappò sibilando dai denti.
"Sei davvero una troia, Jessy."
L'unica cosa che gli disse prima di chiudersi la porta del misero stanzino
alle sue spalle.
La solitudine non era poi molto più pesante da sopportare che delle mani
che lo frugavano come se fosse una cosa.
===
Immanuel fissò l'orologio da polso che aveva appoggiato al comodino e che
brillava nell'oscurità. Le tre del mattino. Sbatté le palpebre.
Stava di sicuro sognando ..era come quando era a casa e sua madre si
dimenticava in cortile il micio che, in piena notte poi veniva a grattare
alla sua porta pregandolo di farlo entrare. Era un raspare leggero,
gentile quasi, contro le assi della porta.
Un suono che poteva provenire solo da un sogno . .se non fosse stato così
dannatamente reale. .
E si ripeté.
Questa volta fu un chiaro bussare a fargli spalancare di nuovo gli occhi.
Era qualcosa di tremante, di tremendamente trattenuto, sembrava una specie
di singulto, come se qualcuno avesse troppa paura di suscitare echi
intorno a sé nella notte. Come se si stesse nascondendo.
Come se..
Immanuel non si era accorto di essersi alzato, si ritrovò semplicemente a
spalancare di colpo la porta della sua stanza con uno strano nodo in gola.
Stranamente non riuscì a stupirsi troppo nel trovarsi di fronte quella
immagine sfocata, un corpo avvolto da una divisa scolastica simile alla
sua, sgualcita all'inverosimile. Solo i suoi capelli, così chiari da non
sembrare neppure veri, parevano richiamare la poca luce che aleggiava nel
corridoio silenzioso.
"Jessy. ."
La sua voce, per quanto bassa e assonnata, rimbombò come se fosse un
urlo. Vide il suo giovane compagno, di fronte a lui, sussultare, e poi
farsi piccolo, ritraendosi accanto al muro come a cercar riparo. Scosse il
capo con forza e mosse incerto un passo indietro, come a voler scappare ma
Immanuel non glielo permise.
"Entra."
Era un tono che non ammetteva repliche e neppure lui sapeva dove l'avesse
preso in quel momento, seppe solo che era quello giusto, osservando Jessy
corrugare appena la fronte e muoversi con leggerezza, superando la soglia
senza emettere un solo suono.
Sembrava un fantasma, l'ombra di se stesso, di sicuro si portava dietro
una cappa oscura e pesante, greve nel suo immoto silenzio vischioso.
Immanuel non sapeva cosa aspettarsi, forse neppure Jessy era certo di cosa
volesse da lui. Conforto, forse? Era così spaventato . . e di certo era
capitato qualcosa di grave per venire a sveglialo nel cuore della notte..
"No, non accendere la luce, per favore!"
Gli occhi azzurri scintillarono a pochi passi da lui, sembravano quelli
lucidi di un gatto. Lo sentiva alla soglia delle lacrime, tremando
leggermente. Immanuel sospirò pesantemente, incrociandole braccia sul
petto: sentiva che non si sarebbe fatto toccare, quella notte.
"Chi ti ha fatto questo?"
Gli chiese, come se non ci fosse bisogno di confidare parole per
condividere pensieri.
Lo vide crollare sul letto, seduto, rigido, avvolgendosi le braccia
intorno alle spalle come a cercare un po' di calore.
"Io ..io non so perché.."
Tremò sussurrando.
"Chi?"
Jessy scosse il capo con forza di nuovo, aprì le labbra ma il fiato gli
si incastrò in gola, evitando Immanuel con lo sguardo.
"Renè?"
Tentò Immanuel. Un tentativo che già sapeva di verità non appena
assaporò quel nome sulla punta della lingua. Ebbe solo il silenzio come
affermazione.
"Perché hai così poco rispetto di te, Jessy?"
Riuscì a continuare con il cuore che gli pesava in petto come se fosse
d'acciaio. Sapeva che non poteva esserci risposte da quel ragazzo che ora,
troppo fragile, era lì in silenzio a tremare e a piangere. Ma sapeva
anche, e bene, che non poteva esserci silenzio da parte sua. Forse erano
stati i troppi silenzi in cui era sprofondata la sua vita a farlo
diventare così ..
"Non lo so . . non credo di meritare altro. . "
"Allora perché sei qui, angioletto?"
Riuscì a colorare quella frase d'una tenerezza soffusa, e osò sedersi al
suo fianco. Se non lo avesse toccato era certo che non sarebbe fuggito,
che non sarebbe crollato, e non voleva certo dargli altro dolore.
Vide prendersi il capo fra le mani e rimanere lì, immobile, in quella
posa per secondi che parvero eterni.
"Perché non mi odi? Perché *tu* non fai come . . come gli
altri?"
"Perché io non sono come gli altri. - un sorriso misurato - E solo
persone malvagie possono godere nel fare male a una creatura come te,
ricordatelo bene. Non dovresti permetter loro di avvicinarsi a te."
Silenzio. Erano in due a condividere un'unica, grande quiete che pareva
avvolgere tutto il collegio. Una sorta di incomunicabilità profonda,
assoluta, l'incapacità estrema di vedere un altro all'interno della
propria vita.
Vedere l'altro come oggetto e non come persona, la violazione estrema, la
violenza più assurda che si poteva compiere su un altro essere umano.
Immanuel strinse i denti. Questo pensiero faceva male, quest'immagine
riusciva a ferirlo fisicamente, quasi, lui che fisicamente non aveva
sopportato nulla. E Jessy che portava, sulla propria pelle, il segno della
violenza? Cosa avrebbe dovuto dire? Come avrebbe dovuto reagire, lui?
Immanuel si accorse di non aver parole per Jessy. Il suo riflettere, i
suoi studi, la sua mente così brillante e veloce ora si era andata a
rifrangere contro la lucida superficie della realtà sgretolandosi in
mille pezzi. In un attimo si accorse di quanto poco, a volte, nella vita
pesassero le idee, di quanta poca utilità pratica potessero avere. Si
sentiva come se le redini di ciò che aveva sempre considerato giusto e
immutabile gli stessero scivolando via dalle dita, si ritrovava muto di
fronte a qualcosa che sentiva più grande di sé. Nell'impossibilità di
donare parole che non fossero stupide, si ritrovò a fissare pensieroso
l'oscurità, sperando che bastasse la sua semplice presenza fisica, ad
essere d'aiuto.
Il silenzio muto s'increspò frantumandosi lievemente in singhiozzi
sottili. Jessy tremò, scivolandogli fra le braccia che, quasi senza
accorgersene, aveva teso verso di lui.
Gli baciò i capelli, delicatamente, cercando di pensare a cosa avrebbe
dovuto fare e, assurdamente, sperando di non doversi mai muovere da quella
posizione.
===
Immanuel scosse il capo con rabbia di fronte al suo invisibile
interlocutore, come se l'altro avesse potuto vederlo.
"Gli ho dato della pastiglie per dormire, adesso è nel mio letto ma
credo che debba essere visto da un medico. Almeno devo avvisare il
Rettore!"
"Dormirà per tanto? "
La voce metallica che risuonava dal suo cellulare aveva una strana
sfumatura ansiosa che raramente aveva sentito nel tono di Mark. Anzi,
aveva creduto che non avrebbe mai potuto esserci.
Si sbagliava.
Immanuel socchiuse pesantemente le palpebre prendendo un profondo respiro.
"Credo di sì, ho abbondato un po' con le dosi, non credo che in
questo momento sia un cosa grave. . "
Mark non se l'aspettava.
Sapeva razionalmente che di solito i piani erano fatti per essere
puntualmente buttai all'aria da qualche misero, insulso granello di
polvere che all'improvviso il destino si divertiva a gettare fra degli
ingranaggi assolutamente perfetti, ma era quasi certo di essere in grado
di superare ogni cosa. Di poter manipolare ogni vicenda a proprio
vantaggio.
Certo era che una cosa *simile* non aveva mai avuto la forza di
immaginarsela. E, in tutta sincerità, non aveva nessuna idea, lì su de
piedi, di cosa fare di realmente utile che non avesse già fatto Immanuel.
"Hai fatto bene. - si passò una mano fra i capelli corrugando la
fronte - Adesso ascoltami attentamente: vai dal mio patrigno e spiegagli
la faccenda. Ripetigli tutto quello che hai visto, tutto quello che ti ha
detto e anche quello che non ti ha detto."
"Chiamerò un medi.."
Non lo lasciò finire.
"No! Non chiamare assolutamente nessuno! Avvisa il Rettore, t'ho
detto. E non fare altro. Non dire nulla in giro.- trattenne un respiro
sibilandolo fra i denti, furioso. Non sopportava quando le cose non
andavano secondo i suoi piani - Nessuno deve sapere assolutamente nulla,
almeno fino a domani pomeriggio, quando sarò di ritorno. Chiaro?"
"Ma credi davvero che il Rettore non chiamerà nessuno?! Per me
bisognerebbe portarlo in ospedale!"
"Sì, e poi magari chiamare anche la polizia e pubblicare gli annunci
sul giornale! - Mark ringhiò - Manuel, non essere stupido! Il collegio
non ha bisogno di una pubblicità simile e neppure la famiglia di Jessy.
Non credo prenderebbero bene uno scandalo simile."
"Ma che importa?!? - Immanuel era a un passo dall'urlare- Ma ti rendi
conto di quello che stai dicendo?! L'hanno violentato! Nel nostro
collegio! Hanno violentato un *nostro* compagno!"
Un sospiro lungo, quasi disarmante.
"Immanuel. Ti sai comportando come un bambino. Te ne rendi conto?
Ricomponiti. - gli lasciò qualche secondo come per farlo calmare poi
riprese, il tono di voce sicuro e pacato di sempre. - Ha presente da che
famiglia proviene? Le regole per quelli come lui non sono le stesse che
per quelli come te. Viene da un altro mondo, si faceva di eroina fino a
due anni fa e i suoi l'hanno recluso al mondo in cliniche psichiatriche
senza che nessuno ne sapesse nulla. "
"Ma *tu* lo sai."
"Già. Ma io so dove cercare. E tu adesso devi mettere le cose in
prospettiva. E tacere finché non sono lì. Chiaro?"
Immanuel si morse un labbro.
"Non credo sia giusto!"
"Non ti sto dicendo cosa è giusto, ti sto dicendo cosa *devi* fare.
Il Rettore la penserà esattamente come me, vedrai . . "
Immanuel ghignò.
"Invece non credo che il tuo patrigno salterebbe fuori con una cosa
simile, sai? Se fosse lui a chiamare un medico non lo impedirò
certo!"
"Ne sono sicuro, Immanuel. E' per questo che adesso devi liberare la
linea, perché devo chiamarlo. A volte il mio patrigno tende ad essere
troppo emotivo."
"Sei tu quello che curi gli interessi della famiglia, invece,
no?!"
Il sarcasmo di Immanuel era feroce, ma Mark rispose con un semplice
sorriso.
"Già. D'altra parte, mi spiace ricordartelo, ma io faccio parte di
quel mondo alieno a cui appartiene anche Jessy, se ti fossi
dimenticato."
"Sei solo uno schifoso snob bastardo!"
La reazione di Immanuel non era assolutamente voluta, tanto che si ritrovò
a mordersi la lingua non appena ebbe finito di sputare quella frase, ma
non sembrò che l'altro la prendesse particolarmente a male.
"Bastardo lo sono di sicuro.. "
===
Blaise si sedette pesantemente sulla poltrona del suo studio con un
sospiro a sfuggirgli dai polmoni. Un sospiro affranto, sconfitto.
L'alba stava facendo capolino al di là della bassa coltre di nebbia lieve
che si stendeva per la valle e lui si ritrovò improvvisamente indeciso
sul da farsi.
No. Non indeciso.
Sapeva cosa andava fatto. Sapeva che il modo in cui s'era comportato era
l'unico praticabile, era un uomo di mondo, che aveva vissuto, che sapeva
come andavano certe cose. Il suo compito era quello di proteggere il
futuro dei suoi ragazzi, da quella fucina di cervelli non dovevano uscire
che comportamenti immacolati e persone integerrime.
Lui sapeva in che mondo avrebbero presto vissuto quei ragazzi destinati ad
essere geni, lo sapeva e cercava di rendere tutto il più semplice
possibile per loro. Cercava.
Renè sarebbe stato espulso ma senza una motivazione, a lui non servivano,
al suo istituto non servivano comunicati ufficiali per fare ciò che
doveva. Il nome di Jessy doveva rimanere immacolato . .
Si prese la testa fra le mani, scuotendola dolorosamente: lui avrebbe
dovuto rimanere immacolato .. Eppure dormiva ed era bello, il viso
scomposto, congestionato, le lacrime secche sulle guance . . eppure era
bello. Dannatamente bello.
Somigliava a suo padre?
Forse un poco quando dormiva. La stessa espressione imbronciata sulle
labbra, lo stesso scintillare veloce di gemme azzurre sotto le ciglia. La
stessa pelle bianca, assolutamente candida e tiepida al tocco.
Così diverso da lui eppure così simile. Raul non era così sottile, non
aveva quell'espressione dolce e tiepida sul fondo degli occhi, non aveva
quel sorriso morbido a solcagli il volto. Eppure . . eppure era
dannatamente suo figlio.. Blaise per poco non s'era chinato su di lui a
baciarlo, vedendo Jessy addormentato. Per poco non gli era parso di
rivivere quei giorni meravigliosi . .
Ma Jessy era un bambino e lui aveva l'età di suo padre ..
Ma Jessy non era Raul.
E questa era la cosa che lo impressionava di più. Jessy era ..
semplicemente era il Raul che viveva nella sua memoria, il Raul che
avrebbe dovuto conoscere se il passato non gli avesse inflitto tutto il
dolore che gli aveva riservato. Jessy era il Raul che viveva nella mente
di Blaise, era il Raul che dalla vita aveva avuto una nuova possibilità.
Era un'ossessione. Un'assurda, infinita ossessione. Quell'uomo e suo
figlio, troppo simili e troppo distanti, come due facce della stessa
medaglia, fatti della stessa materia eppur così dissimili, nel
comportamento, nell'atteggiamento . .
Uno dei primi raggi dell'alba traversò di sghembo la nebbia che si
tramutava lentamente in foschia.
Erano quasi le sei e mezzo del mattino, di una domenica mattina. Fra poco
gli addetti sarebbero iniziati a entrare e a uscire dalla costruzione ma
prima di vedere il primo ragazzo in piedi sarebbero dovute passare ancora
ore, molti di loro erano rincasati molto tardi la notte precedente.
Blaise lo sapeva.
Conosceva quella scuola meglio di quanto conoscesse se stesso, poteva
intuire i suoi movimenti interni con una precisione millimetrica. Anche se
nessuno avrebbe saputo spiegarsi il motivo, conosceva personalmente ognuno
dei suoi ragazzi e raramente qualcuno poteva dire d'averlo preso alla
sprovvista.
Raramente.
Quello era uno quei giorni.
Il silenzio immoto del cortile ghiaioso fu rotto dall'arrivo di un'auto.
Una Rolls Royce bordeaux.
L'autista quasi corse per arrivare allo sportello del viaggiatore per
aprirlo con deferenza, ma non fece in tempo.
Blaise trattenne il fiato.
C'era un uomo, nel centro del suo cortile, sotto i primi raggi dell'alba.
Un uomo con lo sguardo terso e duro come la vetta del Cervino in quelle
giornate limpide in cui non si riesce neppure a sollevare gli occhi per
quanto il ghiacciaio risplende. Un uomo il cui volto non riusciva a
tradire la sua età, doveva essere più vecchio di quel che appariva,
eppure era sempre sembrato più maturo di quanto la sua età anagrafica
facesse supporre. Un uomo impeccabile nel suo abito gessato, elegante e
perfetto proprio com'era sempre stato.
Un uomo feroce, forse, ma meraviglioso come una stupenda belva.
I capelli chiari, tagliati corti formavano come un'aureola attorno al suo
capo.
Lo vide sollevare la fronte parlando al portiere con frasi secche e brevi.
Lo vide increspare le labbra in quel suo usuale gesto di lieve
irritazione.
Non udì la sua voce, ma per lui fu come averla sentita.
"Sono venuto per mio figlio."
Aveva detto, nel suo cortile, Raul von Fonshtad.
Renè chiuse lentamente gli occhi.
E non riuscì a impedirsi di sorridere.
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