In nome del padre

parte II

di Dhely


Il telefono suonò.

Uno squillo.

Due.

Tre.

"Hallo?"

"Matt? Sono Jessy." La voce quasi sussurrata, un piccolo silenzio, poi un sorriso.

"Ti sei ricordato il mio numero, finalmente! - il ragazzo dall'altra parte del filo quasi rise - Com'è il posto?"

Jessy scosse il capo voltandosi appena, lasciando il proprio sguardo vagare sul corridoio vuoto e lindo in cui la sua voce rimbombava.

"Sai quello che temevo? Bhè, scordatelo, è molto peggio!"

"Andiamo, Jes! Sei sempre il solito! Come se non ti conoscessi .. lo dici solo per non farmi morire dall'invidia!"

"Già, già, sono proprio in un posto in cui ti troveresti perfettamente a tuo agio visto che coincide con l'idea che ho io di una prigione."

"Sei fortunato che non possa metterti le mani addosso, se no ti farei passare la voglia di scherzare, piccolo impudente!"

Matt sembrava irritato ma Jessy sapeva che scherzava. L'aveva visto arrabbiato, e non avrebbe mai potuto sbagliarsi.

"Bhè, prendi appunti di quel che vuoi farmi, Matt, che poi vedremo di recuperare il tempo perduto . . "

Entrambi ridacchiarono leggermente.

"Jes, dio, già mi manchi da far male . ."

Il ragazzo sospirò appena stringendo le nocche con forza intorno alla cornetta del telefono, sforzandosi di tenere un tono di voce leggera.

"Vedila dal lato positivo: magari la cosa ti ispira un bellissimo testo."

Un sospiro leggero.

"Già. Ma potrebbe essere anche una schifezza, tanto se la canti tu sarà comunque bellissima."

Dolce. Matt dolce era un avvenimento. Non che fosse mai stato sgarbato con lui, solo che .. bhè, non era il tipo a cui piacesse lasciarsi scappare certe frasi. Jessy si limitò a sorridere.

"Tutte le tue canzoni sono meravigliose, e non hai bisogno di fare il finto ritroso per fartelo dire! - scosse di nuovo il capo, con forza - Adesso però devo andare, mi stanno aspettando. Mi farò vivo prestissimo, te lo prometto!"

"Ci conto, piccolo."

La voce di Matt era bassa, velata di dolore, un dolore che non era semplice improvvisare se non fosse stato sentito. Jessy torse un poco il filo del telefono mordendosi un labbro: non aveva mai davvero pensato che Matt potesse mentirgli, e neppure ora, solo che . .

"Ok. Ci sentiamo, allora. Non dimenticarti che ti amo, Matt."

Silenzio.

"Anch'io Jes. Abbi cura di te."

Ci fu come una sospensione, come se fosse stato sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma non venne nulla, solo un sospiro e il click del ricevitore appoggiato. La linea interrotta gli rimbombava nella mente.

Distolse lo sguardo estraendo la scheda dal telefono e infilandosela in tasca. Finiva sempre così, tra di loro c'erano sempre troppe parole, troppo pensanti, che di solito seguivano sentieri troppo tortuosi, e così si limitavano entrambi a tacere. E i loro silenzi, ora, erano più pesanti di un macigno. Non avrebbe voluto allontanarsi da Matt, non ora, non con la loro relazione a quel punto.

Veramente non avrebbe voluto allontanarsi da Matt e basta. Ma ovviamente suo padre era stato inflessibile. Figurarsi se quel vecchio idiota potesse sforzarsi di capire qualcosa che stava al di fuori di quella sua assurda logica da mummia! E non si era fermato neppure un minuto a chiedergli perché! Non che glielo avrebbe detto, ma almeno. .

Si passò una mano fra i capelli, seccato. Odiava quel posto, non voleva stare lì, non aveva alcun motivo per essere iscritto a una delle più prestigiose università di cui avesse mai sentito parlare! Iscritto a economia, per di più! Senza Matt . .

===

Mani a sfiorare quella schiena scultorea. Ampia, bianca, nella luce indecisa di quel sole sul punto di crollare dietro un orizzonte fatto di colline morbide e verdi.

Blaise Brown, il rettore dell'istituto si chiuse i palmi sulle ginocchia. Poteva ancora chiaramente sentire il calore, la consistenza di quella pelle, i suoi capelli fra le dita che scorrevano leggeri, strappandogli lievi sorrisi.

Raul.

Era passata una vita.

Trent'anni in cui si erano sentiti solo per telefono, ogni tanto, per lettera ancor più raramente. Non s'erano mai più visti. Lui non aveva più voluto aver nulla a che fare con un ragazzino com'era Blaise la prima volta in cui s'erano incontrati. Un adolescente annoiato da una vacanza che qualcuno aveva organizzato per lui, un ragazzino viziato e ignorante a cui era bastato guardare una volta negli occhi di un uomo com'era Raul, che all'epoca aveva il doppio dei suoi anni e dieci volte le sue esperienze, per perdersi.

Non aveva mai creduto ai colpi di fulmine. Anche ora, come persona stimata e razionale, a chiunque gliel'avesse detto, avrebbe affermato con convinzione che no, l'amore era una questione di fiducia, di pazienza, di tempo. Tanto tempo passato insieme a conoscersi, a pazientare, a parlare, a vivere . . eppure era quello che era successo.

Si era perso nei suoi occhi.

Aveva visto i suoi movimenti misurati, la sua sicurezza, il suo incedere e null'altro aveva più avuto importanza. Sin dall'inizio aveva avuto ben chiaro che tra loro non avrebbe mai potuto esserci altro che un'avventura, eppure dentro di sé aveva sognato di essere un suo allievo, un suo assistente, qualsiasi cosa . . ogni cosa purché fosse al suo fianco.

La fede che scintillava all'anulare di Raul non era mai stato un problema, esattamente come non contava nulla l'esistenza di *lei*. Non era altro che una voce morbida nel telefono, ogni due giorni, prima dell'ora di cena. Come poteva essere geloso di una voce? Lui non gli parlava mai di lei, all'epoca non ne conosceva neppure il nome.

Non sapeva nulla di lui, non voleva saperlo. Come in un sogno, gli pareva che a dare consistenza ai particolari, avrebbe infranto l'incanto. Trent'anni e non era ancora finito un bel niente . . sospirò.

Trent'anni e aveva ancora chiarissima l'idea di quel corpo addosso, di quelle mani che gli danzavano sulla pelle come sapevano danzare sui tasti bianchi e neri del pianoforte a coda. Trent'anni e ancora avrebbe conosciuto il suo odore tra mille.

Trent'anni e avere di fronte i suoi occhi, incastonati nel volto di suo figlio, era stata una scossa quasi fisica.

Era stato stupido, fin dall'inizio, sorridergli, cercare di parlargli, era stato sciocco da parte suo cercare di ..di ..allora non lo sapeva neppure lui. Raul invece sì.

Un bacio rubato di fretta, la schiena premuto contro il vetro dell'ascensore dell'albergo.

Mani affamate che slacciavano bottoni, gemelli, cravatte, nascosti in una nicchia del muro tra una sala e l'altra.

L'urgenza del piacere, a rotolarsi sul pavimento della sua stanza d'albergo.

La moquette che gli sfregava sulla schiena.

E quel suo meraviglioso corpo disteso poi fra le lenzuola. Al suo fianco. Il dolore sordo a rimbalzargli dentro, ovattato, come un ricordo lontano, come se non fosse vero, una sensazione che dentro di se benediceva perché prova che tutto ciò che ricordava era successo davvero. Che non era stato un sogno. Che era stato *suo*.

Ed era stato di Raul molte, molte volte dopo quella prima notte. Non esisteva alcun futuro che non fosse un unico presente, per lui, in quelle settimane. Non c'erano pensieri che non inerissero a Raul. Non c'era nulla oltre loro due. E Raul parlava dei suoi affari, della sua vita, organizzava la sua partenza, eppure per lui quei discorsi non avevano mai avuto nessun peso.

Lui l'amava. Non esisteva null'altro.

Sapeva che Raul non ricambiava il suo affetto, molto probabilmente sapeva anche che non avrebbe rinunciato neppure a un respiro per lui, eppure . .

Aveva guardato le valigie impeccabilmente in fila di fronte alla porta, Raul che si alzava dal letto infilandosi la camicia e lo guardava, con leggerezza.

"Vai, fra poche ore devo partire."

Cosa gli aveva risposto? Qualcosa di stupido. Qualcosa di insolente e decisamente stupido. Aveva avanzato pretese. Gli aveva detto d'essersi innamorato e che quindi Raul avrebbe dovuto .. Raul aveva ascoltato, aveva cercato di spiegare .. ma quando i toni si erano fatti eccessivi l'aveva semplicemente sbattuto fuori dalla sua stanza. Indifferente alle chiacchiere e al possibile scandalo.

Solo Raul poteva essere così sicuro di se da fare una cosa simile! Solo Raul poteva essere così . . affascinante. L'aveva seguito per quasi due settimane, girandogli intorno, continuando a dirgli che non poteva vivere senza di lui, che non poteva continuare a negare in quel modo i suoi sentimenti ..

Il comportamento isterico di un adolescente stupido.

Blaise, ora, si vergognava di ciò che aveva fatto. Ma sin da subito aveva rimpianto quello che aveva detto. L'esasperazione che aveva visto dipingersi in quegli occhi, il fastidio a piegare quelle labbra e la sua freddezza assurda . . tutto per colpa sua.

Raul era stato il suo dio, e di fronte a una divinità irritata che comportamento si poteva tenere? Dopo tutta una sfilza di sciocchezze si era limitato ad abbassare il capo con gli occhi lucidi dalle lacrime, e lui gli era passato al fianco, fingendo di non conoscerlo.

Blaise si mise in piedi, guardando fuori, il giardino ancora madido di pioggia, e le nubi veloci che si stavano aprendo, lontano, sul cielo. In cortile i ragazzi chiacchieravano, in piccoli gruppetti. Sospirò.

Una figura sottile e chiara uscì da uno dei portoni laterali che portavano alle stanze. Moltissimi furono gli occhi che si posarono su di lui.

===

"E' decisamente carino."

Immanuel sentenziò ma rimase seccato nel vedere Mark semplicemente stringersi nelle spalle.

"Sono curioso di sapere cosa ..cosa ti aspetti da lui, Mark."

L'altro si infilò le mani in tasca con aria pensierosa mentre fissava il giovane Jessy fare conoscenza con i ragazzi. Vestiva la divisa della scuola, e anche se doveva essere immacolata, visto che gli era appena stata portata, lui la indossava in una maniera così disinvolta che pareva esserci nato in quei panni.

I capelli biondi li aveva legati in una coda corta e quegli occhi brillavano mobili e allegri. Era bello? Sì, un ragazzino notevole.

"Aspettarmi? Perché dovrei aspettarmi qualcosa da lui?"

Gli rispose, pacato, senza fissarlo. Sentì Immanuel muoversi nervosamente al suo fianco, avvicinandoglisi come se un tocco fisico potesse scacciare le ombre delle sue preoccupazioni.

"Non dirmi che tutta questa agitazione non è data da qualcosa perché non ti credo!"

Sembrava arrabbiato. Offeso? Mark si strinse nelle spalle, di nuovo, passandosi una mano fra i capelli da cui, i pallidi raggi del sole strapparono riflessi di rame scintillante.

"Curiosità pura e semplice. - si voltò verso di lui con un elegante cenno del capo - Tu conosci tutto dell'arte e in futuro sarai un ottimo critico, ma lui è un artista. E non c'è nessun futuro *artista* qui dentro. Lo sai meglio di me."

I suoi occhi verdi lampeggiarono pericolosi e Immanuel tacque per un lungo istante poi riuscì a riprendere a respirare.

"Solo perché è uno di quelli che canta canzoni non sue nelle sagre di paese non significa che sia un artista! "

Mark si ritrovò a sorridere.

"Non è ciò che ho saputo di lui. E' nato per stare su di un palco, soprattutto perché a vederlo giù non lo faresti mai dotato dell'energia che sa tirare fuori quando canta. Sono incuriosito, voglio conoscerlo."

Immanuel sospirò seccato fra i denti, sibilando il proprio fastidio.

"Bhè, allora vai a conoscerlo, il tuo artista! - si allontanò di un passo muovendo la mano nell'aria - Vai! Non crederai che io . . "

Tacque nel vedere Mark voltarsi di colpo, portandosi di fronte a lui con un'espressione tesa sul volto. Irritata. Seccata.

"Immanuel."

Null'altro. Bastò il suo nome, e quel tono. Secco, deciso. Forte. Non come chi stesse facendo una ramanzina a un ragazzino ma come se gli avesse chiesto se volesse davvero subire le conseguenze di quel suo comportamento. Ovviamente Immanuel sbatté un paio di voltele palpebre cercando di ricacciare indietro le lacrime.

"Scusa se .. ho alzato la voce."

Il volto di Mark si rilassò con un lieve sospiro poi sorrise appena.

"Magari piacerà anche a te, Immanuel, sembra un bel tipo."

L'altro non disse nulla, si limitò ad avvicinarsi di nuovo al corpo di Mark, facendo scivolare una mano intorno al suo braccio. Mark accettò il contatto senza una parola e Immanuel si ritrovò a sorridere posandogli il capo su una spalla.

"Magari."




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