A distanza di più di un anno, ho riletto con piacere le avventure di Jay, consapevole di certe ingenuità nel ritmo e nella trattazione, ma anche con la gioia di ritrovare un personaggio che amo e di cui, a dispetto del tempo trascorso, non mi sono ancora stufata.
Eccomi quindi a riprendere questa storia con l'intento di darle nuovo vigore e di portarla ad una quanto più possibile onorevole fine


 

 

 


 

 

Infinito come il mare

 

Capitolo VIII

 

di Katsushika

 

 

“Terra!Terra!”
L’annuncio tanto atteso riscosse dal torpore del mezzodì l’intero equipaggio.
Tutti si ammassarono a prua, facendo quasi beccheggiare la Zephyr, finché il capitano ed il secondo a gran voce li richiamarono all’ordine.
Fra lazzi, pacche e sorrisi, la ciurma eseguì le manovre necessarie a raggiungere il confine della barriera corallina, là dove il cupo cobalto, sfumava nell’azzurro accecante della laguna.
Il punto scelto era nel centro esatto di una piccola baia ove il mare aperto si incuneava profondamente, permettendo anche ad un vascello con un certo pescaggio di attraccare a non molte decine di metri dalla battigia, sicuro come in un abbraccio.
Oltre la linea compatta delle palme si scorgevano alcuni tetti di paglia ingrigiti dalle intemperie e biancheggiavano muri a calce.
Si calarono una dopo l’altra le scialuppe, che portarono a terra uomini e una parte consistente del contenuto della stiva.
Le prede dell’annata avevano permesso di accumulare una certa quantità di monete d’oro e d’argento e di acquistare od ottenere col baratto beni necessari e voluttuari per il villaggio, che ora si stavano ammassando sulla bianca spiaggia tropicale.
Poco a poco da terra gli si fece loro incontro una moltitudine di persone di ogni colore ed età. L‘aria si riempì di nomi gridati con giubilo, dei trilli delle donne, degli scrosci di risa negli abbracci fraterni.
Lamu intera si stringeva intorno agli uomini che l’oceano le aveva restituito.
Lacrime di bambini stetti alle gambe forti di padri quasi sconosciuti, baci appassionati dopo mesi di forzata vedovanza, sospiri per i pochi caduti, subito zittiti dalla promessa di un brindisi in più.
Falò e banchetti durarono per giorni, finché tutto fu raccontato più e più volte, sino a diventare parte delle leggende che si sarebbero tramandate sui pirati della Zephyr. Fatto ciò tutti parvero spogliarsi di quella livrea cupa e feroce, per trasformarsi in mariti, insegnanti, falegnami, maniscalchi, allevatori e piantatori.
Solo il capitano pareva esser rimasto tale, poco propenso alle bevute serali, ad abbandonarsi ai ricordi. Restava in casa, nell’altana dalla quale si vedeva il mare, finché qualcuno non lo mandava a chiamare per risolvere un diverbio, per sovrintendere ad una transazione, per avere direttive sui lavori di manutenzione delle fortificazioni.
Osservandolo in quei momenti, a Jay era parso di cogliere un disagio, una fatica nuova sul suo volto. Pareva spesso distratto, la mente altrove, evidentemente fuori posto nei vicoli di terra battuta o in mezzo alle mandrie.
Non faceva mai mancare la propria attenzione, una parola di incoraggiamento, rispondeva sagace alle battute, come ogni buon governante deve fare, ma la vicinanza che Mael gli aveva concesso aveva permesso al giovane di conoscerlo assai bene, e mai come dal loro sbarco gli pareva schiacciato dal dovere.
Fu questa nuova apprensione che gli diede l’ardire di sollecitare un incontro.
Il capitano bretone lo ricevette in quell’ampio belvedere che pareva aver eletto a suo privatissimo regno, là dove neppure la servitù era autorizzata ad importunarlo, se non per qualche urgente ambasciata.
Presero a scambiarsi banali accenni ai fatti del giorno, sorbendo un the freddo, profumato ed amaro, riserva personale dell’ufficiale in seconda di una grossa nave da carico inglese, ultima preda di stagione. Poi, prendendo coraggio, Jay lasciò la comoda poltrona di canne intrecciate per avvicinarsi all’ampio tavolo che troneggiava nel mezzo della terrazza. Riconosciutala, srotolò piano una delle carte nautiche che l’ingombravano e solo quando ebbe trovato ciò che cercava, alzò gli occhi verso Mael.
Come in risposta anche il capitano lasciò la sua seduta e lo raggiunse.
Solo quando gli fu accanto, i luminosi occhi verdi puntati con curiosità su di lui, il ragazzo posò il dito affusolato sulla carta a tracciare una rotta immaginaria che dal Corno d’Africa, attraversava l’Oceano Indiano per poi incunearsi nello Stretto di Malacca. Puntandolo su Sumatra, esordì:
“Se arriviamo con abbastanza oro potremo comprare l’amicizia del signore di Pekambaru e con i suoi colori superare indenni le Isole Natuna, su fino al Mar Cinese.”
Notò che il volto di Mael si era come illuminato per lo stupore e l’entusiasmo che quelle poche parole avevano suscitato.
“Faremo la posta agli inglesi ed ai portoghesi di Macao! Sarà una grande stagione, mio capitano, la più ricca e perigliosa che alla Zephyr sarà dato di vivere!” e come un fulmine che irrompe in un pomeriggio uggioso, la coscienza di Jay fu scossa da una nuova consapevolezza: il sollievo, la gioia che gli traboccavano dentro al solo vedere il viso del francese così trasformato, non potevano essere che sintomi d’amore. Nei mesi di mare lo aveva nascosto sotto mille diverse spoglie, l’aveva chiamato rispetto, ammirazione, fiducia, intesa, amicizia fraterna, ma non era nulla di tutto questo.
La felicità di quell’uomo era anche la sua, lo struggersi dell’altro l’incupiva, voleva il suo bene, anelava a condividerne rischi e vittorie, chiedeva solo di potergli stare accanto e per farlo, ora lo sapeva, sarebbe stato disposto a rinunciare a tutto, a rischiare tutto, anche la sua stessa vita.
Quando i suoi occhi tornarono a fissarsi in quelli del capitano, li sentì indagatori, ma non se ne distaccò, calmo lasciò che lo frugassero fin nell’animo, accettando, anzi quasi bramando che vi leggessero quella verità.
Fu infatti Mael ad interrompere il contatto tornado a scrutare il loro futuro terreno di caccia.
“Dunque hai deciso di aiutarmi in questa impresa, malgrado tutto, mi seguirai?” gli chiese, il tono basso, quasi strozzato.
“Sì, ti seguirò!” e mai Jay si era dichiarato in modo più aperto e fermo.
Attimi sospesi, poi il capitano prese a tempestarlo di domande tecniche, su correnti e venti, sull’entità dei traffici e la bellicosità delle popolazioni.

Le visite del giovane alla casa del “governatore” di Lamu, presero una cadenza regolare, tanto che presto questi non ebbe neppure più bisogno di farlo convocare.
Giorno dopo giorno, calcoli di rotte ed appunti andarono a coprire le pagine di uno dei voluminosi registri, generalmente utilizzati quali giornali di bordo.
Tutto il loro futuro in quel nero quaderno, esaltati se lo ripetevano spesso, rabbrividendo e smaniando per l’impazienza.
Ma nelle ore pigre del pomeriggio africano, quando l’intero villaggio si svuotava e tacitava, avevano preso a conversare anche d’altro.
Aneddoti di viaggio, a cui spesso Mael lo sollecitava, affascinato dal modo in cui Jay descriveva luoghi e persone, dalle argute annotazioni e dai particolari con cui infarciva la sua narrazione, in grado di calare l’interlocutore anche nelle realtà più lontane e stravaganti.
Il giovane si beava di tale attenzione e si rallegrava per aver la possibilità di condividere pezzi dalla sua esistenza.
Assai più rare erano le occasioni nelle quali era il capitano a parlare del proprio passato e per questo ancora più preziose agli occhi del suo ospite.
Nella solitudine perfetta del loro rifugio, sospesi sui tetti di Lamu, presero a disquisire anche di scienze e letteratura, felici di aver trovato qualcuno con cui condividere interessi invero assai poco diffusi fra i briganti del mare.

Quel giorno erano intenti a sfogliare le pagine di un prezioso libro illustrato dedicato all’India.
Spalla a spalla, chini sul grande tavolo, commentavano animati templi e palazzi, raffigurati nei loro minimi particolari, senza però che l’elegante tratto in bianco e nero fosse riuscito a renderne appieno la magnificenza.
Entrambi erano sbarcati in qualche punto del misterioso sub-continente e ne conservavano forti emozioni ed ogni foglio diventava un colore, un odore, un’immagine bizzarra da raccontare all’altro.
“Questo è il mio preferito!” esclamò Mael, spianando un poco la pagina, forzando la rilegatura così da rivelare pienamente quello che Jay riconobbe come il principale tempio indù di Madras.
L’affermazione del bretone voleva essere una battuta legata ai bassorilievi che lo ricoprivano, narranti in modo assai esplicito e terreno degli amori fra dei e dee.
Per il giovane invece quell’immagine riportava a galla ricordi così lontani che parevano appartenere ad altri, ma ancora in grado di far soffrire.
Era la sua età dell’oro, un’epoca gioiosa andata in frantumi nell’infuriare di un monsone ad Hong Kong.
Memorie che aveva allontanato da sé, nel vano tentativo di cancellarle, ma che ora si riaffacciavano con tutta la cattiverie e l’insistenza del più crudele degli spettri.
“Che succede, Jay! Non volevo certo dare scandalo.” Incalzò Mael, seriamente preoccupato di esser parso frivolo e volgare e di aver dato così pessimo spettacolo di sé, proprio con una delle poche persone di cui desiderava l’approvazione.
“Nulla, davvero. E solo che…io lo vidi quel tempio, tanto tempo fa. Una vita fa. Allora ero felice, molto felice…non ero solo…” quelle parole incerte e sussurrate, gli erano uscite di bocca quasi contro la sua volontà, una confessione, una straziato grido d’aiuto.
“Chi c’era con te?” domandò l’altro fattosi improvvisamente serio. La sofferenza che leggeva sul viso del giovane, che traspariva da quelle parole, l’avevano colpito oltre ogni dire; e confusamente si rese conto che oltre la forte empatia che lo rendeva sinceramente partecipe di un tale dolore, s’agitava qualcosa di assai meno nobile: l’invidia per il tempo che non avevano condiviso, per tutti coloro che avevano potuto percorrere un tratto, se pur breve, di strada accanto a Jay ed ancora albergavano nella sua memoria.
“Un uomo fuori dall’ordinario.” Gli rispose questi in un soffio.
“L’amico che hai vendicato e per il quale sei diventato un reietto?” lo incalzò Mael, cercando il suo sguardo e poggiandogli le mani sulle spalle, non certo per imperio, ma nel subitaneo impulso di proteggerlo.
Jay serrò gli occhi e sospirò, dolente al punto da poter far sanguinare qualsiasi cuore.
Rialzò infine il viso, tornando a fissare quelle iridi di smeraldo così vicine e limpide, vi si immerse, senza più parole, né pensieri.
Labbra asciutte e tirate toccarono appena le sue, come a saggiarle. Le mani del bretone che scendevano ad afferrare stoffa e carne, sulla sua schiena.
Un bacio ancora, più morbido e lungo, il suo sapore a cancellare il mondo intorno.
L’abbraccio fu ricambiato, ed il respiro e l’ardore. Membra avvinghiate, bocche divoranti, il linguaggio arcano dei corpi, di una soverchiante passione.
Poi Jay se ne strappò, boccheggiante come al riemerge da un maroso che l’avesse sommerso, boffonchiò un saluto e sparì.

Dopo una notte insonne ed una svogliata colazione, il giovane raggiunse la spiaggia e chiese al maestro d’ascia d’esser assegnato alla riparazione dello scafo.
Tacitò il vecchio marinaio e le occhiate sorprese degli astanti con un risoluto “Ho bisogno d’agire!”, brandì gli attrezzi e si chiuse in un silenzio che durò fino a sera.
Un parte di sé, inveiva chiamandolo infingardo traditore, accusandolo di aver perpetrato col trasporto di quel gesto un secondo, più terribile, tradimento nei confronti di Rufus.
Non si trattava di placare l’impulso dei sensi, quei bollori che l’età ed il tedio rinfocolavano, bensì di permettere a quel forte sentimento di dilagare in lui, saturarlo, così uccidendo fin anco il ricordo del passato amante.
I primi mesi quando il vuoto di quell’assenza rischiava di inghiottirlo, gli piaceva pensarlo a vegliare su di lui da un punto non ben precisato del firmamento, pacificato ed attento, ancora capace di guidarlo. Poteva dunque accettare l’amore di Mael senza perdere quel riferimento, senza annullare quella che era stata la parte migliore di se stesso?
Eppure nulla era paragonabile alla devastazione che in lui aveva prodotto la singola scintilla di quel bacio: un incendio di proporzioni immani, dal quale era come sorto a nuova vita, dopo tempo immemore, tornato consapevole del peso delle proprie membra, dello scorrere veloce del sangue, del tuono del cuore, del ritmo incalzante del respiro.
Ed oltre questo fuoco appena divampato ma ormai impossibile da soffocare, ammirazione e complicità, fiducia e tenerezza, tutte concentrate in quel giovane uomo, che le aveva sapute suscitare con un’intensità che Jean non aveva mai sperimentato.
Per giorni faticò sotto il sole, nel pesante lavoro di calafatare il ponte, fra l’odore penetrante di pece ed il ritmo costante dei mazzuoli di legno, quasi che in quella fatica potesse celarsi la soluzione del suo dissidio interiore. Ed invero col passare dei giorni, quel subitaneo senso di colpa prese via via ad acchetarsi lasciando il campo al fulgore della possibile felicità.

La pausa del desinare stava scorrendo pigra all’ombra delle svettanti palme, dai piccoli crocchi di marinai si levavano di tanto in tanto risa ed imprecazioni, là dove si era conclusa una novella piccante o uno sfortunato tiro di dadi.
Jay come d’abitudine se ne stava discosto, lo sguardo a vagare dall’abbacinante candore dell’arenile a quello del sole riflesso nelle placide acque della laguna. Le sue mani non trovavano posa, svellevano e martoriavano gli arbusti all’intorno e pure il suo fiato era rotto come dopo una corsa forsennata.
Lo schiocco dell’ennesimo fuscello poi il giovane si presentò al falegname capo, chiese ed ottenne congedo.
La distanza che lo separava dalla casa di Mael fu bruciata con ampie e decise falcate, mai, neppure in battaglia, il suo incedere era stato così risoluto, il suo occhio così saettante.
Ignorò il battente, così come i due servitori che sonnecchiavano nel fresco dell’ampio salone a pianterreno. Divorò a due a due lo scalone patronale e l’angusta chiocciola che portava al belvedere.
Il capitano se lo trovò improvvisamente di fronte, gli sdruciti abiti da lavoro chiazzati di catrame e sabbia, incollati alla sua figura, quasi stillante per la foga di raggiungerlo. Il suo sguardo era rovente quasi più del corpo che gli si avventò contro, che lo chiuse in un abbraccio quasi doloroso, della bocca che si aprì sulla sua, famelica ed inesorabile.
Barcollarono avvinti sino a cozzare contro il massiccio tavolo di rovere, frenetici nel frugare e stringere, nell’inutile tentativo di spegnere la sete del reciproco desiderio.
Al fine il bretone si allontanò da Jay, quanto bastava per poterlo guardare negli occhi e favellare.
“Nessuno dovrà sapere!” l’ammonì, il volto del ragazzo racchiuso nella salda stretta delle sue mani.
“A che pro?” rispose il giovane inglese con eguale fermezza “Non voglio nuocerti, ne esserti d’intralcio. La Zephyr è tutto per te, tu sei quella nave e mai, sulla mia vita, mi frapporrò fra te ed il tuo destino di capitano! Chiedo solo di esserti accanto, di condividere come adesso il tuoi giorni, progetti, affanni, vittorie.”
E già stava nuovamente annullando la distanza fra loro, quando uno scalpiccio da basso, li indusse a rassettarsi ed appoggiarsi confusi a due lati diversi dall’ampio desco.
Beghe sui pascoli e l’indennizzo di un mutilato, imponevano l’autorevole presenza e mediazione del capitano.
Questi ascoltò accondiscendente le ambasciate e congedò gli astanti, assicurando il proprio intervento. Solo quando anche Jay stava per lasciare l’altana, l’invitò ad accompagnarlo ad una caccia programmata per il giorno successivo.
“Sarai con me?” gli si rivolse Mael, gli occhi illuminati da un trattenuto sorriso.
“Da oggi in poi, sempre!” fu la risposta.