"Un detto afferma che “Il mare prende ed il mare dà”. Io in questo mio viaggio di parole ho avuto la fortuna di incrociare una scrittrice di valore quale Arcadia. Ora le nostre strade si dividono di nuovo e dal prossimo capitolo la responsabilità di questo racconto ricadrà esclusivamente sulle mie spalle.
Colgo dunque l’occasione per ringraziarla ancora per ciò che abbiamo condiviso e sopra ogni cosa per aver creato Mael, figura assolutamente fondamentale per il proseguo di queste avventure. Sua è l’idea, l’imprinting che mi sforzerò di rispettare, utilizzandolo nelle pagine a venire.
Davvero non potevi farmi regalo più grande!"



 


Infinito come il mare

parte VI

di Katsushika

 


Ancora noia, inattività forzata, qualcosa di così lontano dalla più vera indole di Jay, da esser la peggiore delle condanne. Eppure a dispetto degli accadimenti, delle frasi sprezzanti del capitano Mael, in lui albergava il profondo convincimento che anche questa volta avrebbe avuta salva la vita. Sapeva bene che un navigatore accorto non rinunzia scioccamente ad un marinaio esperto, tanto più se si trova a governare un vascello che ha l'obbligo dell'autosufficienza ed in cui gli uomini ardimentosi non son mai di troppo. Restava da attendere e farsi trovare pronti, quando il giovane capo di quella masnada si fosse deciso a prendere in considerazione le sue tante abilità.
Erano passati un paio di giorni quando finalmente il dottore disse a Jay che era richiesta la sua presenza sul ponte di comando.Gli furono affidati degli indumenti adeguati e gli fu detto di prepararsi ad incontrare il capitano. Fuori il cielo splendeva del sole di mezzogiorno e il mare era una tavola appena increspata da lievi onde. La nave tagliava i flutti su una rotta nord- nord- ovest e le vele erano completamente spiegate per accogliere il vento. Sul ponte l'attività ferveva e l'arrivo di Jay fu accolto da occhiate curiose e alcuni commenti che si persero nello sciabordare del mare contro il legno della fregata.
Il dottore guidò il giovane fino al ponte di comando, dove Mael era piegato su alcune carte nautiche, assorto. Al loro arrivo, però, ripiegò le mappe e indugiò con lo sguardo sul nuovo venuto prima di parlare.
"Chiedevi cosa ne sarebbe stato di te. Ebbene, il tuo destino sarà nelle tue mani. Hai enumerato le tue qualità, ma semplici parole non sono sufficienti. Devi dimostrare che puoi essere un valido elemento per questa nave, altrimenti il mare sarà la tua tomba. Come vedi ti risparmio la forca!" Disse con voce dura, permeata però da un vago tono canzonatorio. Perlomeno la rabbia dei giorni precedenti si era spersa, anche se sembrava esser stata soppiantata da una non tanto velata crudeltà.
" Per prima cosa, sali in coffa ed i prossimi due turni saranno tuoi. Ricorda che una sola mancanza ti farà diventare lauto pranzo per gli squali" aggiunse prima di congedare con un cenno Jay e tornare alle sue carte e alle sue preoccupazioni.
"Agli ordini, mon Capitaine!" proruppe Jay, irrigidendosi in un quasi attenti, poi, vedendo l'ufficiale reimmergersi nel suo lavoro, prese spedito la direzione dell'albero di maestra. Malgrado fosse diventato mercante, mai aveva cessato di esercitarsi nella lotta e nell'uso delle armi. Nel suo anno in Cina aveva preso confidenza con nuovi stili di combattimento, che comportavano allenamenti ancor più duri e complessi. Insieme alla forza, aveva coltivato sempre più la sua innata agilità, di cui diede prova nell'arrampicarsi veloce, su fino alle sartie di gabbia, e prendendo agilmente possesso della sua postazione.
Era tanto il piacere di esporsi al vento, di percorrere l'immensa distesa blu, che i due turni, volarono e ridiscese sul ponte, come galvanizzato da quella vista, pronto a nuove corvè.
Sfortunatamente fu accontentato ed il suo fervore lavorativo venne saggiato con ben più gravosi incarichi. Le successive settimane, lo videro spesso chino sul ponte a spostar enormi matasse di cordame, o a lucidarlo metro per metro, al posto del mozzo; suoi furono i lavori di governo, nelle stive più basse, dove umidità ed aria stantia rendevano immani anche i gesti più semplici. Accettò di buon grado le incombenze di cucina e tutte le attività che, sui vascelli di cui aveva esperienza, venivano spesso imposte quali punizioni.
Era una gara di orgoglio, e più il capitano tirava la corda , più Jay dava fondo alle sue risorse. Non si sarebbe spezzato e neppure piegato.
Il capitano osservava con attenzione tutti gli spostamenti del ragazzo, la sicurezza dei suoi gesti e l'abnegazione con cui accettava ogni mansione. Quando non erano i suoi occhi a seguirlo, ce n'erano altri da lui designati. Mael ascoltava compiaciuto i resoconti: non si era sbagliato a giudicare Jay. Ora voleva verificare però i suoi talenti in altri campi.
Chiese ad alcuni dei suoi uomini più esperti di testarlo nella lotta e nell'uso delle armi.
Per le altre capacità di cui aveva fatto vanto, se ne sarebbe occupato egli stesso.
Rimase piacevolmente sorpreso nel vederlo invitare, spavaldo, il suo più abile spadaccino, un ombroso spagnolo, a singolar tenzone, armato di un semplice bastone. Fluidi ed eleganti erano i movimenti con cui quel semplice pezzo di legno scivolava nelle sue mani, prendendo velocità ed abbattendosi immancabilmente sul corpo dell'avversario. Si convinse che se tali stoccate fossero state indirizzate su punti vitali, si sarebbe trovato già da parecchi minuti orbato di uno dei suoi più validi combattenti. C'era grazia nel modo in cui si avvitava su se stesso per parare i colpi, denotando un perfetto controllo del proprio corpo. Ma ciò che più lo colpì, fu un luccicare ferino, delle iridi nere, quasi avessero preso ad ardere, via via che i colpi si facevano ravvicinati.
Vistosi alla mal parata, l’infido sivigliano, fece cenno ad uno dei suoi sodali, che non esitò a farsi avanti, per dargli manforte. Ma l'occhio fu ben più veloce della mano e Jay, dopo aver disarmato con un ultimo sonoro colpo il suo primo contendente, si privò con noncuranza del bastone ed avanzò con passo elastico a contrastare l’altro a mani nude.
Tutti conoscevano Baptiste, che doveva proprio all'efficacia del suo coltello, l'onere e l'onore, di esser marinaio sulla Zephyr. Istintivamente i membri della ciurma trattennero il fiato, pronti a veder scorrere il sangue del nuovo venuto e Mael stesso provò l'impulso di far cessare con un suo ordine il confronto. Eppure mai Jay era parso così consapevole e calmo e per questo forte, ben più del bestione che lo pressava, menando fendenti. Nessun assalto fu mai pericoloso, come se il giovane già conoscesse i passi di quella danza mortale. La sua eleganza, nel chinarsi e schivare, era davvero più prossima a quella di un ballerino che a quella di un soldato, ma l'unico colpo, sferrato di palmo, nel pieno centro del petto del marsigliese, dimostrò che niente è ciò che sembra. Il gigantesco francese crollò a terra rantolando, dando a Jay il tempo di raccoglierne l'affilato pugnale e depositarglielo gentilmente sul petto come a mimare una sepoltura.
La fine ingloriosa di un mito sulla nave pirata fu salutata da esclamazioni di sorpresa e dai sempre più convinti apprezzamenti per l'insospettabile, pericolosissimo asiatico. Mentre gli altri gli si stringevano intorno tempestandolo di complimenti e domande, quasi inconsapevolmente gli occhi di Jay, cercarono la sagoma del suo comandante, perchè era quella l'unica approvazione di cui gli importava.
Come tanti anni prima, su di un'altra nave, solo uno gli era pari e solo di questi bramava e temeva il giudizio.
Infine incrociò quei purissimi laghi verdi, che parvero incresparsi, per un istante, poi il Capitano Mael, si voltò per riprendere il suo posto, sulla tolda, intimando ai suoi uomini di fare altrettanto.

Le cose impercettibilmente cambiarono. Più che fatti, si trattava dell’atmosfera che lo circondava.
In un microcosmo che riconosceva come unica legge quella del più forte, ora tutti sapevano che lui lo era, in un modo del tutto peculiare, ma di cui tutti ormai erano persuasi.
Una certa deferenza prese a permeare i gesti, l’atteggiamento dei membri dell’equipaggio con cui aveva a che fare, e, consci del nuovo ascendente, gli ufficiali presero ad affidargli compiti di sempre maggior livello, che richiedevano preparazione specifica ma anche l’impiego di una certa dose d’autorità.
Quando la Zephyr fece infine scalo sull’isola di Kavaratti, a poco meno di un giorno di navigazione dalle coste del Kerala, Jay aveva già riconquistato il ruolo che gli competeva e che già aveva ricoperto sulla Glory Dawn prima e sotto le insegne del corsaro Surcout poi.
Prima che le vere, grandi tempeste oceaniche iniziassero ad imperversare su quel loro immenso terreno di caccia, si doveva far presto vela verso l’Africa, verso Lamu, il loro rifugio.
E fu così che per la prima volta Jay vide quell’accozzaglia di refrattari avanzi di galera diventare squadra, comunità.
Consci dell’importanza di quei pochi giorni in terraferma, tutti si prodigavano nell’affumicare carne e pesce, nel disseccare al sole i golosi frutti tropicali, che sarebbero così diventati garanzia di salute per l’intero equipaggio, per tutta la durata della traversata.
Un’operosità attenta mossa dalla ricerca del bene di tutti, del bene di ognuno, osservando la quale Jay non potè reprimere la crescente ammirazione per l’artefice di quella precaria armonia, di quella invidiabile efficienza.
Gli occhi severi di Mael vegliavano su quel caos organizzato con la stessa attenzione con cui sondavano ogni angolo del ponte, dall’alto della tolda.
Lo si poteva vedere, fino al tramonto, misurare a lunghe falcate la spiaggia e l’antistante villaggio, in cui i suoi uomini, come diligenti formiche, facevano scorte per le future settimane in mare aperto. Spesso l’aveva scorto urlare il ritmo ai marinai impegnati a trascinare a riva le reti o a sezionare grandi tronchi, ansante in mezzo a loro, l’ampio petto nudo, la pelle chiara resa lucida dal sudore perché il rispetto si ottiene anche con la fatica, con la condivisione ed il capitano della Zephyr al suo ruolo mai abdicava.
L’inizio della traversata fu affrontato con altrettanta serietà, ma a bordo si respirava un’aria nuova. La sera, davanti alla frugale cena e ai numerosi sorsi di rhum che ne seguivano, i discorsi finivano sempre più spesso sulla loro meta.
Jay apprese così che si trattava di un avamposto permanente appena sotto il corno d’Africa, a qualche grado dall’Equatore, nato e cresciuto per loro volontà. Là erano stati lasciati i compagni ammalati o quelli che erano sopravvissuti ad uno dei tanti scontri riportando però menomazioni tali da renderli inadatti alla vita sulla nave.
Fra razzie e baratti, le ampie dimore, da loro stessi costruite, si erano poi riempite di tutto quello che poteva rendere piacevole la vita agli ex marinai e a chi con loro la condivideva. Uomini e donne dai villaggi vicini ed altri che avevano incrociato il loro destino con quello della Zephyr, ora costituivano una comunità assai eterogenea ma ben organizzata e praticamente autosufficiente.
Alcuni prigionieri e parecchi uomini liberi garantivano la prosperità dei campi e delle mandrie che il piccolo centro abitato fortificato, proteggeva dal mare.
Molti fra la ciurma raccontavano sognanti di altere veneri d’ebano, che erano diventate loro compagne, attente custodi delle loro case, talvolta madri dei loro figli.
Era la forza di tutti quei cuori, della nostalgia che finalmente non più soffocata vi imperversava, a gonfiare muscoli e vele, in quella rotta verso ovest.
Jay ascoltava quegli scampoli di conversazione, percepiva quella smania crescente, con un senso di estraneità, che faceva male. Perché la melanconia che spesso dilagava in lui, impregnando ogni sua fibra fin quasi a paralizzarlo, non avrebbe mai trovato sollievo, qualsiasi rotta la sua vita avesse preso.
Già avvicinarsi alle coste dell’India era stato per lui un continuo supplizio di ricordi gioiosi, indissolubilmente legati a Rufus, che quel misterioso continente aveva disvelato ai suoi occhi, come un libro d’avventure, pagina dopo pagina. Perché quel sentimento profondo, a cui nessuno dei due aveva mai dato un nome, il loro sodalizio emotivo e pratico, era germogliato fra l’afa ed i profumi speziati di una notte a Madras.
A ripensarci adesso gli pareva una, due, dieci vite fa, tanto diverso si sentiva dal caparbio adolescente che era giunto in quel porto esotico.
Gli infiniti corsi e ricorsi del destino l’avevano voluto di nuovo marinaio, di nuovo combattente e fu a questa ineluttabile realtà che si appigliò per cancellare quei momenti di cedimento.
La responsabilità degli uomini ai suoi ordini, la possibilità di tornare a lavorare sulle carte nautiche, l’immutata abilità nell’utilizzo degli strumenti di misurazione, con l’apprezzamento e l’ammirazione che ne conseguivano, dovevano bastargli. Quello era il suo presente, dal quale attingere anche tutte le soddisfazioni possibili.
Ma proprio quando l’equilibrio pareva consolidato e le coste somale non erano più lontane ecco una nuova, pericolosissima tempesta prese ad infuriare, ben decisa a travolgerlo.