Sono orgogliosa di annunciare che una fra le più valide e versatili autrici in circolazione, ha dimostrato tale e tanto interesse per il mio racconto da volervi prendere parte in veste di coautrice.
Si tratta di Arcadia, che da tempo ci delizia e stupisce com pagine stupende.
Approfitto di questo spazio per ribadirle quale sommo piacere è e sarà condividere con lei la gioia e la fatica di questa creazione

 


Infinito come il mare

capitolo V

di Katsushika


L'oscillare del relitto aveva un potere ipnotico e sempre più spesso Jay cadeva alla tentazione del sonno, sapeva però che quelle era adesso un'insidia mortale. Dopo giorni di inedia, ormai senza acqua dolce, riarso da un sole crudele, l'oblio poteva solo significare la fine. Ogni volta era più difficile riprendere conoscenza e, ad ogni risveglio, sentiva la spossatezza vincerlo inesorabilmente.

Si malediva ora per la sua mente laica che gli aveva sempre impedito di prestar fede alla fandonie dei preti. Adesso, addormentarsi con la consolante certezza di rivedere Rufus, di riaverlo, così, accanto, avrebbe forse sedato ciò che ancora in lui non si arrendeva. Ma quei vecchi con le loro litanie, i loro moniti, nelle polverose cappelle fra l'erica, non erano mai stati in grado di convincerlo.

La certezza che tutto finisce con l'ultimo respiro aveva gonfiato di forza il suo petto ed il suo braccio in battaglia, aveva forgiato la sua mente al sospetto, alla cautela e così si era salvato, ogni volta.

Ora però non vi era nulla per cui lottare, nessun luogo da raggiungere, un’assemblea in cui primeggiare, l'occhio del suo compagno su di sé, a premiarlo col rispetto, a condividerne la gloria.

Morto Rufus aveva perso l'unica patria a cui avesse mai voluto fare ritorno.

Alzò gli occhi dal legno viscido per farli scorrere ancora una volta sull'orizzonte deserto e si stupì non poco dell’ombra in cui era immerso. Combattendo il pulsare delle tempie e la vertigine che la febbre ormai alta gli causava, si mosse e con gesti insicuri si pose a sedere sulle assi.

E solo quando infine voltò la testa, riconobbe il nero lucido della pece e la forma bombata delle assi della fiancata di un imponente vascello.

Stentò a credere ai propri occhi, convinto che fosse solo un'altra delle allucinazioni che sempre più spesso lo visitavano nel delirio. Tentò di sporgersi verso quell'improvvisa frescura, di articolare dei suoni, che la lingua gonfia strozzò sul nascere, poi il nulla lo inghiottì nuovamente e si accasciò incosciente.

 

La Zephyr era ancorata in quel mare, finalmente placido, dalla notte precedente. Era sfuggita alla forte tempesta, ma le onde alte oltre quindici metri e il vento superiore ai cinquanta nodi avevano trattenuto la fregata nel loro terribile abbraccio e non era stato possibile uscirne del tutto indenni. Alcune vele si erano lacerate, per quanto la solerzia dell'equipaggio avesse cercato di impedirlo. Sulle sartie era un brulicare di uomini indaffarati. Chi controllava il cordame, chi liberava i drappi bianchi per poterli sostituire con altri nuovi. Sul ponte, invece, i mastri velai, muniti di grossi aghi, iniziavano già a ricucire le vele che avevano riportato danni minori.

In coffa, un ragazzo di poco più di sedici anni scrutava attentamente la linea dell’orizzonte, confidando nei suoi occhi giovani ed acuti. Vide a malapena avvicinarsi il relitto trascinato alla deriva all’ombra della nave, nulla di più di un insieme mal tenuto di assi ma, appena parve chiaro, che non era solo quello, proruppe in un grido che allarmò l'intera ciurma.

"Uomo in mare!" urlò a pieni polmoni e indicò un punto ben preciso verso la poppa. L’avvertimento venne ripetuto come un’eco da molteplici voci.

Molti degli uomini abbandonarono le loro attività e si affacciarono alla murata. Un uomo meglio vestito, probabilmente il secondo, si infilò rapido in coperta e ne riemerse poco dopo con quello che doveva essere il capitano.

Dopo una breve discussione, una scialuppa fu calata in mare con a bordo sei marinai, che con energici colpi di remi, raggiunsero in breve il naufrago.

Il capitano osservava la scena dal ponte, attorniato dai suoi uomini, i capelli biondi legati in una coda, la camicia scura aperta sul petto e le maniche arrotolate fino ai gomiti. Solo il rispetto e la deferenza con cui veniva trattato indicavano quello che era il suo ruolo, in quella piccola città galleggiante.

Si scoprì ben presto che sulle assi vi era un giovane dai tratti orientali. Come fosse giunto fino a loro non ne avevano idea, ma lo trassero ugualmente in salvo. Anche in mare, dove nessuno può davvero appurare se le regole vengano o meno rispettate, esiste un codice d'onore che è al di sopra di qualunque nazionalità ed origine. Almeno in apparenza, almeno finché l’ancestrale legge del più forte non viene applicata.

Il naufrago fu accolto a bordo e portato nella rudimentale infermeria, una volta assodato che non portava armi e che era effettivamente inerme. I membri dell'equipaggio furono rispediti alle loro occupazioni, vegliati dal secondo, mentre il capitano si occupava dell'imprevisto ospite.

Si sarebbe potuto gioire della fortuna di Jay, sennonché, quando la nave ripartì, terminati i primi sommari lavori di riparazione, e la bandiera tornò a flettersi ed ondeggiare nel vento, la natura del veliero venne svelata. Candore di ossa su sfondo nero: si trattava di una nave pirata.

Nella cabina adibita ad infermeria, Jay era stato adagiato in una delle cuccette ed un uomo, che dava l'idea di aver passato in mare più della metà della sua vita, lo stava accuratamente visitando.

"Non ha ferite gravi, capitano, è solo fortemente disidratato e non escluderei una forte insolazione."

"Deve essere in mare dalla tempesta di qualche giorno fa..." constatò l'altro uomo, parlando più a se stesso che al dottore. I suoi occhi percorsero la figura tra le coltri, studiandola attenti. L'aria debilitata non nascondeva la bellezza dei tratti e non gli erano sfuggiti neppure alcuni dettagli, come i segni ai polsi e alle caviglie.

"Mi faccia sapere quando riprende conoscenza."

Detto questo fece per prendere la via della porta ma la voce dell'altro lo bloccò con la mano sulla maniglia.

"Aspetti capitano, si muove..."esordì il medico di bordo con gli occhi attenti sul giovane, che cominciava a scuotere il capo sul cuscino.

Prima un brusio indistinto in una lingua morbida, che non riusciva a riconoscere, poi poco a poco prese coscienza della piacevole frescura che lo circondava. Jay respirò a fondo nel tentativo di schiarire la mente, riattivare i sensi, riempiendosi il naso di quel rassicurante miscuglio di legno tirato a cera ed erbe officinali e salsedine. Quanto socchiuse le palpebre a fissare il basso soffitto, era ormai conscio di essere scampato alla morte.

Essere vivi, ma non esultarne, essere vivi e riottenere con tale consapevolezza anche il peso dei propri fantasmi.

Lentamente, mentre lasciava che la vista gli si snebbiasse, girò il viso di lato ed incrociò due occhi verdi e severi che lo fissavano.

Due giade incastonate in un volto dai tratti finemente disegnati e dalla pelle dorata dal vento e dalla vita all'aperto. Qualche ciocca bionda era sfuggita al nastro sulla nuca ed ora incorniciava pigramente la mascella volitiva, appena adombrata da una barba chiara.

"Bene, il nostro ospite è stato così gentile da risparmiarmi un viaggio." disse rivolto al medico che si era già chinato sul giovane per verificarne di nuovo le condizioni.

Nel frattempo il capitano si era posto appena dietro all'altro, di cui era un bel po' più alto. La camicia slacciata e le maniche rimboccate lasciavano vedere una notevole porzione di pelle brunita e il rilievo della muscolatura.

"Vediamo in che lingua parla. Gli faccia qualche domanda." Ordinò al dottor Aubert, sempre continuando a tenere lo sguardo ben piantato su Jay, pronto a carpirne ogni minimo pensiero ed ogni contrazione dei muscoli. Dava l'idea di un falco che ha puntato la sua preda.

"Ehm...vous allez bien? Quel est vostre nom?" esordì il medico titubante. ma il giovane sconosciuto si limitava a fissarli in silenzio. "Where are you from?" incalzò allora l'uomo, cercando di capire se davvero il giovane ascoltasse le sue parole. Gli occhi del naufrago parlavano al suo posto. Fissi in quelli del capitano, brillavano cupi, saturi di una disperazione rappresa, di una rabbia sopita che li rendeva liquidi e penetranti. Uno sguardo difficile da sostenere come se tutte le forze di quel corpo stremato vi si fossero raccolte.

"Tshie tshie" furono i primi suoni che uscirono dalla gola riarsa.

"Dove sono?" proseguì poi con voce limpida in perfetto inglese, spostando gli occhi ad esaminare la piccola camera-infermeria.

“Sei sulla Zephyr, ragazzo. Quale è il tuo nome?" rispose il dottore, una volta compreso in quale idioma esprimersi, e prese dal tavolo un bicchiere d'acqua per alleviarne la sete. Maël Delamer, questo il nome del capitano, era ancora immobile a guardarlo ed ora non nascondeva il suo interesse per il giovane. Aveva parlato in cinese ma conosceva anche l'inglese.

"Tieni" riprese Aubert, aiutando il ragazzo a sollevarsi, e gli pose in mano il liquido.

"Jay" e quella sillaba fu pronunciata con un chiaro accento di fierezza, un lampo negli occhi dall'esotico taglio allungato. Poi il suo viso tornò impassibile e si chinò sul bicchiere. Una volta finito di dissetarsi, si ridistese con un movimento fluido, di cui Maël non poté non cogliere il languore. "Grazie per avermi tratto in salvo, ero da giorni in mare. Vi devo la vita" ed il ringraziamento fu pronunciato in un francese senza inflessioni, che rendeva ancora più calda e carezzevole la voce del ragazzo.

 

"E' meglio che riposiate ora, tornerò più tardi a visitarvi." concluse il medico altrettanto sorpreso ed incantato dal mistero che circondava il nuovo venuto, ancora stringendo il bicchiere che questi gli aveva porto. Poi, come ridestandosi di colpo, girò sui tacchi e con gentilezza sospinse fuori dalla cabina il proprio capitano, facendogli chiaramente segno che aveva di che discutere con lui.

 

Delamer e il dottor Aubert si allontanarono dall'infermeria quel tanto che avrebbe permesso loro di parlare con riservatezza e senza il rischio di essere uditi dal loro strano ospite. Fu Maël a parlare per primo.

"Che cosa te ne pare?"

"Si riprenderà presto. Ma ha notato, capitano…?" chiese Aubert, lasciando la frase sospesa a metà e sollevando il polsi in un gesto allusivo.

Maël annuì semplicemente. Aveva notato subito i segni alle caviglie ed ai polsi. Quel ragazzo era un carcerato, senza ombra di dubbio. I lividi e le escoriazioni erano opera dei ceppi a cui era stato incatenato. Tuttavia non erano profondi, a riprova del fatto che la sua prigionia era recente.

"Come sai, non è un problema. Su questa nave sono tante le persone che hanno qualcosa da dimenticare… o nascondere." aggiunse il capitano dopo qualche attimo.

Si poggiò con una mano alla paratia lignea, l'aria assorta. L'altro lo lasciò fare in silenzio, attendendo pazientemente ordini.

"Facciamolo riprendere e poi vediamo di che stoffa è fatto. Come tu saprai, da questa nave si scende solo morti." si risolse a dire l'uomo. Il dottore fece un breve cenno di assenso, per nulla stupito dalle parole del suo capitano. La sicurezza di tutti era costruita su basi non sempre solide e Maël era costretto a mantenere il pugno di ferro per preservarla.

"Ne approfitterò per ottenere informazioni." aggiunse prima di tornare da Jay. Il capitano lo guardò allontanarsi ed entrare nella cabina, senza in realtà vederlo davvero. Il rollare della nave accompagnò i suoi pensieri mentre risaliva sul ponte a controllare come procedeva il lavoro. Era certo che sarebbe stato avvertito di ogni cambiamento o problema.

Appena uscito dal boccaporto chiamò a sé uno dei suoi acquisti più recenti, un ragazzotto nero sfuggito ad una nave negriera, e lo mise a guardia dell'infermeria. Meglio essere sicuri. Sapeva per esperienza che l'aria innocua non era certo una garanzia.

Nel mentre nella cabina, sottocoperta, il dottor Aubert si dedicava al suo paziente. Gli medicò le abrasioni e fasciò le incisioni delle catene.

Jay si sorprese nel constatare l'indifferenza dell'anziano medico per quei chiari segni di infamia e mille ipotesi presero ad affacciarsi nella sua mente.

Ad ogni buon conto, la febbre che ancora lo bruciava e la debolezza per quei tremendi giorni alla deriva, non gli lasciavano altre scelta che affidarsi alle loro cure. Mentre in silenzio seguiva i movimenti esperti dell'uomo, il pensiero riandò al capitano, perchè così gli si era rivolto l'ufficiale, malgrado età ed abbigliamento non fossero certamente consoni. Ma lo era quello sguardo acuto e fiero, fermo come può esserlo solo quello di chi non ha nulla da dimostrare, la cui autorità non possa mai essere messa in discussione. Si era agganciato al suo e questo non aveva fatto scattare come d'abitudine un moto d'orgoglio, semplicemente l'aveva incantato, aveva sospeso il tempo, annullato lo spazio. E malgrado percepisse il pericolo insito in quella strana malia, Jay dovette ammette d'esser pronto a raccoglierne la sfida.

Le ore trascorsero nella più perfetta solitudine, mentre intorno percepiva il rassicurante fermento che mai cessa su di una nave lanciata sulla sua rotta. Con la sera anche la febbre svanì e Jay, senza troppa fatica, verificò d'essere in grado di tenersi in piedi. Malgrado la discrezione del medico nulla lo assicurava del fatto che davvero la sua, a dir poco avventurosa nonché fortunosa evasione, fosse davvero riuscita.

Presto sarebbero arrivate domande ad indagare sulla sua identità e sul suo passato e con queste il concreto rischio di finire nuovamente imprigionato.

Il mare era calmo e certamente su quel vascello avrebbe potuto trovare ciò che gli era sufficiente per tentare, nuovamente, di prendere il largo da solo.

Decise di saggiare la resistenza del chiavistello che lo separava dalla libertà.

Una volta fuori si avvide appena in tempo del corpo di un giovane africano, addormentato scompostamente nel corridoio. Furtivo come un felino, lo superò agevolmente e nel più perfetto silenzio salì sul ponte. La luna, nel cielo tropicale, riluceva immota, donando alle lucide assi e, più in basso, ai placidi flutti, i suoi magici riflessi d'argento. Una piacevole brezza tendeva appena le vele e, con sua somma gioia, Jay constatò che anche lì l'unica vedetta che riuscì ad individuare, aveva ceduto al sonno. E quella appostata in alto, sull’albero di maestra, era troppo impegnata a frugare l’orizzonte nero per individuarlo.

Non poté fare a meno di sentirsi inebriato dalla vista dell'oceano, con i monotoni cigolii dei fasciami, come unica compagnia. D'istinto sollevò il capo in cerca di un vessillo, una bandiera che inconsciamente percepiva, avrebbe segnato il suo destino, ma certo a tutto era preparato tranne che a scorgere nella luminosità lunare, il sinistro biancheggiare di quelli che erano inconfutabilmente un teschio e delle tibie incrociate. Un istintivo timore lo invase, seguito d'appresso da una nuova consapevolezza, quella di esser ormai, agli occhi del mondo, null'altro che un reietto, su di una nave di rinnegati.

Non era stata la patria, né l'onore a guidare il suo pugnale, deliberatamente aveva ingannato ed ucciso a sangue freddo, rivelandosi abbietto quanto coloro che voleva punire.

Immerso in queste amare riflessioni si avvide solo all’ultimo di un'ombra che lentamente gli si era avvicinata, ed ora, voltandosi, poté distinguere chiaramente i tratti del capitano Delamer, anche se non gli riuscì di decifrarne l'espressione.

"Non ricordo di aver dato l’ordine di farvi uscire" furono le prime parole che gli rivolse. Vi era profonda irritazione nella voce ed era chiaro che qualcuno avrebbe pagato per la mancanza, che aveva permesso a Jay di trovarsi dov’era in quel momento. Maël aveva i capelli sciolti che ora rilucevano agli argentei raggi della luna e il volto in parte nascosto dall'ombra. Ma quella fioca luce lasciava ugualmente intravedere il fuoco che ardeva nelle pupille dilatate. Era furioso. Questo si riconosceva chiaramente dalla mascella contratta e dalla piega dura delle labbra.

Prese il ragazzo per il braccio. Non era una stretta dolorosa, tuttavia Jay poteva percepirne l'autorità. "Venite con me." Gli intimò con voce bassa e musicale, che si accordava alla perfezione con il dolce sciabordare dell'acqua contro lo scafo.

Dopo alcuni passi, dettati più dalla sorpresa, che dalla forza dei gesti del capitano, il giovane strattonò fino a trovarselo di fronte. "Ora che conosco la natura della vostra nave, ditemi, che intenzioni avete?" chiese, ben deciso a fronteggiarne l'ira.

 

Ma fu un silenzio teso quello che ebbe come risposta, così dopo pochi istanti, quasi senza riflettere proseguì "Come certo non vi sarà sfuggito, ho anch'io una forca ad attendermi! Ma a quanto pare qualcuno o qualcosa ha voluto che arrivassi sino a voi. So andare per mare e ne è la prova ch'io sia ancora vivo, per cui, ciò che chiedo, è di poter navigare ancora. So combattere e tracciare rotte, ogni lavoro andrà bene, quello che voglio è solo che quel patibolo resti vuoto!"

Il mento lievemente sollevato per poter fissare il proprio sguardo in quello del capitano, il corpo teso, il respiro sospeso, rimase fermo in attesa di conoscere il proprio futuro.

Un silenzio denso come le nubi plumbee che minacciano tempesta, la mano del capitano ancora sul braccio ed il suo sguardo infuocato e glaciale al contempo. Maël apparve come un rapace sulla preda e la presa su Jay s’intensificò, stavolta con il chiaro intento di provocare dolore.

Ma ancora non rivelò i suoi pensieri. Senza gentilezza alcuna e ignorandone la resistenza, lo trascinò verso l'accesso ai ponti inferiori. Solo allora si fermò.

"Jay… se ho afferrato correttamente il vostro nome." La voce del capitano aveva il tono di una frustata, un sibilo sottile. "Se avete capito che nave è questa, allora avrete anche capito cosa non è opportuno fare."

Lo spinse attraverso il boccaporto, la corta spada dall'elsa elaborata riccamente che sbatteva contro il fianco. "Quando avrò deciso se la vostra vita ha un qualche valore lo saprete. Statene certo."

Quelle parole a mala pena sussurrate, adesso pesavano su Jay quasi quanto una condanna. Mai, neppure in presenza del Corsaro Surcout, si era sentito tanto inerme. Se davvero la sua vita dipendeva dalle decisioni di quel giovane uomo, allora tacere ed attendere il placarsi della sua ira erano forse le mosse più sagge. Tirò e torse il proprio braccio finché la presa si allentò, ma appena libero si premurò di alzare entrambe le mani, continuando a camminare lento davanti a Maël, verso l'infermeria. Niente di più di un piccolo contentino, per il suo orgoglio, adesso, veramente ferito.

Lasciò che ce lo risbattesse malamente e che altrettanto violentemente rinserrasse la porta di quella che si rassegnò a considerare la sua nuova cella.

E dall'interno poté sentire la sfortunata sorte del suo guardiano.