Infinito come il mare capitolo IV di Katsushika
Il quartogenito dell’antico casato aveva ricevuto, come i suoi fratelli, un’educazione assai severa, ma l’inflessibilità del padre e dei precettori anziché ottenerne un uomo probo e volitivo, aveva avuto come unico risultato di esacerbarne l’innata propensione alla prevaricazione e all’autocompiacimento. Egli era infine approdato sulla penisola di Kowloon proprio per tacitare dicerie che, in patria, avevano più volte rischiato di esplodere in scandalo, circa le sue ire violente, l’amore per il gioco e l’abitudine a circondarsi di compagnie della peggiore risma. Anche ad Hong Kong si era presto guadagnato una sinistra fama fra gli avventurieri che affollavano le case da gioco ed i mezzani. Creditori e puttane che avevano da ridire con lui presto o tardi cadevano vittime di misteriosi incidenti o semplicemente sparivano nel nulla. Liquidate in fretta le merci dei magazzini ed ogni sua proprietà, saldati crediti e debiti, forte del denaro così rastrellato e di un odio smisurato, che dava continuo vigore alla sua mente ed al suo corpo, Jay si accingeva a portare a termine la sua vendetta. Grazie ai suoi contatti e a cospicue mance, riuscì in breve ad avere un quadro dettagliato di tutte le cattive abitudini che Sir Arthur assiduamente coltivava ed in particolare la sua attenzione si appuntò su quanto buona parte delle maitresse del porto confermava a mezza voce, riguardo alle particolari preferenze del “gentiluomo”, che spesso avevano lasciato le sfortunate prescelte non più atte a svolgere tale professione. Malgrado la sua disponibilità a tacitare col denaro ogni lamentela, era sempre più difficile offrirgli la compagnia richiesta. Jay iniziò a seguire discretamente l’uomo nei luoghi dei suoi svaghi notturni e con compiacimento scoprì che, quando decideva d’appartarsi con una prostituta, non permetteva alla sua onnipresente scorta, di seguirlo ai piani ove si trovavano le camere, ma li lasciava liberi di bere e giocare negli ampi saloni che si affacciavano sui vicoli. Frequentando tali ambienti il giovane osservava e prendeva mentalmente nota di ogni cosa: il modo in cui veniva contrattata la prestazione, gli atteggiamenti delle ragazze ed in particolar modo quale tipologia femminile maggiormente attirasse l’attenzione del corpulento trafficante. Data la statura e l’evidente obesità Sir Arthur generalmente si accordava per ragazze dell’aspetto solido e resistente di contadine, cosa che spesso andava a detrimento della grazia nei lineamenti e nei modi. Sera dopo sera nella mente di Jay si fece strada la convinzione che quella fosse l’unica circostanza propizia ad un agguato, perché certo il luogo ove, foss’anche l’uomo più feroce risulta inerme, è l’alcova. Vi era però il problema do ottenere la complicità di una tenutaria e, soprattutto, di garantirsene la fedeltà. Nessuna somma poteva metterlo al riparo da un volta faccia dell’ultimo minuto, dal possibile doppio gioco a cui tali donne erano avvezze e che l’avrebbe trasformato, da carnefice a vittima di Daguerty. Doveva, per garantirsi la riuscita, essere in grado di ingannare anche la sua involontaria complice. Alle prime luci dell’alba, mentre per l’ennesima volta si ritrovava solo a rimuginare sul da farsi, i suoi occhi annebbiati dalla stanchezza e dall’alcool, si posarono per caso sullo specchio che rimandava la sua immagine, soffusa dal tenue chiarore dorato del mattino: i lunghissimi capelli arruffati e sciolti, i lineamenti affilati dal dolore, la figura snella distrattamente avvolta in una pesante vestaglia di seta blu pavone, che con le sue iridescenze metalliche, esaltava magnificamente il suo incarnato tornato niveo e levigato, grazie agli agi in cui era vissuto da un anno a quella parte. Infinite volte aveva udito con fastidio commenti sulla sua avvenenza, su quanto la sua bellezza fosse di molto superiore a quella degli attori che, nel Teatro dell’Opera Imperiale, interpretavano leggiadre fanciulle, eroine sognanti ed appassionate. Un po’ per scherzo, un po’ per sincera curiosità in più occasioni ne aveva voluto vedere i ritratti ed aveva interrogati gli astanti in grado di fornire impressioni di prima mano su tali rappresentazioni. Avvalendosi degli innumerevoli artifizi da sempre al servizio della femminile beltà, forse sarebbe stato davvero possibile ingannare un pubblico dalla bocca buona, affascinare con l’eloquio forbito, celare mani e piedi, inequivocabilmente maschili, nella ampie volute di un abito sontuoso e così sorprendere Sir Arthur e dargli la morte che meritava. Nessun dubbio si affacciò nella sua mente, non si chiese se quell’azione fosse degna di lui né dell’uomo in memoria del quale armava la sua mano, le categorie del bene e del male erano state inesorabilmente travalicate dallo strazio della visione di quel corpo abbandonato sotto la pioggia battente. Semplicemente si annullò in quel ruolo, come il più consumato dei teatranti. E quando si presentò alla vecchia che gestiva la casa prescelta, proclamandosi vedova gravata dai debiti d’un marito non degno di lei, dichiarandosi pronta al sacrificio della propria onorabilità, lesse con soddisfazione negli occhi della mezzana il luccichio dell’avidità, per i lauti guadagni che un simile fiore avrebbe portato. La condizione che pose fu di soli tre incontri, nei quali lei avrebbe avuto diritto di scelta. Ad arte, voci che ne declamavano la bellezza presero ad inseguirsi in tutta la penisola ed anche oltre, tanto da innescare una gara al miglior offerente. In poco più di una settimana, si addivenì ad una conclusione ed il prescelto fu Daguerty. Impose di riceverlo in una stanza adeguatamente preparata, alla luce schermata dalla carta di riso, di alcune, piccole lanterne. La visione che offrì alla sua imminente vittima fu tale da far trasalire il rozzo inglese: l’acconciatura era l’elaborata architettura in voga fra le concubine imperiali, gli occhi due fosche stelle in un mare di cipria bianca e rosata, la bocca rimpicciolita ad arte sino a risultare un’invitante bocciolo purpureo. I gesti eleganti, il contegno altero, sublimati da infiniti strati di seta impalpabile, color dell’indaco; Sir Arthur con un solo sguardo , convenne con gli intermedia: nulla valeva quanto il privilegio d’essere al cospetto di una tale dea. Un lieve sorriso, piccoli cenni come onde ad increspare le lunghissime maniche, furono sufficienti ad indurlo a liberarsi della pesante palandrana del panciotto e degli stivali e a guidarlo, come in trance, a distendersi nell’alcova. Un movimento fluido delle spalle e l’irriconoscibile Jay emerse dal pesante abito ricamato e lo raggiunse fra i broccati. Si trovava finalmente al cospetto della causa prima della sua infelicità. L’uomo che più odiava la mondo, rapito dalla visone, reso inerme dal desiderio, giaceva immobile , in attesa. Jay lo fissò severo, l’aveva già giudicato e condannato, ma adesso la consapevolezza di poterne decidere la vita o la morte, gli toglieva il respiro, bloccava ogni azione, più di quanto non facessero le strette fasciature, dissimulate sotto le fini tuniche che ancora indossava, che avevano reso più femminee le sue forme. I secondi si dilatarono, nel più completo silenzio, per poi contrarsi intorno alla ferrea volontà che riprese il sopravvento. Immaginò le lame affondate in quella carne conosciuta, pensò all’incredulità, alla rabbia, alla paura che forse avevano accompagnato gli ultimi momenti di Rufus, ai rimpianti a tutte le verità che lui non era stato là a raccogliere, nell’attimo fatale del suo compagno. Era stata una morte violenta e solitaria, e col nostromo era perita anche la parte migliore di se stesso. Si risolse quindi a procrastinare l’esecuzione, a giocare, con lievi zampate, come il gatto col topo, prima di ghermirlo. Le lievi ma sapienti carezze avevano lo scopo d’accertarsi che fosse disarmato e di portarlo ad una stato tale di deliquio, in cui ogni sua reazione sarebbe stata di molto rallentata o nulla. Con gesti estenuati, di una lentezza ipnotica, gli slacciò la camicia ed i calzoni, gli occhi che cercavano gli occhi, per soggiogarlo con lo sguardo, superiore, il volto impassibile. Distacco, alterigia, che riuscivano ad intimidire chi, debole, traeva godimento nell’accanirsi su chi non ha difese. Carezze sempre più pesanti e lunghe, sempre badando a frapporre la seta fra sé e quella carne flaccida, contatto voleva dire mescolarsi a quella feccia, farsene insudiciare. Tra i fruscii, la veste di Jay si scostò appena, scoprendo la linea dritta della clavicola e l’uomo sotto di lui vi ci appunto lo sguardo, mentre il respiro si faceva sempre più affannato, trasformandosi in uno sbuffare rauco, di animale. Ancora non accennava a ribellarsi la sua preda, ormai travolto dal piacere che gli gorgogliava in gola e nelle viscere, pareva ormai privo di volontà propria. Come un docile bufalo d’acqua pronto per essere immolato. Fissandolo imperioso, Jay si sedette su di lui e lentamente, a simulare il gesto voluttuoso di sciogliere la massa serica dei capelli, sfilò dall’acconciatura il sottole stiletto che vi aveva celato. Un unico fendente, le due mani a premere l’arma a spaccare il cuore di Daguerty. Pochi rantoli rochi, gli occhi inutilmente sbattuti, più per sorpresa che per paura e la voce calda di Jay nell’orecchio, ad annunciare chiara il trionfo postumo: “Questo è da parte di Rufus!” poi gli si scostò, scese dal letto ed attese immoto che il suo unico nemico spirasse. Senza fretta si ricompose, reindossò il pesante chipao blu e raggiunse la sala sottostante. Individuò fra la folla gli uomini che avevano accompagnato Sir Arthur avvisandoli che il loro capo, sposato dalle fatiche d’amore, sarebbe rimasto a riposare per un po’ nella camera. Lasciò l’edificio e prese a percorrere il labirinto di vicoli, lasciando fluire pensieri e tensione. Ora che tutto si era compiuto, sentiva di non aver più volontà, né scopo ed anche i suoi passi erano senza direzione. Con quel vuoto assoluto che si dilatava dentro, rendendo sempre più lenti i suoi movimenti, approdò, chissà come, ad un portone che subito riconobbe. La quiete dell’antico cortile scese su di lui, i suoi occhi percorsero lenti i muri ed il pavimento di pietra, le ultime visioni del nostromo, e desiderò per un momento fossero anche le proprie. Si stese, ormai placato, esattamente al centro, ad imitazione dell’immagine di morte, che mai sarebbe svanita dalla sua mente, e finalmente lasciò che la stanchezza lo vincesse. Ancora riverso nello stesso punto, lo trovarono, più di ventiquattr’ore dopo, i componenti della famiglia che si apprestava ad occupare l’ex dimora di Rufus. Con cautela gli si avvicinarono, chiedendosi cosa mai ci facesse lì una dama di tale livello, sontuosamente abbigliata e truccata, abbandonata in un torpido dormiveglia. Jay si avvide della loro presenza solo quando gli si strinsero intorno per accertarsi delle sue condizioni. A fatica, allora, si rialzò, fra sospiri strozzati guardò per l’ultima volta quel luogo che li aveva visti sereni e felici, insieme, e, dopo un muto e profondo inchino, se ne andò. Bramava la solitudine ora e si incamminò così verso Tsuen Wan. Giuntovi superò le misere case dei pescatori, fino a raggiungere una piccola insenatura fra alti scogli, ricolma di morbida sabbia, orlata dalla vegetazione rigogliosa. Il luminoso broccato della sua veste fu trasformato in giaciglio e, come un naufrago, si risolse ad approntare un povero pasto di pesce e delle scarse derrate che, al villaggio, era riuscito ad ottenere in cambio dei gioielli che ancora lo adornavano. Di fronte a quella liquida immensità, con il rifluire delle onde come unica compagnia, si sentiva ancora unito al nostromo. Forse perchè a quei suoni e all’odore di salmastro erano intimamente legati tutti i ricordi che li vedevano insieme e dai quali Jay non aveva cuore di separarsi. In quel limbo semplicemente prese a lasciarsi vivere, aggrappato al passato, indifferente al futuro.
La scoperta del corpo di sir Arthur Daguertycon un pugnale conficcato sino all’elsa nel petto, ebbe l’effetto di una deflagrazione, tanto tumulto creò nell’intera comunità, malgrado quello fosse un luogo in cui risse e faide portavano una continua messe di cadaveri. Dato l’alto lignaggio della vittima, i membri influenti della colonia si incaricarono di un’indagine, ben decisi a consegnare all’augusto padre in Inghilterra, mandanti ed esecutori ed ottenerne adeguate dimostrazioni di gratitudine. L’altezza fuori dall’ordinario, l’abito regale, il trucco elaborato non erano passati certo inosservati e fu facile seguire le tracce della dama misteriosa sino alla casa teatro di un altro recente e clamoroso omicidio. La ricompensa promessa invogliò numerosi testimoni tra cui alcuni abitanti di Tsuen Wan. Riuniti un certo numero di armati, i notabili di Hong Kong penetrarono nella piccola baia, pronti a fronteggiare frotte di sanguinari cospiratori. Vi trovarono invece solo un giovane dall’aria stranita, che molti non ebbero difficoltà a riconoscere quale membro eminente dell’elite mercantile ed occasionale socio d’affari dell’altrettanto celebre Rufus. La proprietaria del bordello dove s’era consumato il delitto, da giorni veniva trascinata in catene nei luoghi dell’indagine, al fine di ottenerne l’identificazione dell’assassina. Stremata e segnata dal rude trattamento riservatole, indicò tremante l’abito abbandonato sulla sabbia e, senza esitazione, ravvisò in Jay la vedova che l’aveva ingannata. La voglia di risolvere l’incresciosa faccenda offrendo all’irato Pari del Regno, anche solo un capro espiatorio, convinse gli astanti ad ordinare l’arresto. Fu la sua indole indomita, più che la volontà, il suo spiccato istinto di autoconservazione che spinse l’accusato ad opporvisi e fu solo con il concorso di una decina di volontari e a costo di parecchi contusi che si ebbe ragione di Jay. Accertate le modalità dell’uccisione ed individuata la vendetta quale movente, dato che nessuno dubitava del coinvolgimento di Sir Arthur nella morte dell’ex-marinaio, con la soddisfazione di tutti, si organizzò il rapido rimpatrio del ragazzo. La prima nave disponibile era un veliero commerciale che si decise essere comunque atto allo scopo, tanto era il comune desiderio di liberarsi di quella scomoda presenza. Si convenne di porlo in ceppi e di rinchiuderlo in una cabina appositamente trasformata, con grate e porta blindata, e prevedere per il prigioniero razioni carcerarie, ma adeguate a fargli superare indenne la traversata. Per nulla al mondo Sir Daguerty padre avrebbe rinunziato al piacere di assistere personalmente alla tortura e successiva impiccagione dell’assassino del figlio. Per Jay, la desolante prospettiva di una vita senza Rufus, sarebbe stata forse motivo sufficiente per accettare la propria punizione, ma vedersela comminare da un altro borioso membro della famiglia Daguerty, era un’idea talmente odiosa da far risvegliare in lui orgoglio ed ardimento.
Ritrovarsi per mare dopo così tanto tempo, riconoscere i rumori, gli odori che erano oramai parte di lui, sarebbe stata fonte di profonda gioia, se non fosse che ora la potenza del vento poteva solo intuirla e, dell’immensità dell’oceano, gli era concessa una minima porzione, visibile fra le sbarre. A tutto ci si abitua, e presto il rollio riuscì a cullarlo in lunghe ore di sonno, malgrado le catene e la fame, che le gallette e lo scarso companatico, non sempre riuscivano a calmare. Dopo le prime settimane trascorse ad arrovellarsi, passò all’azione, ed in breve riuscì a recuperare alcuni chiodi ancora sani dall’impiantito e con questi, a svellere i ceppi che l’imprigionavano. Purtroppo tutto ciò serviva a ben poco, fin tanto che si trovavano in mare aperto, ciò che poteva fare era mantenersi in forze, provare e riprovare il piano di fuga nella sua mente, accantonando scorte di cibo, nell’attesa del successivo attracco. Mancavano una manciata di giorni e le coste di Ceylon si sarebbero palesate all’orizzonte, quando Jay la sentì arrivare. Un’improvvisa tempesta tropicale, unica, rara insidia di quel mare caldo e pescoso. Sentì il vento crescere impetuoso, sin quasi a rendere ingovernabili le vele, le acque far vibrare lo scafo, come se le stesse correnti avessero invertito, confuso il loro corso e più di prima imprecò per non essere libero, sul ponte ad affrontarla, a combatterla. L’impotenza gli faceva ribollire il sangue più di quanto non stesse facendo l’oceano. Il vascello di stazza assai inferiore a quelli con cui aveva affrontato quella stessa rotta, iniziò a beccheggiare in modo sempre più scomposto, invaso dall’eco di scricchiolii sempre più forti, e l’unico scopo di Jay divenne abbandonarlo, prima che fosse troppo tardi. Libero dalle catene, restava ancora la porta rinforzata, sulla quale prese ad accanirsi appena riconobbe, sopra la sua testa, il pauroso schianto dell’albero di mezzana che, spezzato, scivolava sul ponte, a pendere come un moncherino, trattenuto dalle cime, che gli uomini dell’equipaggio, ormai nel panico, non si risolvevano a tranciare. Non aveva vissuto, come aveva vissuto, per far la fine di un topo: questo si ripeteva mentre colpiva i cardini, sino a trarne scintille, invaso da forze che, dopo tutte quelle settimane di inedia e stenti, lui stesso non sospettava d’avere. La porta non resistette a lungo a quegli assalti, all’impeto della disperazione e, tra alti cigolii, cedette. Una rapida occhiata al corridoio deserto, un barile per ammassarsi le poche provviste che era riuscito ad occultare ed un otre d’acqua , trovato abbandonato presso le scale, poi veloce, guadagnò il ponte. Il vento impediva quasi il respiro ed il cielo era talmente livido da confondersi con gli alti muri d’acqua che ritmicamente s’abbattevano sulla coperta. La ciurma s’aggregava e si disperdeva, come formiche impazzite a cui è stato distrutto il nido. Sentì urlare di una falla a poppa, sotto l’albero caduto e notò che ampi tratti di murata erano scomparsi, inghiottiti dai flutti. Il tempo di riemergere da una nuova ondata ed ecco che la nave prese ad inclinarsi su di un fianco. Un movimento lento ed inesorabile che impietrì per lunghi momenti tutti gli astanti. Jay, brandendo una delle piccole asce assicurate alla parete della tolda, avanzò sul ponte, assicurò se stesso ed il barile con stretti nodi ad una porzione di assito che già sporgeva, pericolante sull’acqua, poi con pochi colpi lo separò dalla nave. Neanche il tempo di invocare i tanti dei che aveva conosciuto, che la piccola zattera fu travolta dall’uragano ed anche il suo stesso respiro svanì nel tuonare della tempesta.
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