Infinito come il mare capitolo III di Katsushika
La vita a bordo non era poi così diversa che sulla Glory Dawn, semplicemente, per quel primo periodo, ai nuovi venuti venivano assegnati i compiti più rischiosi e gravosi, era un po’ come essere stato retrocesso al suo vecchio livello di mozzo. La sostanziale differenza era l’atmosfera che si respirava nella ciurma: l’uso smodato di alcool e la possibilità di scommettere denaro nella partite ai dadi o con le carte, portava allo scoppio, quasi quotidiano di diverbi, che rischiavano sempre di trascendere in risse. Quel che mancava più che la disciplina era lo spirito di corpo, tutti loro non erano altro che un insieme disomogeneo di individualità, ognuna con un suo scopo, alla ricerca di un suo tornaconto, anche se tutti, indistintamente, riponevano la massimo fiducia e fedeltà nei confronti del Comandante Surcout, ed era solo il timore delle sue rappresaglie che tratteneva gli animi più infuocati. Sin dal primo giorno il corsaro aveva coinvolto Jay nelle attività di misurazione e lettura delle carte nautiche ed il ragazzo aveva così dimostrato con i fatti le capacità che aveva vantato, poi era stata la volta della conoscenza delle lingue, che più di una volta aveva fatto di lui l’unico possibile intermediario per dirimere spinose questioni fra uomini di così diverse nazionalità. Ma più frequenti erano i contatti con gli alti ufficiali, più spiacevoli diventavano gli insulti ed i piccoli sopprusi cui era fatto segno dai suoi facinorosi compagni, e anche questa volta avevano a che vedere con il suo aspetto, a loro dire, smaccatamente femmineo. Quel pomeriggio Raul e Luis , due dei guardaspalle di Surcout , l’avevano trascorso all’ombra del castello di prua, in compagnia di abbondanti razioni di rhum, modo assai comune per concludere la giornata di lavoro. Rufus, provato dalle corvè e non meno alticcio, si era già ritirato sottocoperta, ma Jay anch’egli stremato dalle lunghe ore sotto il sole tropicale non desiderava altro che raggiungere il punto più estremo della prua e restare , come suo solito, sospeso sull’acqua a godere del tramonto che già andava scolorandosi. Passò loro accanto tenendo gli occhi ben fissi davanti a se, ma pronto a reagire se provocato. “Ecco cosa ci vorrebbe adesso: una bella cinesina!” gli sbraitò uno dei due appena fu abbastanza vicino per sentire. “Sì, sì, vieni a tenerci un po’ di compagnia!” e così dicendo entrambi, non senza difficoltà, si rimisero in piedi. Gli si fecero incontro, cercando di chiuderlo contro la parete, presso il boccaporto che portava al deposito sottostante. Jay scattò in direzione di quello che gli era più vicino, colpendolo con un calcio all’altezza del ginocchio ed in rapida sequenza con un altro allo stomaco, concludendo con un pugno dato a mani unite sulla nuca, ora esposta, del malcapitato che già si accasciava a terra, mugolando. La rapidità della reazione aveva spiazzato l’altro aggressore che era rimasto imbambolato a guardarlo accanirsi sul suo compare, a quel punto però si riscosse e tentò di immobilizzargli le braccia. Ma Jay con una breve rotazione del busto si liberò agevolmente dalla presa afferrandogli saldamente il polso, forzando con l’altra mano rimasta libera sull’interno del gomito. Prese a torcerglielo, girandogli intono, gli spazzò le gambe e si ritrovò così dietro al bruto e sfruttando la dolorosa leva articolare, lo immobilizzo in ginocchio. “Chi è la femmina, qui? Chi è la femmina, adesso?” proruppe con il tono concitato dalla lotta. Sapeva che doveva farlo, ma fu a malincuore che intensificò la pressione sino ad udire l’urlo strozzato che accompagnò lo schiocco della spalla che si disarticolava. Tutti i me4mbri dell’equipaggio presenti sul ponte erano già da tempo intenti ad osservare, da debita distanza, il combattimento e fra loro Surcout, che a quel punto gli si fece incontro applaudendo con fare solenne. “Mes compliments, Jay!” e quella singola frase non segnò solo la fine delle angherie, ma fu una vera e propria consacrazione del suo valore e prestigio per tutta la nave corsara. Da quel giorno il ragazzo divenne uno degli uomini di fiducia del capitano, che lo utilizzava soprattutto per le trattative commerciali che intratteneva con i francesi di Maurizius e a loro insaputa, anche con diversi mercanti inglesi che facevano base a Ceylon. Nel volgere di pochi mesi gli fu data carta bianca sui traffici minori e sull’acquisto degli approvvigionamenti, con facoltà di allontanarsi dalla nave anche epr parecchi giorni, secondo delle incombenze. Ciò che però il corsaro non era riuscito ad indovinare era l’assoluto disamore che Jay provava per quel tipo di vita. Non si sottraeva certo agli scontri, anzi negli arrembaggi aveva dimostrato tutta la sua abilità strategica, nonché una non comune padronanza nell’uso di armi da taglio e da fuoco. Ma il giovane era certo di possedere la capacità di sottrarre beni e denaro al prossimo, con mezzi assai meno cruenti, quali l’astuzia ed un buon eloquio. Fu così che , complice una delle sue missioni a Ceylon, Il giovane riuscì a sottrarsi all’occhio vigile dei suoi accompagnatori e a prendere il largo, insieme a Rufus, su di un cargo diretto a Madras. Da lì, passando di nave in nave, in meno di un mese giunsero ad Hong Kong. Onde evitare un possibile riconoscimento e condurre i propri commerci indisturbati, decisero di cambiare nome ed aspetto. Rufus rinunciò non senza dispiacere alla sua barba ed adottò abiti assai più sobri di quanto gli era solito, mentre Jay prese ad acconciarsi ed abbigliersi come i tanti ricchi cinesi del luogo. A vederli parlottare nell’angolo più appartato di una delle tante animate case da the sarebbero certamente passati per un rubicondo mercante in compagnia dell’elegante figlio di una qualche alto funzionario imperiale. Nella massima discrezione, spesso operando separatamente, riuscirono a accumulare u significativo patrimonio, segnalandosi fra i più astuti intermediari di quel ricco microcosmo che ruotava intorno all’affollata penisola di Kowloon. Sotto il pavimento della dimora di Rufus avevano personalmente scavato u nascondiglio per il loro oro ed erqa stato lo stesso ex nostromo ad elaborare un complesso sistema di chiavi senza denti per aprire la piccola botola.
Rufus con alcune transazioni ben riuscite si era alienato le simpatie di Sir Arthur Lloyd Daguerty, anzi aveva dato il via con lui ad una vera e proepia guerra commerciale, occupandosi delle stesse mercanzie e finendo per contendersi fornitori e clienti. Questo galvanizzava l’ex marinaio perchè al piacere del guadagno poteva aggiungere quello di sfidare e vincere in astuzia uno degli uomini più in vista di Hong Kong. Quando Jay ne era venuto a conoscenza l’aveva però severamente ripreso ricordando che si trattava pur sempre del figlio cadetto di un Pari del regno e come tale, anche in quella propaggine sperduta d’Inghilterra, godeva di appoggi e privilegi la cui ampiezza era facile immaginare. E Sir Arthur in quella poco velata impunità amava crogiolarsi. Le sue abilità mercantili non era certo pari alle loro ma compensava con un’assoluta mancanza di scrupoli ed una buona dose di malevolenza, che ne facevano un tipo dal quale guardarsi. Forse proprio per questo il nostromo e si era ben guardato dal coinvolgere il suo giovane compagno negli affari che li vedevano contrapporsi. Ad ogni modo quando c’era di mezzo l’orgoglio Rufus risultava inamovibile e a Jay non resto che accettare il ruolo di spettatore e sperare che il tutto non travalicasse. Sfortunatamente, per il trafficante di nobili origini, Rufus era presto diventato qualcosa di più di una presenza molesta, si era trasformato in una vera ossessione. Un ostacolo alla propria affermazione e prosperità, che doveva essere eliminato, nel modo più radicale. Il denaro, scopo e premio di ogni tradimento, impiegato a tale scopo fu sufficiente a convincere anche Wong, unico servitore nella casa dell’ex-nostromo, che lui ed il ragazzo avevano conosciuto chino sotto immani balle di tessuto al porto, e che a loro doveva non solo il suo nuovo status ma il benessere di tutta la sua numerosa famiglia. Nel loro ultimo abboccamento, tre giorni prima, Jay ed il suo compagno, si erano accordati di ritrovarsi la mattina del ritorno del giovane da un breve viaggio che gli avrebbe permesso di visitare l’antica città di Foshan.La promessa era di trascorrere insieme alcuni giorni, nella pace di quella casa, a giocare a scacchi sorseggiando the hulong, scambiarsi commenti sui fatti del mondo, che giungevano loro con le navi e gli uomini del porto, ritessere le file di quell’intesa che era comunanza di idee e di intenti. Sedata dal tempo e dalla frenesia degli affari, la fisicità del loro rapporto era scemata sino a scomparire, quasi che il marinaio, ormai alle soglie della vecchiaia, avesse finito per ritrarsi di fronte all’uomo volitivo e consapevole del proprio fascino e delle proprie capacità, che Jay era diventato. Abbagliato dalla bellezza del tempio di Zumino, istoriato con simboli del Tao e col tetto lucente di ceramica colorata, il giovane si trovò a riflettere sul loro legame e, dopo tanto tempo, percepì nuovamente il profondo bisogno di condivisione che sempre l’aveva portato a volere Rufus accanto a sé, nel corso delle proprie esplorazioni, come se solo in sua compagnia, il mondo potesse apparirgli in tutti i suoi colori. In cuor suo si ripromise di usare la breve pausa che avevano deciso di concedersi per vivificare la loro unione ed attribuì a questo l’impazienza e l’apprensione che si erano impadronite di lui sulla strada del ritorno. Un pioggia fitta ed insolitamente fredda, per quella stagione, cadeva ormai da ore ed aveva trasformato le strade di terra battuta in disagevoli piste di fango, che affaticavano uomini e cavalli. Intermittenti tuoni rimbombavano nel ontano nella baia, come se il dragone delle 250 isole fosse sul punto di ridestarsi. Quel breve ritardo aveva riempito Jay di un’agitazione, per lui inusuale, e fu in preda a tali sentimenti che percorse, quasi correndo, gli ultimi isolati che lo separavano dalla casa. Giunto in vista del portone, ne vide uscire trafelato Wong. Il servo sempre inappuntabile, appariva febbrile nei movimenti e non si era neppure curato di rinserrare i pesanti battenti. Una morsa di freddo attanagliò il cuore del giovane, come un fosco presagio, che il cielo scuro ed ingolfato di nubi ribadì con un fulmine più vicino. In breve Jay lo raggiunse e senza tante cerimonie lo strattonò contro un muro. Gli occhi che incrociò erano dilatati del terrore e la mandibola del vecchio tremava senza che questi riuscisse a proferir parola. Il ragazzo gli fece ripercorrere a forza la via verso la dimora, senza lasciare la presa, varcò con lui il gradino della soglia ed avanzò nella calma del cortile.
L’uomo che aveva segnato il suo destino, l’unico suo affetto, giaceva riverso sulle dalle, rese lucide dalla pioggia. Senza più pensare Jay gli si precipitò accanto, con fatica lo sollevò e rivoltò per fissarne il volto. Ma gli occhi scaltri che lo avevano guidato sino ad allora, che avevano vegliato sulla sua crescita, fissavano ora immoti il cielo, insensibili alle gocce che andavano a riempirli come lacrime. Il sobrio panciotto era aperto in più punti da piccolo squarci, dai quali balenava appena la carne viva. Guardando freneticamente attorno Jay scorse due rudimentali coltelli e la corta spada del suo compagno, e registrò a stento il pesante coperchio di pietra del loro piccolo caveau, sollevato a rivelare la piccola cella vuota. I suoi occhi erano per Rufus, mentre già nella mente si affollavano i ricordi: un sorriso sornione dopo una battuta sagace, la severità del suo volto mentre impartiva ordini alla ciurma e poi i momenti più veri e privati di quell’uomo forte e capace: le rare occasioni in cui aveva palesato dei dubbi, il dono prezioso dei suoi ricordi, quel suo modo di stringere i denti e gli occhi di fronte al peso della stanchezza e delle preoccupazioni. C’era un Rufus segreto che si incantava al suono della sua voce, che si beava della vista del suo corpo scattante, dei suoi tratti eleganti; noto solo a lui, che ne aveva incrociato il suo sguardo dardeggiante fra le urla ed il clangore della battaglia, così come nei rapidi e furtivi scambi di un piacere rude e trattenuto, che nessuno dei due aveva mai voluto o saputo lasciar travalicare in aperta passione. Dolore, amore, solitudine, rimpianto, tutto si coagulò in un grumo dolente e, come se mani crudeli tentassero di strappargli a vivo carne della sua stessa carne, eruppe in un urlo animale, che neppure i tuoni riuscirono a celare. Solo questo voleva fare, gridare finchè quel Dio in cui non aveva mai creduto o la stessa misericordiosa madre terra, accorressero a bloccare il flusso del tempo, a rimediare miracolosamente a quella insostenibile perdita. Proseguì a quel modo per interminabili minuti, finchè, in un solo istante, riacquistando ragione e lucidità, la sua attenzione si appuntò sul vecchio servo, che dal portico era restato, tremante testimone della scena. Wong assistette paralizzato al deformarsi del suo viso: gli occhi seducenti ridotti a fessure di nera e fredda ossidiana, l’intera sua complessione d’improvviso trasfigurata in una maschera di ferale violenza e determinazione. Se lo ritrovò addosso, a sibilargli un’unica domanda “Chi?” e all’uomo bastò specchiarsi in quei pozzi traboccanti furore e pazzia, per capire che nessuna minaccia sarebbe stata più letale del silenzio che ne seguì. Fra i singulti si sgravò la coscienza, indicando da chi e dove era stato avvicinato ed infine corrotto. Spergiurò sulla vita dei propri figli che il suo unico compito era stato quello di dimenticare aperto un chiavistello, per facilitare un furto, e non certo l’omicidio del benefattore che lo aveva sollevato da una profonda miseria. Dalle descrizioni, Jay aveva riconosciuto tre esperti tagliagole, che molte voci dicevano essere al soldo di Sir Arthur e si risolse a sfogare su di loro il suo desiderio di uccidere. Un’ultima occhiata traboccante disprezzo e Wong fu scaraventato lontano, in un angolo, come un inutile fagotto, ogni suo attimo, ogni sua energia doveva ora essere consacrata alla vendetta. Per giorni battè palmo a palmo, bettole e bordelli del porto, incurante della pioggia e della stanchezza. Era una fiera in caccia, con i sensi all’erta, pronta a ghermire in ogni istante. Quando la sera del terzo giorno li individuò, scompostamente allungati su uno dei tavoli di un’infima bisca, del raffinato gentiluomo mancese che aveva finto di essere, restava ben poco: gli occhi seganti dalla veglia forzata, i tratti smagriti dalla sofferenza e dalla tensione, gi abiti ridotti a stracci informi ed inzaccherati, si aggirava come in preda ad una febbre, ad un delirio che solo il sangue avrebbe placato. Ma prima di ricambiare il trattamento riservato a Rufus, da quei pendagli da forca, voleva una conferma: il nome del mandante. La partita a majong che propose loro, era solo un pretesto per dare la stura a battute e discorsi sconclusionati, ben innaffiati da vino di riso e grappa. Impiegò poco più di un’ora a convincerli d’essere uomo della loro stessa risma e tutti e quattro presero a vantarsi delle rispettive prodezze. Quando, con fare guardingo, accennò ad una ricco mercante la cui casa avrebbe certo meritato una visita, aggiungendo poi precise indicazioni sulla dimora di Rufus, i tre proruppero in fragorose risate, prendendo a narrare, tronfi, tutti i particolari dell’omicidio, compresa l’identità di chi quell’impresa aveva suggerito e finanziato. Con sforzo sovrumano Jay riuscì a mantenersi impassibile e propose ai nuovi compagni di bevuta, ci concludere degnamente la serata in un bordello poco distante. Eseguì la sua sentenza di morte, poco dopo, in una stretto vicolo, male illuminato, ma già mentre riponeva l’affilato pugnale con cui aveva trapassatoli cuore dei tre malfattori, capì che prendere quelle vite non aveva portato al sollievo sperato. Era solo una la preda che bramava: un grasso ed infido topo di fogna, che viveva all’ombra dello stemma dei Daguerty.
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