Infinito come il mare

capitolo II

di Katsushika


Risalirono piano l’estuario del Huang Pu evitando a fatica le numerosissime imbarcazione di ogni foggia e dimensione: dalle semplici zattere formate da enormi bambù lievemente ricurvi, alle giunche grandi e piccole, con le loro vele dalla strana forma, ne rande ne fiocchi e di quel rosso mattone che spiccava netto in contrasto al verde intenso della vegetazione delle rive, e poi gli imponenti vascelli inglesi e qualche vecchio galeone dal cassero baroccamente ornato.

Infine eccola Shanghai , porta d’oriente, animata giorno e notte dai mille traffici, legali o meno, dei suoi mercanti, dall’agitarsi operoso degli artigiani nelle minuscole botteghe, sempre vivificata dal partire e dall’arrivare di genti delle infinite etnie del grande impero, snodo cruciale del commercio cui giungevano dalle province più remote, stoffe e tappeti, porcellane e gioielli e mobili fastosamente laccati  e tutto per offrire alla lontana Europa quei raffinati oggetti di cui la nobiltà e la nascente borghesia sembravano non poter più fare a meno.

Sulle ampie scalinate di pietra che degradavano fino a pelo d’acqua, già si scorgeva un brulicare di uomini, piegati dal peso di enormi canestri di giunco intrecciato, stipati di ortaggi sconosciuti e di animali, che arrancavano a fatica fra barche in secca e piccole palafitte.

Tutto ciò trasmise a Jay un fremito, un piccolo assaggio dell’identità  profonda di quel luogo, di quell’infinita distesa di fragili edifici in legno, di quel mare di tegole grigie dagli angoli all’insù da cui si levava incessantemente un boato, il rumore stesso della vita. E questa volta fu lui a trascinare Rufus giù dal ponte, a tuffarsi in quella marea umana, vociante ed attiva. Sentiva che lì avrebbero visto cose inimmaginabili, scoperto preziosi tesori, negoziato con profitto l’acquisto di piccoli oggetti da rimpatriare all’insaputa del capitano, che avrebbero certo contribuito ad assicurar loro un confortevole inverno a Londra.

Già dalla sosta a Canton aveva potuto metabolizzare lo shock di quei volti così simili al suo ed assaporare il piacere di muoversi indisturbato, confondersi senza problemi fra gli abitanti di ogni quartiere, lui che da sempre era stato additato e deriso per il suo aspetto esotico.

Con tutto il suo impegno si era da subito votato allo studio di quella lingua che pareva cantata, così complessa da modulare, così precisa nell’accentazione tanto che solo il tono distingueva una madre da un asino. Eppure la gioia del non sentirsi straniero, la profonda malia che suscitavano in lui quei tratti familiari, gli avevano permesso di acquisirla agevolmente , così come di memorizzare parte degli ideogrammi basilari.

Le trattative che seguirono nei numerosi e concitati giorni del loro ultimo scalo cinese diedero i frutti sperati. Le piccole giade finemente cesellate suscitarono la meraviglia dei loro intermediari in patria, che non faticarono a collocarle a prezzi astronomici. Il che permise l’affitto in piena Londra di un confortevole alloggio con tanto di governante in una via rispettabile, che lo stesso Jay aveva scelto perché vicina a teatri e librai, di cui divenne da subito assiduo frequentatore.

A quella prima traversata ne fece seguito una seconda e a questa una terza, nella quale il ragazzo fu elevato al rango di marinaio scelto, col compito di aiutare gli ufficiali nelle misurazioni e nei calcoli della rotta. Purtroppo Rufus non riuscì a bissare il successo del doppio ingaggio e dovette rassegnarsi a vedersi soppiantare da un giovane, ma autentico medico.

Dell’indomito ragazzino che tre anni prima aveva messo piede sulla Glory Dawn con gli occhi sgranati dalla meraviglia, rimaneva ben poco. L’esercizio fisico cui il giovane si era sottoposto anche durante i lunghi inverni di ferma, aveva contribuito non poco a cambiare il suo corpo. Le linee slanciate del fanciullo erano rimaste ma su di esse si profilavano ora guizzanti muscoli che rendevano potenti ed efficaci i suoi affondi di spada così come i suoi colpi a  mani nude. L’approssimarsi dell’età adulta l’aveva poi fatto crescere in altezza ad una velocità sorprendente tanto che ora sovrastava Rufus e buona parte degli altri marinai. Sempre morigerato in tutti i divertimenti, si concedeva adesso il piacere della pipa, un piccolo ed elegante oggetto in radica di rosa, regalo del nostromo, che amava riempire con un morbido tabacco danese, dal sapore dolce-amaro di caramello, di cui non mancava di fare grandi scorte ogni qualvolta attraccavano golette provenienti da Copenaghen. Di quel passatempo apprezzava in particolar modo il sentore di tabacco che stagnava su abiti, capelli e pelle e che a suo dire gli conferiva una maggiore, maschia autorevolezza. Perché questo era il suo cruccio, malgrado l’età solo una misera peluria era andata ad adombrare i suoi delicati lineamenti e tutto il suo corpo era rimasto pressochè  glabro, se confrontato con l’irsuta accozzaglia della ciurma.

Unico punto fermo nel turbinio di cambiamenti, l’unico riferimento in quella vita avventurosa ed errabonda restava sempre e solo Rufus, che anche nei piccoli momenti del quotidiano gli aveva dimostrato un’attenzione ed una dedizione assolute. Nella sua discrezione , scevra di inutili adulazioni, Jay  poteva però sempre trovare il gesto nello sconforto, la lode se meritata ed una sincera ammirazione ed orgoglio per i traguardi che era riuscito a raggiungere. Padre, maestro, socio, complice ed amante, conscio del  ruolo che giocava nella sua ancora breve esistenza, era accanto a lui che Jay immaginava di vivere e prosperare in quella spola fra gli oceani.

 

Provati dai lunghi mesi in mare, ma impazienti di monetizzare gli oggetti del loro piccolo contrabbando, avevano lasciato da parecchi giorni Madras ed ora veleggiavano in direzione delle coste d’Africa.

L’arcipelago dal quale si erano tenuti ben discosti, Mauritius, era generalmente noto quale covo di corsari. Per questo, come d’abitudine in tali frangenti, tutto l’equipaggio per più di una settimana si era dovuto sobbarcare anche di stretti turni di guardia. A ben vedere nei loro viaggi, pochi erano stati gli incontri coi predoni del mare, poco più che piccole scaramucce, tre, quattro cariche delle colubrine, sufficienti a segnalare che vi era stato l’avvistamento e che la loro potenza di fuoco era sufficiente a reggere e vincere lo scontro. Quel che Jay sapeva degli arrembaggi gli arrivava solo dei coloriti racconti del nostromo e degli altri membri anziani dell’equipaggio.

Anche questa volta l’avvistamento c’era stato, ma da tale distanza non si poteva avere la certezza che fosse una nave corsara, anziché uno dei tanti mercantili impegnati nella loro stessa rotta.

La mattina del nono giorno si ebbe la sgradita conferma. Il vento completamente in poppa aveva permesso agli inseguitori di recuperare buona parte del distacco e quel che è peggio, ora era chiaro trattarsi di una nave di eguale stazza, quindi altrettanto ben fornita d’armamenti.

Dalle attente misurazioni in appoggio all’ufficiale in seconda, fu possibile tracciare una previsione di rotta delle due imbarcazioni e Jay indovinò con sgomento che si sarebbe arrivati allo speronamento , con in più l’aggravante di non poter cannoneggiare efficacemente l’avversario fino all’ultimo momento, perché l’astuto antagonista aveva fatto sì di incrociarli con un angolo di meno di 45°, inibendo così l’uso dei pezzi d’artiglieria. Anche un repentino cambio del velaggio, non avrebbe migliorato se non di poco la situazione ed avrebbe sottratto tempo ai preparativi per l’ormai prossima battaglia.

Nel giovane più che il timore, prevaleva la smania di dar prova del proprio valore, di poter mettere a frutto tutte le tecniche affinate in quegli anni di addestramento. L’unico tentennamento lo ebbe , quando Rufus piazzandosi a gambe larghe sul ponte di poppa, lo chiamo a sé e gli consegnò una delle sue pesanti sciabole, sostenendo che ormai la sua abilità andava declinando, mentre invece Jay sarebbe riuscito con maestria a maneggiarne due. Il ragazzo accettò con riluttanza il dono e non riuscì a trattenersi dal baciarlo rapidamente, prima di ritornare al posto assegnatogli.

La prima batteria sarebbe stata determinante per le sorti dello scontro e quindi tutti i cannocchiali erano spasmodicamente puntati sul nemico per indovinarne le mosse. Quel giorno però la fortuna non parlava inglese e ciò che fu possibile vedere fu solo il fumo della salva ormai esplosa.  Anche dalla Glory Dawn partirono i primi proiettili, pochi istanti prima dell’impatto di quelli nemici, che saggiamente avevano mirato più in alto dei resistenti fasciami, ottenendo così di falciare una buona parte degli uomini rimasti sul ponte ed andando ad intaccare pericolosamente l’alberatura di prua.

La seconda sequenza non fu necessaria perché già in tutto il vascello era rimbombato il tuono dello schianto che la polena corrazzata aveva provocato mentre squassava tutti gli ordini di ponti del cassero.

Costretti in quel terribile abbraccio gli uomini si disposero al corpo a corpo che imperversò con repentina violenza finchè della ciurma inglese non rimasero in piedi che poche decine di membri. L’intera nave risuonava dei flebili lamenti dei feriti ed ovunque era sangue, corpi contorti e membra amputate, l’orrida mattanza che ogni battaglia porta con sé.

Fra i superstiti, zuppi anch’essi del sangue proprio ed altrui vi erano sia Jay che Rufus.

Con spintoni ed urla nelle lingue più disparate furono radunati, mentre intorno si procedeva a finire i feriti gravi. Ed ecco avvicinarsi un uomo, circondato da marinai che per corporatura e ferocia potevano essere identificati come guardie scelte, addobbato in un’uniforme, che ad un più attento esame risultò essere un’accozzaglia di abiti di tre o quattro eserciti diversi.

In un inglese nasale, con un’inequivocabile accento francese, quello che pareva essere il capo dei corsari, prese a chiedere il grado e le specializzazioni ad ognuno dei prigionieri, seguito d’appresso da un presunto cerusico che sommariamente valutava la gravità delle ferite ed il loro stato fisico generale. Poche parole nell’orecchio del suo comandante ed il malcapitato veniva passato a fil di spada sul posto.

Il cuore di Jay esultò quando, sei uomini prima di lui, il nostromo venne risparmiato.

Giunto il suo turno, con poche parole elencò in un francese più che discreto le sue numerose mansioni e conoscenze, suscitando una smorfia tra il canzonatorio e l’ammirato da parte del corsaro.

Terminato di passarli in rassegna l’uomo si complimentò con i superstiti per il valore dimostrato in battaglia, lo stupido orgoglio inglese gli era costato molti validi marinai, quindi annunciò l’intenzione di integrarli nel suo equipaggio. Poi passando al francese ordinò lo svuotamento delle stive al fine di poter affondare la Glory Dawn, ormai inservibile.

Fu così che due mesi prima del suo diciassettesimo compleanno Jay passò agli ordini di Robert Surcout, corsaro patentato per conto del Re di Francia.