Infinito come il mare capitolo I di Katsushika
Polperro, a John stava stretta. Da sempre sapeva che non sarebbe stato pescatore come suo fratello, suo padre, il padre di suo padre, generazioni di uomini taciturni, bruciati dalla salsedine. Le case affastellate del suo villaggio, spesso non gli sembravano altro che un triste tumulo di pietre annerite dal tempo. Lui era speciale e presto anche gli altri se ne sarebbero accorti. John sapeva capire il mare, prevederne i repentini cambiamenti, come se riuscisse a vedere distintamente sotto i flutti il mutevole mosaico delle correnti, sentiva il vento ed anche in mezzo alle tempeste più pericolose qualcosa gli permetteva di restare calmo, padrone della propria mente. Certo fu con suo padre che iniziò ad andar per mare, poi spostandosi di porto in porto, guidato da una volontà incrollabile, si fece un nome. Più diventava bravo, più i suoi ingaggi ricchi, sempre con incarichi più importanti, su navi sempre più grandi, a rispondere delle merci preziose e di decine di uomini, sulle rotte oceaniche. Pensava che non si sarebbe mai fermato, era certo che nulla l’avrebbe distolto dal suo perpetuo cercare, ma quando, complice un problema al velaggio, approdò a Tinian, appena incrociò quel mite sorriso, pensò che forse la ricerca era finita. Non volle rinunciare a quel suo primo amore, sensuale e puro insieme, al profondo senso di ristoro che solo riusciva a trovare fra le braccia di quella dolce creatura, dal volto di bambola e dal corpo di ninfa. Promise che si sarebbe preso cura di lei ed ella lo seguì, devota e fiduciosa, dall’altra parte del mondo. Quando dopo anni rivide la banchina del porto della sua città natale fu solo per scoprire che nulla era cambiato, ma lui orami non era più uno di loro, lui adesso apparteneva all’altrove. Non c’era posto per lui lì e non ce n’era neanche per la compagna che si era scelto. Quella moglie bambina, adesso eternamente infagottata, lo scialle calato sui capelli lucenti, non per pudica modestia, per il riserbo femminile di cui blaterava il pastore dal pulpito, quello non le era mai stato insegnato, solo per proteggersi dal vento gelido ed umido che sempre imperversava nelle stradine tortuose ed inseguiva i trafelati passanti sin nelle loro povere case, lei che era nata nel sole, nel calore della terra rigogliosa e del mare cristallino. Tutti concordavano sulla sua bellezza, ma subito le donne del villaggio si affrettavano a ricordare la sua stupidità. Il suo inglese era più che stentato ed ancora meno comprendeva il gutturale dialetto di quella remota cittadina incassata tra le scogliere. Alla gente era incomprensibile il fatto che qualcuno non conoscesse il loro idioma, loro che non avevano mai visto altro che quelle case, addossate le une alle altre e quelle onde grigie come il cielo. Solo John aveva viaggiato superando gli oceani ed era tornato a raccontare, a stento creduto, di posti dove le spiagge erano bianche o rosa, di felci che si innalzavano ben oltre la testa di un uomo, e di un mare straripante di vita, azzurro e verde come i vetri della chiesa quando un raro sole li attraversava. Il tempo di far suggellare quell’unione dalla santa chiesa d’Inghilterra e di lasciare in lei il suo seme, e poi il mare vinse, lo reclamò per se. Così lasciò la sposa ad attendere e partorire il suo bambino in quella famiglia sconosciuta ed ostile. Non fece più ritorno. Il piccolo Jay crebbe così dilaniato in quella continua faida, diviso tra una madre silenziosa ed adorante e la famiglia di suo padre che pretendeva per lui una severa educazione occidentale. Ma il suo cuore risultò subito più forte delle punizioni che con frequenza ed arbitrarietà gli venivano comminate. Il suo carattere si fortificava certo ma a scapito dei suoi educatori. Più cresceva più si palesava la sua assoluta differenza da quelli del suo clan e da tutti i compaesani. I tratti del suo viso denunciavano le sue origini: la forma allungata degli occhi neri e brucianti, i capelli anch’essi neri come quelli di sua madre ed altrettanto belli, malgrado l’umidità e la sporcizia, da sembrare morbide matasse di fili di seta, gli zigomi alteri addolciti dal naso delicato, così inadatto al volto di un maschio, come non stancavano di ripetere parenti e conoscenti. Ma quel che più gli alienava l’amicizia dei coetanei e l’accondiscendenza degli adulti non era tanto la bellezza fisica, quanto un acume, un’intelligenza vigile e precoce, accompagnata da un’irrefrenabile sete di conoscenza, di cultura, che certo non trovava di che nutrirsi nella desolazione dell’erica di Cornovaglia. E arrivò il giorno in cui la tenera fanciulla che l’aveva generato, non fu più in grado di proteggerlo. Finì per soccombere all’ennesimo rigido inverno, come avrebbe fatto ogni altro radioso fiore tropicale. Nessuno più a raccontare di quelle isole dove la vita passava dolce, in armonia con la natura, dove anche gli animali avevano l’anima e come tali dovevano essere trattati. Quell’ultimo caldo raggio di un sole lontano , ma egualmente reale e vivificante, si spense con lei. Non la pianse per non regale ai suoi congiunti la completa vittoria, anzi prese a rigettare tutto ciò che da loro veniva. Si appropriò degli abiti di sua madre, cercando di ricreare in se, l’immagine di quegli avi coraggiosi guerrieri e saggi marinai, uomini di autentica virilità, malgrado i lunghi capelli, le lunghe gonne ed i fiori intrecciati. E agli insulti prese a rispondere con scatti di furente violenza. Isolato, deriso, a Jay non restava altro che gli insegnamenti di sua madre ben radicati nel cuore e un’irrefrenabile voglia di andare lontano. Fu così che il primo, vero regalo lo ottenne per i suoi tredici anni e fu l’annuncio che presto sarebbe stato accompagnato a Portmouth e lì imbarcato su di una nave mercantile , come mozzo. Il viaggio gli sembrò lunghissimo tale e tanto era il desiderio di scoprire cosa una vera città poteva offrire. Non fu deluso, anzi completamente frastornato l’attraversò trascinato di peso dallo zio, ansioso di concludere la faccenda. Persone d’ogni estrazione e nazionalità, si incrociavano e lavoravano in mezzo ad un andirivieni continuo, convulso. Animali e merci a cui non sapeva neppure dare un nome gli passavano accanto, provocando sempre nuovo e più intenso stupore, e tutto il traffico si infittiva via via che si avvicinavano alle banchine del porto. All’improvviso si fermarono ed alzando istintivamente gli occhi , potè finalmente vederla: la sua nave, il suo futuro, all’ancora mentre mani esperte ritoccavano i fasciami e ragazzi scuriti da sole tropicale finivano di stiparla di provviste per il nuovo viaggio. La Glory Dawn era un vascello di 3a classe, utilizzato da una piccola compagnia marittima per l’importazione di vasellame e giada dalla Cina continentale. La tratta assegnata e ripetuta oramai da anni era Londra- Shanghai. Il tempo di congedarsi dai suoi accompagnatori e di posare la sacca con le sue poche cose presso l’amaca che per molti mesi sarebbe stato il suo giaciglio ed ecco che l’ancora fu levata. I suoi indumenti, inservibili per i nerboruti compagni di cabina restarono al loro posto, ma in breve tutti gli altri suoi averi si volatilizzarono. Ma per nulla al mondo avrebbe dato modo a quel mucchio di sudici ubriaconi di risentirsi per le sue spiate. Tacque ma tenne a mente i nomi dei farabutti con cui prima o poi avrebbe saldato i conti. Se qualcuno si era aspettato di vederlo alla sera rannicchiarsi tremante, a singhiozzare per la stanchezza e la nostalgia di casa, nessuno ebbe mai questa soddisfazione. Al lavoro duro c’era abituato da tempo, nulla era più faticoso o più umiliante delle incombenze che da anni svolgeva nella casa dei suoi parenti a Polperro. Osservando attento i suoi compagni di viaggio, giorno dopo giorno, in capo a poche settimane fu in grado di battere i più nei giochi di carte e dadi, di svolgere la sua parte sull’albero di bompresso, di caricare le colubrine. I pochi momenti liberi dalle corvè in cucina o sul ponte, li trascorreva a prua: veloce percorreva l’asta di fiocco e si fermava solo quando intorno e sotto di lui restava il ruggire delle onde. Rimaneva così a fissare l’orizzonte e le miglia di mare che la nave velocemente divorava, i lunghi capelli finalmente sciolti a danzare all’unisono con le rande tese dagli alisei. Lo schiaffo del vento e l’acqua salmastra a mulinargli intorno, a bruciargli occhi e pelle. Eppure solo questo lo faceva sentire vivo e libero, in attesa di un domani pieno di indistinte promesse. Con l’accumularsi dei giorni di navigazione però qualcosa prese ad inquietarlo, erano gli sbuffi e gli ansiti che coglieva talvolta attraversando i corridoi sottocoperta e che spesso risentiva anche a notte fonda, mescolati al cigolio della chiglia sferzata dalle onde. Lui, uomo fra uomini, aveva cominciato a cogliere sguardi che indugiavano sul suo corpo, mentre era intento a lavare il ponte oppure quando riemergeva seminudo dalle cucine, stravolto dal caldo e lucido di sudore, per distribuire le razioni. Era una spiacevole sensazione di minaccia, frammista a risentimento e ribrezzo e spesso gli era venuto di paragonarla a quella di una giovane che sola si trovi ad attraversare all’imbrunire una via piena di taverne. Molti proprietari di quegli occhi famelici lo superavano in altezza di tutta la testa, ed in peso di parecchie libbre, così prese a girare armato: uno stiletto affilato, ma discreto, facile da occultare. E dopo gli sguardi arrivarono inaspettate offerte di rhum, tabacco, di una spazzola per capelli su cui riconobbe le sue iniziali e per la quale il ladro di turno ottenne in cambio una precisa ginocchiata al basso ventre. Poi iniziarono i contatti tutt’altro che fortuiti, strusciamenti ai quali non sempre poteva reagire come avrebbe voluto, dato il grado o il numero dei molestatori. Si fece sempre più guardingo e silenzioso e la notte trascorreva in un agitato dormiveglia. Intrappolato su quella nave, con un triste destino che si profilava ormai chiaro di fronte a lui. Quando poi il nostromo gli regalò un libro, affermando serafico di aver appreso solo allora che Jay era fra i pochi marinai a saper leggere, scrivere e far di conto, gli fu chiaro che doveva scegliere : o lui o tutti gli altri. Rufus Magnus O’Riordan era un uomo tarchiato, ma agile, a cui la folta barba rossiccia ed il capo rasato conferivano l’autorevolezza e la minacciosità necessari a tener testa ad una ciurma alquanto riottosa. I suoi cinquantun’anni erano stati spesi quasi tutti in mare, come testimoniava la pelle ormai coriacea e scura come cuoio e le numerose cicatrici che solcavano petto e braccia…tante quante le battaglie a cui era sopravvissuto e quante i mariti che aveva reso cornuti, teneva sempre a precisare. Quel viaggio per lui sarebbe stato il più remunerativo, perché poco prima della partenza, ironia della sorte, il medico di bordo si era gravemente ammalato, ma all’armatore sconsolato era pervenuto un documento, che pareva autentico, che autorizzava il suo vecchio nostromo a tale professione. La missione non abortì, con sollievo di tutti e l’astuto Rufus vide riconosciuto un valore assi più alto alla sua persona. Forse per dare più credibilità al suo nuovo incarico il nostromo investì parte dell’anticipo in abiti nuovi e libri che fece stivare nel suo piccolo alloggio, fra lo stupore di chi tra i membri dell’equipaggio era certo del suo quasi completo analfabetismo. La scelta si rivelò assai vantaggiosa per Jay: in realtà Rufus si limitò a richiedere bucati e pasti caldi ed in cambio concesse a Jay di leggergli ad alta voce tutti i volumi che aveva acquistato, per conciliargli il sonno. L’importante era che chi di dovere credesse di sapere cosa accadeva in quella cabina e si ritirasse in buon ordine. Le corvè erano aumentate ma era tornata la serenità di prima. Come non bastasse il ragazzo chiese ed ottenne numerose nuove nozioni sulle tecniche di navigazione e di cannoneggiamento ed addirittura un vero e proprio corso di scherma e tiro al bersaglio con varie armi da fuoco. Il vecchio lupo di mare gongolava nel vedere i rapidi progressi del suo protetto e si preoccupò di migliorarne le razioni, così che potesse iniziare anche ad esercitarsi nel corpo a corpo con Ndiobe, un gigantesco ivoriano, vero maestro nella lotta a mani nude e all’arma bianca. Superarono indenni la tremenda prova del capo di Buona Speranza, cha aveva precipitato l’intera ciurma in un cupo silenzio e spossato corpi ed animi fino alla stremo e adesso l’ormai prossimo scalo a Chagos aveva ridato vita all’intera nave, che rifulgeva più bella che mai, come purificata dal grumo di sorda paura che l’aveva avvolta per giorni. Ancora oceano davanti a loro ed infine Madras, dove si sarebbero concessi un breve ristoro. Rufus la descrisse con dovizia di particolari ed insegnò a Jay i rudimenti della lingua, una cacofonia di suoni ora musicali ora aspri, che il giovane riuscì comunque a padroneggiare ben prima che le coste dell’India venissero avvistate. Mentre già era cominciato il trasbordo dei materiali e la calca sul ponte si era fatta quasi ingovernabile, il nostromo lo informò che l’avrebbe portato a visitare i templi ed i mercati e che quella sera una sorpresa era stata preparata per lui. Malgrado l’umidità quasi soffocante Jay percorse con gioia gli infiniti dedali di vie che si aprivano all’improvviso su una delle tante sgargianti torri coperte da bassorilievi talmente realistici nei loro colori carnali da sembrare a prima vista un reale viluppo di corpi umani ed animali, avvinghiati in pose inconfutabilmente erotiche. Comprarono alcune casacche di quel cotone così leggero da esser quasi trasparente, così adatte ad affrontare il sole di quelle latitudini e infine, al tramonto, raggiunsero una dimora , in una tranquilla via secondaria. Il muro di cinta , alto e spoglio, racchiudeva un vasto giardino, stipato all’inverosimile di fronde e fiori enormi, dal profumo stordente e un basso fabbricato ornato di splendide copie in pietra, di quelle sensuali e leggiadre fanciulle che affollavano le decorazioni dei templi. Furono condotti alla vasca per il bagno tra trilli e frusciare di veli colorati, tanto da sembrare che le loro ospiti non fossero altro che sgargianti uccelli tropicali. Rimasero a lungo immersi nell’acqua calda, a farsi frizionare ed accudire da quello stuolo di bellezze esotiche e Jay non potè non notare come tutte loro indugiassero con tocchi lievi sui suoi capelli e le sue spalle e come, fra risate argentine, continuassero ad osservare il suo corpo elegantemente flessuoso, quanto il loro, che i petali di fiori galleggianti occultavano a mala pena. “Gli piaci!” sbotto sbrigativo Rufus quando incontrò il suo sguardo palesemente sconcertato. “O più semplicemente non hanno mai visto un ragazzo come te!” perché in quei lunghi mesi spesso il vecchi marinaio, si era lasciato andare a lunghissimi racconti sulle sue mille avventure, dicendo di se più di quanto aveva mai fatto con chicchessia. Così Jay si era sentito libero a sua volta di spiegare le origini dei suoi occhi a mandorla, di parlargli di sua madre e di tutto quello che lei gli aveva tramandato del suo popolo lontano. Dopo il bagno, infagottati nella seta pesante, mangiarono e bevvero il vino di Xeres che Rufus gli aveva fatto scoprire e di cui Jay andava goloso. Il calore dell’alcool ed i nuovi, strani profumi che invadevano l’aria gli stavano dando alla testa e con sollievo accolse l’uscita di scena della cantante e delle altre ciarliere servitrici. Solo una ragazza si era attardata nella stanza, adesso rischiarata a mala pena da alcune lampade ad olio, riccamente decorate. Doveva avere pochi anni più di lui, l’incarnato molto più chiaro delle giovani che fino a quel momento li avevano serviti, gli abiti sfarzosamente profilati in oro, un viso di un ovale perfetto in cui spiccavano due occhi neri e voraci ed una bocca pronta a schiudersi sul paradiso. Senza proferir parola la ragazza si inginocchio presso il mucchio di cuscini su cui giaceva Jay e con tocchi sapienti prese ad accarezzarlo e ad invitarlo a fare altrettanto su di lei. Il ragazzo istintivamente si voltò nella direzione del suo mentore per chiedere spiegazione, ma per la prima volta da che lo conosceva non seppe interpretare lo strano sorriso che gli si era dipinto in volto. “Questo è la tua sorpresa, Jay. Questa notte diventerai uomo!” poi distolse lo sguardo per immergersi nuovamente nella coppa di peltro traboccante cherry. Era tutto così nuovo, i brividi che quelle carezze gli provocavano, quella sensazione di calore che cresceva, eppure il suo corpo, le sue mani, la sua bocca seppero subito rispondere a quelle sollecitazioni , la sensazione di quella carne morbida ed umida intorno a sé lo fece capitolare in un orgasmo improvviso e dolorosamente intenso. Ma quella misteriosa bellezza fu capace di ridestare facilmente il suo piacere e riprese a muoversi sensuale e silenziosa su di lui. Jay sentendo approssimarsi un nuovo acme, si volse nuovamente in direzione di Rufus, che stavolta non staccò gli occhi dai suoi, ma lo accompagnò col suo sguardo paziente in quello e in tutti quelli che seguirono. Un brusco risveglio ed il ritorno frettoloso alla nave non riuscirono a liberare Jay da una strano senso di intorpidimento, un languore che ne rallentava visibilmente i movimenti, e mentre gli era necessario concentrarsi per riportare alla mente i tratti della sua compagna di letto, continuamente il ricordo riandava a Rufus, al modo strano, assorto con cui l’aveva guardato godere durante quella lunga notte. Qualcosa fra loro era cambiato per sempre, anche se mai parlarono di ciò che era successo a Madras, la natura del loro legame era inesorabilmente mutata, approfondendosi. Anche a Singapore e a Canton, ripeterono lo stesso rito, dividendo la stessa donna, ma già prima di giungere in vista della brulicante Shangai, era diventati amanti, in un senso molto profondo e ben poco prosaico, tanto che mai Rufus violò il suo corpo, mai si spinse oltre poche ma efficaci carezze.
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