Immortal Ophelia parte I - Trembling Ophelia di Enya16
La sua voce dolce e piena nella penombra. Il ricordo che me la descrive è soffuso di un tiepido senso di nostalgia. - Non lo so. La mia voce. Irriconoscibile. La voce di chi ha smesso da tempo di dormire. Di chi ha smesso da tempo di sognare e di illudersi che tutto potesse cambiare. - Tutti sono in cerca di qualcosa. Tutti hanno dentro una tensione delicata che li porta ad alzarsi e partire verso una meta ignota... c’è anche chi si accorge soltanto alla fine di essersi messo in viaggio. E’un processo interiore, misterioso, di cui nessuno conosce i meccanismi e le regole. Possibile che qualcuno possieda una voce così splendida? Profonda, piena di recondite, ataviche vibrazioni di fondo. Il senso delle parole mi sfuggiva, non riuscivo a coglierlo, tanto quel suono di flauto mi avvinghiava a sé. Mi sentivo annegare lentamente, affogare in un mare denso e piacevole. - Si tratta solo di capire dove stiamo andando... Andare, sì. Alla deriva dentro di te.
Non ricordo più che cosa sognai l’ultima notte che riuscii a dormire. Devo ammettere che forse questo è un attacco un po’eccessivo... devo aver esagerato con la drammaticità. Saranno due o tre notti che mi addormento senza problemi, mi sveglio dopo un’ora o due e poi resto tutta la mattina a fissare il soffitto in attesa della fessura di luce tra le persiane chiuse che mi avverte dell’arrivo dell’alba. Allora, senza curarmi del freddo, mi alzo, spalanco le imposte e mi inginocchio sul terrazzo a fissare, affascinato, il sole che sorge tra gli alberi e i palazzi, come il giovane Werther... sforzandomi di immaginare di essere solo, in un enorme bosco di antichi baobab e snelle betulle, in qualche luogo esotico e solitario, lontano da tutti, lontano persino da me stesso, forse la foresta tebana del “Sogno di una notte di mezza estate”. Un luogo incantato che con la vera Tebe non ha niente da spartire. In ogni caso, non risento minimamente della mancanza di sonno, per lo meno a livello fisico. Le vere difficoltà, quelle, si manifestano solo sul piano mentale. A volte, qualunque cosa io stia facendo, mi sento come se d’improvviso qualcuno staccasse una spina elettrica nel mio cervello. Resto lì, immobile, finché qualcuno non mi ricorda di darmi una mossa. La biblioteca. La biblioteca è il mio paradiso perduto. Non abito in una casa vera e propria. Per lo meno, non so se quelli che incontro ogni giorno la definirebbero tale. Immagino che per gli esigenti standard della società non sia abbastanza, ma per me è graziosa. Funzionale. Abito in un monolocale, una stanza con divano-letto, bagno e angolo cottura nello scantinato della biblioteca comunale. Io sono il custode di questo brutto edificio spoglio e invecchiato dal tempo che passa. Io sono un giovane di ventisei anni e svolgo un lavoro che si è abituati a veder praticare da ultraquarantenni. Io sono il cadavere della biblioteca. Io sono Arthur Rimbaud. Io sono Mrs. Dalloway. Io sono Edward Rochester. Io sono Carmilla la vampira. Io sono Jacopo Ortis. Io sono la timida, tragica Ofelia. Io sono Dante. Forse mi stringo addosso così tanti nomi perché non mi sento degno di possederne uno in particolare.
Il luogo che gestisco è più un archivio che una biblioteca. Certo, se qualcuno cerca vecchi romanzi o classici della letteratura, io ho tutto. Ma se studenti gravati da esami universitari e difficili tesine hanno bisogno di antichi quotidiani, vecchi codici manoscritti, rarità e stranezze, quello è il mio forte. Ciò che non è altrove, inspiegabilmente è proprio qui. E io li ho letti tutti. Quello che sto cercando di dire, è che non mi sono affatto stupito, il giorno che mi si è presentato davanti un ragazzo delle medie chiedendomi con piglio deciso un fascicolo in lingua originale intitolato “Ophelia. An ancient medieval tragedy taken by W.Shakespeare in his masterpiece Hamlet”. Anzi, quasi mi son messo a ridergli in faccia... spesso penso a me stesso chiamandomi proprio Ofelia. Non mi disturba il fatto che Ofelia sia una donna: è prima di tutto una deliziosa, dolcissima, tragica fanciulla dalla bellezza tenera e misericordiosa. Una ninfa innocente. Una dea dell’aurora. Sarei soltanto onorato di possedere una sola di queste virtù positive per ambo i sessi. Ho letto e riletto l’Amleto, in gioventù (vedete? Parlo di me stesso come se fossi già decrepito. Che io sia una specie di fantasma di Canterville?). I dubbi del giovane principe, erano i miei dubbi. Il dolore, la follia della povera Ofelia, erano il mio dolore, la mia follia. La futile e stupida morte del re, era la morte della mia vita spirituale. Non avevo mai amato veramente. Si può immaginare vita peggiore? Tanto valeva che io mi convincessi di essere uno strano miracolato, una sorta di morto vivente. Osservavo gli altri umani con occhi curiosi, ridendo delle loro minime ansie, dei loro patemi di cuore, delle loro ingenuità. Mi sentivo stupidamente saggio e nel contempo perennemente stupito. Tornando al giovane studente di quel giorno, ricordo di avergli fatto un sorriso e di essermi diretto allo scaffale per procurargli quel saggio. Si trattava di un fascio di fogli da ciclostile rilegati alla buona con alcuni morsetti da ufficio. Non ricordo da dove erano stati fotocopiati. Sono disceso dalla scala a pioli che uso per raggiungere gli angoli più inaccessibili e gliel’ho porto. All’inizio non lo ha preso in mano. Si è limitato a fissarlo, come a volersi sincerare che io non gli stessi rifilando un bidone. Dopodiché lo prese con mani tremanti e se lo strinse al petto, dirigendosi ad uno dei tavoli per la consultazione ed iniziando a sfogliarne le pagine. Non aveva nulla con sé; non aveva una giacca, nonostante fuori il cielo lattiginoso minacciasse la pioggia. Non aveva libri o quaderni o matite per appuntarsi qualcosa, come tutti lì in quel luogo fatto di carta e inchiostro. Lui aveva portato solo sé stesso.
Ero rimasto a fissarlo con espressione di malcelata curiosità per tutto il giorno. Non era uscito per pranzare, come tutti gli altri. Aveva incollato gli occhi alle fotocopie alle nove del mattino e non li aveva sollevati fino alle sette di sera. Non sembrava accusare mal di testa o stanchezza alle palpebre come i comuni mortali. Mi ero preso la libertà di osservare meglio la curva liscia e concentratissima della fronte infantile, la sottile linea rosea delle labbra socchiuse dall’attenzione, gli zigomi ingenui, gli occhi vagamente infossati. Non ero riuscito a coglierne il colore. Ricordavo soltanto che possedeva lunghe ciglia scure. Era un ragazzo molto gradevole, pensai. Dimostrava quattordici anni, e mi ricordava una delle statue di Policleto. Il Doriforo... l’efebo aggraziato, irrealmente bello, bilanciato, perfetto, con la lancia in mano e l’espressione a metà tra il serio, il deciso e il trasognato. Ma mi ricordava anche un Ermafrodito dormiente che dovevo aver visto da qualche parte. Una sensualità sconvolgente permeava l’abbandono del braccio tornito che la maglietta sportiva non nascondeva del tutto. Il collo esile ed allungato che sorreggeva la bella testa, inarcato come un cigno, l’onda delicata dei capelli scuri a media lunghezza che gli accarezzavano le orecchie e la nuca. Era di una bellezza universale. Indescrivibilmente universale. Sarebbe piaciuto indifferentemente a uomini e a donne, senza distinzioni. E non conoscevo il suo nome! Senza pensare, lo battezzai Amleto. Amleto, colui che cerca. Colui che cerca sé stesso. Prima di potermi detestare per questo, avevo incominciato a fantasticare su quello che, in poche ore e senza impegnarsi minimamente per badare a me, era diventato “il mio Amleto”.
Come può un’anima illudersi a tal punto, senza conoscere nulla di un’altra sua simile? Come può un cuore fare tanto male nel petto, lottando per forare la carne e fuggire con violenza, per riunirsi a una creatura appena intravista? Cuore... taci. Mente... disilluditi.
Ero immerso in pensieri di questo tipo, quando Amleto si voltò all’improvviso verso di me e mi lanciò una occhiata perforante. Ecco, di che colore erano i suoi occhi. Neri. Di un perfetto nero opalino. Non avevo mai visto nessuno con gli occhi interamente neri. Di solito, se ne vedono di castani, di marrone molto scuro, di color nocciola, di quelli che sembrano neri ma in realtà non lo sono. Gli occhi del mio Amleto, giuro, erano i più neri che avessi mai visto. Erano quasi le nove. Avrei dovuto mandare via quel ragazzino e chiudere la biblioteca. Era rimasto soltanto lui, gli altri utenti se ne erano andati da un pezzo. Il mio stomaco chiedeva cibo... era tutto il giorno che doleva. Improvvisamente, mi sentii assalire dalla vergogna realizzando che avevo passato l’intera giornata in contemplazione di quella creatura meravigliosa dimenticandomi persino di essere una creatura vivente. Mi alzai. Rimasi in piedi dietro il bancone per qualche tempo. Ero come inchiodato a terra da quegli incredibili occhi neri. Poi, come se una zavorra fosse appena stata buttata a mare, riuscii nuovamente a muovermi, e mi diressi verso di lui. - Hai un passo particolare. Una voce. Dio, una voce. Sollevai lentamente lo sguardo, timoroso di ciò che avrei potuto incontrare... Sorrideva. Quell’essere celestiale stava sorridendo. - Un... eh? Io non... – la mia voce. Orribile. Roca, falsata da una specie di blocco delle corde vocali. Gracchiavo. - Hai un passo molto particolare. Ti muovi come una ragazza. Rimasi immobile, di sale. Come, una ragazza? La mia mente andò a Ofelia. La ammiravo così tanto che avevo inconsciamente deciso di somigliarle? - Sei insolitamente grazioso e delicato per essere un uomo, - mormorò ancora Amleto. – Sei biondo. Hai gli occhi di un verde trasparente. Le guance affilate, le labbra rosee, i capelli biondi e così lunghi. Sei innaturalmente bello. Sollevai un sopracciglio. Lui, proprio lui, diceva a me cose simili? Era praticamente la stessa cosa che io avevo pensato di lui poco prima. Salvo il fatto che non mi sarei mai sognato di paragonarlo ad una ragazza. Era sì di una bellezza universale, ma sembrava raccogliere in sé pochi elementi maschili e femminili. Esatto... sembrava far parte di una terza categoria, il sesso androgino... il sesso perduto degli esseri completi e perfetti, di cui parlavano Ippocrate e Aristofane... di cui parla la Bibbia... Mentre quel marasma di pensieri e sensazioni mi paralizzava, il ragazzo che avevo chiamato Amleto si era alzato e diretto verso di me. Si era fermato, un solo passo lontano. Era tanto piccolo, Dio Santo... mi arrivava a malapena alla spalla. Mi sentii un miserabile, all’idea di aver concepito concupiscenza per una creatura tanto giovane. Giovane... ma ingenua? Possibile che quel ragazzino dall’aria adulta e serena fosse anche ingenuo? Da come mi aveva apostrofato in precedenza, pareva quasi che non lo fosse affatto. - Ofelia. - Uh? – no, non poteva essere. Aveva detto... – Che... che cosa c’entra... - Shakespeare non descrive mai l’aspetto esteriore di Ofelia, la promessa sposa di Amleto nell’omonima tragedia. Eppure, in questo saggio c’è scritto che negli ultimi duecento anni almeno, da quando l’Amleto va in scena, le attrici che interpretano la sfortunata principessa suicida sono sempre state bionde, snelle e dagli occhi chiari. Curioso, no? Eppure, è stranamente difficile concepire l’idea che Ofelia potesse essere immaginata mora e sensuale, dall’autore. Se questo non è genio... pur evitando di metterlo nero su bianco, Shakespeare ci ha descritto Ofelia attraverso i suoi pensieri, i suoi gesti e la sua grandiosa morte. E noi abbiamo abbracciato senza pensare, senza porci domande, questo funereo ritratto. Ascoltavo Amleto, avevo l’impressione di non capire niente delle sue parole. La sua voce, morbida, e tuttavia affatto infantile, la voce di un ragazzo dalle corde vocali già pienamente sviluppate, era vibrante come una carezza proibita. Amavo già quella voce misteriosa prima di accorgermene. - Quali sono i pensieri di una donna pazza di fronte al fiume che la accoglierà per sempre nei suoi dolci flutti? – un sussurro... e poi, un tocco sulla guancia, in basso, verso il labbro. Non era poi così basso da non potermi toccare sul volto. La sua mano era rovente, scottante. Mi sentii le ginocchia deboli. – Avrà continuato a cantare le sue nenie falsamente sciocche, credendo di poter camminare sulle acque come il Cristo? Oppure sarà improvvisamente rinsavita, vedendo sul fondo, tra i sassi e i pesci d’argento, l’unica via per scampare alla sofferenza? Che cosa cercava, decidendo di morire? Di che cosa era in cerca, la tremante Ofelia? Le sue dita... le sue dita sulle mie labbra... c’era qualcosa di stranamente convulso, nel modo in cui la forza dei suoi pensieri si comunicavano a me, come se nel frattempo lui stesse... Aprii gli occhi. Le mie supposizioni erano state esatte... si stava toccando. Una delle sue snelle mani d’alabastro, era scomparsa nei pantaloni. E si scorgeva la stoffa tesa, si indovinava il movimento delle dita. Mi sentii arrossire; ma questa volta, almeno, non c’era nessuna vergogna. - Ofelia... – mormorai, contro la punta di quelle dita che ancora mi sfioravano. Parlando, uno dei polpastrelli soffici mi urtò la lingua. Mi sfuggì un soffio, il respiro che fino a quel momento avevo trattenuto. – Ofelia... non... – il tutto aveva perso la dimensione reale. Sembrava un sogno, un sogno immobile in cui niente era casuale e in cui tutto aveva il suo ruolo e la sua funzionalità. Ed io, che fino a quel momento ero stato un oggetto per coadiuvare il primo attore, che ora si toccava e forse iniziava anche a goderne a dispetto del suo volto di marmo, stavo appena iniziando ad entrare nel mio ruolo. Un ruolo che mi sarei sempre rifiutato di ricoprire nella vita di ogni giorno. Avvertii un brivido, in basso, nell’inguine, quando socchiusi le labbra e presi quel morbido polpastrello sulla lingua. Istintivamente, chiusi la bocca, tenendo al caldo e al sicuro quella reliquia così preziosa. Lo avvolsi con la lingua, sentendo i brividi moltiplicarsi... e per la prima volta, la creatura davanti a me gettò indietro la testa e gemette piano. Pianissimo. - Ofelia non è pazza, - mormorò Amleto, estraendo il dito dalla mia bocca e portandoselo alle labbra, ancora lucido di saliva. Vidi, che il cielo mi aiuti, la sua piccola lingua rosea leccare lentamente la punta, e quel gesto mi portò alla mente immagini sconvenienti e proibite di fellatio. Mi sentii cadere. - No... Ofelia non è mai stata pazza... – confermai, allungandomi in avanti senza pensare non appena vidi quelle labbra tendendosi verso l’alto. Di che cosa sei in cerca? La domanda che mi ero rivolto molte volte mi ronzava nella testa, mentre sentivo quella lingua calda accarezzarmi delicatamente il labbro inferiore. Ancora non avevo potuto assaggiare il sapore delle sue labbra dalla forma splendida. Di che cosa era in cerca, la tremante Ofelia? Questa era la domanda che mi aveva rivolto quell’essere, poco prima. Ed ora, per la prima volta nella mia vita, lo sapevo perfettamente. Cercavo lui. Lo cercavo, mentre lasciavo che fosse la sua bocca a prendere controllo del bacio. Lo cercavo, mentre un fruscio di tessuti mi comunicava che l’altra mano aveva abbandonato la sua occupazione e che mi si era avvolta intorno al nodo della cravatta, tirando leggermente. La pressione intorno al collo poteva essere paragonabile alla corda di un impiccato. Eppure continuavo a cercarlo, mentre gradualmente mi sbottonava la camicia, mentre la sua mano bollente si posava leggera sul mio sterno... e poi, come un ventaglio di carne calda, sul capezzolo. Sull’addome. Più in basso, penetrando con una contorsione al di sotto dell’orlo dei calzoni. E finalmente, intorno... intorno... Vidi tutto nero quando mi strinse. Quando mi lasciò per un istante e poi mi strinse ancora. Le gambe mi cedettero e mi trovai in ginocchio per terra. Non mi lasciò. - Ofelia... – la sua voce. La voce meravigliosa, di ritorno nel mondo dei morti. Lucifero o Gabriele? In latino, “Lucifero” significava “colui che porta la luce”. Come poteva essere il nome del principe delle tenebre? Luce e ombra, strane nebulose e stelle sulla via dell’esplosione mi danzavano negli occhi. Se ero ancora un uomo, di certo quella mano stava lottando per spremere via da me ogni sospetto di umanità. - Amleto... – gemetti. – Il solo pazzo è Amleto... Non so davvero perché lo dissi. Ero a terra. Lui era a terra con me. Aprii gli occhi, che tenevo chiusi da troppo tempo, e lo vidi improvvisamente nudo. Completamente, interamente nudo. I suoi abiti giacevano in un mucchietto poco oltre. E lui era lì, davanti a me, gloriosamente perfetto e maestoso in quella sua straordinaria bellezza senza definizione. Il Peccato, che fingeva di dormire tra le sue cosce di marmo, era parzialmente sollevato. E non poteva certo essere parte del corpo di un bambino, come avevo creduto in precedenza. Sì, Amleto era pazzo... Ofelia era solo la vittima, la prima vittima della sua follia... Sdraiato, sulla schiena. Vedevo il soffitto. Il lampadario al neon, ancora spento. Mi ero scordato di accenderlo. Sentivo Amleto salirmi in grembo. Ero stato spogliato di pantaloni e mutande. Ero nudo anch’io. Nudo sul pavimento della mia biblioteca, supino sulle gelide mattonelle di ceramica. Ofelia... quanto erano gelide le acque che ti hanno salvato nel loro fatale abbraccio? Eri spaventata, mentre annegavi, Ofelia? Avevi paura di morire? Oppure... eri felice... come me... adesso... No. No, non può essere, è un sogno, è un (sogno di una notte di mezza estate, anche se siamo in inverno) sogno malato della mia mente malata che crede di vivere un amore malato inspiegabile come un assurdo nonsenso... E tu Ofelia... ora io capisco l’amore che ti spinse all’abominio... anch’io sto amando e mi lascio amare da Amleto... dal folle Amleto... Dentro. Di. Me. Ah! Anche le donne provano tanto dolore, quando l’amante entra in loro? Lacrime, lacrime, lacrimelacrimelacrime. E poi, la celeste benedizione del suo bacio sulla fronte... e immediato, il fiotto bollente che sgorga da lui e mi invade... indescrivibile, la sensazione sconvolgente di venirne sommerso a livello spirituale... e poi anch’io, come lui, giungo all’apice. Ciò che stavo cercando.
Eccola, Ofelia. Mi guarda, sorride. E’bionda, sottile, deliziosa, ridenti sono i gioiosi occhi verdazzurro mentre corre apparentemente felice per i prati delle brughiere. Eriche, campanule, margherite si sono impigliate al suo lungo abito di sete fluttuanti e ai suoi capelli inanellati di perle e nastri di raso. E’bianca, pura, sarà anche vergine? Non so, mentre la guardo arrivare al torrente e guardarvi dentro specchiandosi... Allunga la sua mano, Ofelia, e che cosa cerca? Spera che a riflettersi al posto del suo, sia il volto di Amleto... forse è per questo che sembra odiare l’acqua, che all’improvviso il viso allegro si increspa di furore, che il piedino calzato di immacolate scarpine si metta a calciare lo specchio immobile... fatalità, che lo specchio si infranga e inghiotta famelico quella corolla di seta, quel viso stupito, quei morbidi capelli di Titania regina delle fate... è la magia della Dodicesima Notte, la maledizione delle tre streghe sulla via del ritorno a Machbeth, l’arcana, velata malignità di Puck e Oberon e Bottom nella foresta dal tempo immobile...
Mi sveglio atterrito dall’urlo di Ofelia, ma c’è solo il mio Amleto, di fianco a me. Senza temere nulla, lo copro interamente col mio corpo e lo sento allungarsi, mormorando. So che siamo vicini, so che mi ama. Adesso che ci penso... Non conosco nemmeno il suo nome.
To be continued
NOTA DELL’AUTRICE. Lo spunto di questa storia è nato quando ho per la prima volta visto una riproduzione fotografica del meraviglioso quadro di J.E.Millais, che rappresenta con tecnica iperrealista-surreale una meravigliosa Ofelia annegata, morta, sdraiata sotto il pelo dell’acqua in un calmo fiume punteggiato di fiori. Avevo già letto per esigenze scolastiche l’Amleto di William Shakespeare, ed avevo adorato l’atmosfera di “perdizione” e “amore-non amore” che attorniava i due. Ofelia non è assolutamente un personaggio importante, nella tragedia... anzi, certi critici la definiscono soltanto un “tragico contorno”, la “vittima” della follia di Amleto. Se devo dire la mia, in questa straordinaria opera, non ci sono pazzi. Ci sono solo uomini alla disperata ricerca di sé stessi e del senso della loro vita. Nessuno sa con precisione il motivo e il modo in cui si sia uccisa Ofelia. Il/la mio/a Ofelia è un omosessuale. Stesso discorso per il mio Amleto. Ho cercato di ricreare le atmosfere che mi avevano affascinato nella tragedia traducendole in argomenti di perdizione e follia del mondo moderno. Spero che chi ama Shakespeare non resti sconvolto dalla mia dissacrazione, così come spero che chi non conosce l’Amleto ne venga incuriosito e decida di leggerlo. A tutti coloro che hanno avuto il coraggio e la bontà di leggere questa mia umile storia, un sentito ringraziamento. Come direbbe il caro, vecchio Cicerone... Valēte.
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