DEDICA: per Kieran, per il suo compleanno. Conoscendoti, tesoro, la dedica è roba tra te e me, e te la mando in privato. Ti voglio bene. Tes. NOTA1:°____________° NOTA2: leggetela al buio, da soli, illuminati da solo una candela, così come è stata scritta. Rende molto meglio l’atmosfera^^’’’’… DISCLAIMERS: date a Inoue ciò che è di Inoue, e a Tes ciò che è di Tes RINGRAZIAMENTI: ad Elfuccia per averla corretta, nonostante i casini col pc… un immenso grazie. A Ca-chan e Lory, grazie di esistere*_*! A Ria, grazie per tutto ciò che fa per noi^****^!!!
IMMORTAL parte 1 di 5 di Tesla
È buio, il luogo in cui sta. Le finestre sono murate, la porta è socchiusa, ma non arriva la luce dei lampioni fuori in strada. No, lì dove è seduto lui c'è solo buio. Trema dal freddo, le dita intirizzite, è vestito leggero, solo la divisa estiva addosso… e allora tira le ginocchia al petto, le imprigiona tra le braccia, nasconde il viso tra di esse. Trema. Per il freddo, per il buio. C'è tanto buio, lui lo vede. C'è tanto buio, dentro di lui.
(le tue mani, Hana, guarda cosa c'è sulle tue mani)
Lo sente.
(oh, lì non c'era sangue)
Riesce a sentirlo
(su quel parquet lucido, sul pianerottolo)
che striscia piano piano
(c'era solo lui, in quel momento tutto il suo mondo,)
verso di lui
(e la mano contro il petto),
si fa strada tra i calcinacci
(stringere la stoffa della camicia nel pugno chiuso)
e il pavimento polveroso
(cercava di raggiungere il suo cuore, Hana)
della palazzina abbandonata in cui ti sei nascosto
(ma non poteva, non poteva),
e senti il suo odore,
(si fidava di te, riposto in te fiducia)
non col naso, ma col corpo,
(che l'avresti salvato, perché sei bravo, figliolo)
sotto il tanfo di escrementi
(ma l'hai lasciato solo, sul pavimento)
e muffa, e chiuso,
(a morire come un cane bastardo)
sotto la puzza di anima stantia e profilattici usati,
(il volto tra i riccioli di polvere impastati con saliva ormai morta)
il suo odore.
(sangue)
Sì, sangue. E dolore, alle labbra. Le mordi forte per soffocare i singhiozzi, ti fanno male, bruciano. Mordi più forte. Altro dolore. Bravo, Hana, è ciò che meriti. Che importa cosa può succedere, tu che
(hai il sangue di tuo padre sulle mani)
non hai impedito la morte di tuo padre? Potevi salvarlo, Hanamichi. Potevi salvarlo. L'ospedale era proprio lì, dietro l'angolo, potevi
(ma non hai voluto)
arrivare in tempo. È colpa tua se ti hanno attaccato. Colpa tua sei hai ritardato. Sei
(un assassino)
arrivato troppo tardi. Lì, sul pavimento di casa, lui è morto.
(Assassino)
***
Le dita sono congelate, e il piccolo cellulare tra di essere pesa come un ciocco di legno pietrificato. Non riesci a stringere bene, ma strizzi la mano con forza, perché è tutto ciò che ti rimane
(ma non è servita, contro 'loro'. Se solo lo avessi voluto sul serio, se solo),
perché ogni altra cosa è svanita
(LO AVESSI VOLUTO VERAMENTE).
Ogni altra cosa.
***
Sente lo scalpiccio di piccole zampette a qualche metro da lui. Qualche topo che scorrazza tra i calcinacci impolverati in cerca di rifiuti. 'Eccomi,' pensa,' sono qui'. Si chiede se il topo ascolti la sua rivelazione, se lo morderà. Si chiede se si può morire, col morso di un topo, forse sì, con un po' di fortuna; un piccolo morso alla caviglia, rapido come un singolo battito di cuore, ed accasciarsi a terra, senza far rumore… come un Piccolo Principe col suo serpente in attesa tra le dune, attendi il morso liberatore. Non arriva. Senti un disgustoso scricchiolio, la corazza cheratinosa di qualche scarafaggio spappolata tra le zanne del topo. Neanche lui ti vuole. La tua maledizione.
(la maledizione del sangue)
Hanamichi stringe il cellulare e seleziona nella rubrica il numero di sua madre. Intravede il guizzo di una coda glabra e lercia sotto la luce verde e fievole del piccolo schermo. Non importa. Non importa più nulla, non è questo ciò che conta, ora. Non importa se c'è luce o se c'è buio, non importa cosa si nasconde lì nell'ombra, in attesa per lui contro l'angolo. Spera solo che tutto termini in fretta, non reggerà a lungo. Non si può reggere a lungo con
(le mani sporche di sangue)
un tale peso nel cuore.
Sente squillare all'altro capo del telefono. A lungo. L'orologio sullo schermo indica le 18:05. È da quattro ore che si è nascosto. È da quattro ore che è perso nel buio, e un buio non fisico. Ancora squilli. Uno, due. Ancora un altro.
(Mamma)
La voce di sua madre viene evocata dal suo cuore, così inaspettata che si lascia quasi cadere il cellulare dalle mani. - Hanamichi! Hanamichi sei tu?! Ha la voce incrinata dalle lacrime, dal dolore, dalla preoccupazione. Riesce a vederla, nella sua testa, i suoi capelli castani scompigliati, la mano libera che stringe un orlo della camicetta, la bocca storpiata in quella smorfia grottesca ogni volta che cade nell'ansia. Il dolore, nella sua voce. Come può affrontarla? - … - Hanamichi, papà…
(lo so, vorrebbe gridare, lo so, Lo So, LO SO, MERDA, LO SO!)
- Gli volevo bene, mamma- la interrompe singhiozzando, ed è la sola verità che sente in un mare di ESSERE infestato da tante bugie. Gli voleva bene, al suo papà, quando lo sentiva piangere, e gli accarezzava la testa, in silenzio, senza fare stupide domande… Nessun "Perché piangi?", "Cosa c'è?". Il perché lo sapeva, e aveva paura a pronunciarlo ad alta voce, perché la parola 'matrimonio' era diventato un tabù in quella casa, che apriva un vortice di dolore nel cuore così difficile da colmare… Quella che prima era solo una parola del vocabolario, era diventata, con poche carte firmate un coagulo di incertezze affettive. La mamma non amava più il papà… … e forse, se suo padre piangeva tanto, non voleva forse dire che lui non amava più Hanamichi?
(Mi volevi bene, papà? Se proprio non amore, almeno un po' di bene me ne volevi?)
L'unica certezza del suo cuore. L'unica. L'unica. - Ti giuro, gli volevo bene. - Hana…- sussurra incerta la madre senza fiato, e sono le sue ultime parole. Hanamichi interrompe la comunicazione, asciugandosi le lacrime gelate nelle guance col dorso della mano. È tutto finito. Ora può andare. Intorno a lui, il buio.
***
Deve pisciare. Posa una mano contro il muro e si alza, batte un paio di volte i palmi sulle cosce in un gesto automatico, scacciando polvere e fili di ragnatela impalpabile; preme un dito a casaccio sulla tastiera del cellulare e riappare la luce fievole e malata dello schermo. Distingue a malapena le linee di sporco che separano le mattonelle lerce, si fa strada tra profilattici usati e gomme da masticare contratte e appiccicose di buio. Cerca un angolo un po' più appartato per svuotarsi la vescica gonfia… per nascondersi da chi, non sa. Non ha un volto, chi è intorno a lui ora, non ha un corpo, o indossa vestiti, o è fatto di carne viva. Si sente osservato, ma non è una cosa fisica. È il babau che uccide i neonati in culla. È lo zombie che si nasconde sotto il letto in attesa che ti addormenti. È il fantasma che sai esistere dopo i racconti di una seduta spiritica tra amici. È il rapinatore fatto di oscura materia che ti aspetta dietro casa per derubarti e ammazzarti. È il mendicante senza gambe da cui distogliamo lo sguardo, ed è venuto a prendere ciò che è suo, e non è denaro ciò che chiede. È il ricordo di aver fallito l'unica volta in cui il rischio era perdere la persona a te più cara. Il buio nasconde il suo volto, ma tu sai che è là, dietro di te. È affamato. Bene, venga, venga pure. Hanamichi non si volta, sbottona la patta dei jeans, prende l'uccello in mano, urina contro l'angolo. Finisce, lo scrolla, lo rimette al suo posto. È ancora vivo. Il babau si è ritirato, non è ancora così affamato da attaccare. Ripreme un tasto del cellulare e la luce aliena riappare, l'alone appestato in cui immerge ogni cosa rizza i capelli rossi sulla sua nuca. Medita se non sia meglio avanzare al buio. Avanzando piano, potrebbe farcela, lo zaino è a pochi metri da lui. E sia. Stringe forte il cellulare e incomincia a camminare, striscia i piedi a terra, allunga le mani in avanti. Guadagna un paio di metri, la polvere alzata gli pizzica il naso, si preme la manica della divisa contro le narici, strizza gli occhi, soffoca uno starnuto. La stoffa blu puzza di sudore e sporcizia. Rimanda giù un conato. Odia essere sporco. Sporco. Lo odia davvero. Riprende. Non sa da quanto tempo cammina, o quanti metri manchino, non vuole accendere la luce dello schermo, perché il mostro è in attesa solo di un suo passo falso. Ha cambiato idea, è pronto ad ucciderlo, Hanamichi deve solo mostrargli dove deve colpire. Uno squittio improvviso. Avverte un rumore di zampette, e poi qualcosa di sottile e lungo, la coda del topo, saettargli intorno alla caviglia come una frusta. Guaisce schifato, mette un piede in fallo, inciampa. Si schianta malamente a terra, il dolore gli sradica il fiato in petto. - Merda!- sputa incazzato, - Topo di merda! Deve avere escoriazioni sui palmi , bruciano da morire, e quando allunga le mani per rialzarsi, trova la sagoma di un mattone scheggiato a un centimetro dal suo occhio. Un pochino più in là e addio luce, Hana-chan. Non avrai più la preoccupazione se la batteria del telefonino si scarica con un occhio maciullato. Da un pensiero guizza un altro. Batteria. Telefonino. TELEFONINO! Deve essergli volato di mano quando è caduto. - Cazzo!- sbotta esasperato, - cazzo cazzo cazzo! Batte il pugno chiuso a terra dalla rabbia, prende in pieno col tagli della mano il mattone sbrecciato, le schegge si conficcano nella carne leggermente collosa. Vede le stelle dal dolore. Urla. Si porta la mano al petto, la preme delicatamente contro la stoffa della divisa, sente un po' di umidore di sangue; non ce n'è molto, la ferita deve essere abbastanza superficiale… ma merda, fa male. - Io non dovrei stare qui- dice con voce incrinata dalle lacrime, puerile,- dovrei stare davanti al tv, pulito, e al caldo… Ancora una volta, un pensiero ne tira dietro un altro, e si ritrova a singhiozzare disperato prima che possa fare nulla. - … io dovrei stare a casa con il mio papà… Lacrime calde scorrono sulle guance sporche, gli occhi bruciano, ma non è questo che importa, non è questo che fa più male… è il buco al centro del petto che sfrigola da morire, un cannibale d'anima, divora se stesso perché non ci sono più illusioni a sfamarlo. - Non dovrei essere qui- bisbiglia in un sussurro rotto di lacrime. Ripensa alla mattina, a scuola come tutte le altre volte; ripensa alle risate con l'Armata, alle prese in giro per il suo ennesimo scaricamento; ripensa al panorama della città ai suoi piedi, quando si era affacciato alla terrazza della scuola, e aveva allargato le braccia, chiuso gli occhi, e si era lasciato trasportare da quella brezza d'oltreoceano. Quello era il suo posto: nella monotonia allegra di ogni giorno. Non solo, ad un passo dalla fine. Non solo. Non così. Le lacrime scorrono ora fiacche sulle sue guance, le asciuga maldestramente con il dorso della mano sana. Non è il tempo della commiserazione, questo. Adesso che ha perso il cellulare, è completamente al buio. Completamente alla mercè dei suoi incubi. Non può permetterselo. Avanza in ginocchio, tasta con le dita il pavimento in cerca della sagoma familiare del telefonino. Non può essere lontanissimo. Un centimetro dopo l'altro, un metro dopo l'altro. Ha un moto di gioia quando trova qualcosa di simile tra le dita. L'illusione cade dopo pochi attimi. Ha un involucro che scricchiola e un contenuto friabile che si sbriciola quando indaga. Un pacchetto di cracker abbandonato, probabilmente. - Merda! - ringhia contrariato, sente le lacrime riaffiorare e le ricaccia indietro. Non è certo che sarà in grado di fermarsi, questa volta. Non pensarci. Scrolla la testa. Riprende a cercare. Uno spiffero d'aria gelida gli aggredisce la pelle del collo. Anche l'aria è diversa, c'è un odore più fresco, sotto le coltri di sporcizia. Deve essere entrato in un'altra sala, ne è quasi certo nonostante l'assenza di luci… e deve avere… muri spessi?… non sente più i rumori delle macchine di passaggio in strada. Ma a cosa sta pensando? Non ha tempo da perdere! Ancora una volta scrolla la testa, cerca di riportare la concentrazione sul suo principale punto: il cellulare. Deve ritrovarlo.
È avanzato di un paio di metri, massimo tre, quando sotto le dita avverte una sagoma familiare, ma non è quella del telefonino. È uno scalino, a giudicare dalla ruvidezza sotto i polpastrelli, deve essere fatto di cemento grezzo, non ricoperto. Allunga la mano, ne trova un altro. E oltre, un altro ancora. Forse è la scala che porta ai piani superiori, il palazzo è alto. L'istinto del momento lo assale. ' Al diavolo il telefonino! Possibile che le finestre lassù non le abbiano murate, possibile entri un po' di luce stradale!' Segue l'istinto. Tasta gli scalini con le dita man mano che li sale, in cerca di crepe o di buchi nel pavimento. Non ne trova nessuno. Sale. È nella terza rampa che trova qualcosa di strano, che lo lascia interdetto. Verso la metà, avverte le ruvida nodosità di due pezzi di corda, tesi tra le ringhiera e il muro. Uno all'altezza delle ginocchia, l'altro delle cosce. 'È capolinea, Hanamichi. Deve essere un segnale di pericolo, magari è crollato qualche scalino o parte del muro, può accadere, può essere. Torna indietro'. Ma non vuole tornare indietro. Non vuole tornare al buio di quel salone lordo, al buio, con solo la compagnia di rimorsi e topi di merda, seduto in un angolo a piagnucolare. Vuole avanzare. Magari… sì, certo, la sua è solo curiosità, vuole vedere solo a che servono quelle corde… si fa un paio di scalini e torna indietro, o magari finchè non trova il crepaccio
(nessuno piangerà se muori, Hanamichi),
ma è solo curiosità
(sono sicuro)
la sua, solo curiosi…
(nessuno, e se per sbaglio cadessi giù)
…tà.
Scavalca le due corde trattenendo il respiro. 'Ora il buco deve esser da queste parti, attenzione'.
(nessuno)
Riprende a palpeggiare il terreno, a salire le scale. Non c'è nessun buco, nessun crepaccio, nessun resto di calcinaccio impolverato. Il pavimento di cemento è pulito sotto la suola delle scarpa. È una cosa fuori posto, per una palazzina abbandonata. Ma forse si sbaglia, certo, deve essere così.
Sale un altro paio di rampe quando le vede. A metà dell'ultima serie di scalini, le due corde tese, al ginocchio, alla coscia. Solo che stavolta, proprio, le vede: una luce chiara illumina le nodosità sfilacciate delle corde, come funi di crini di cavalo. Dopo aver vissuto in un mondo di oscurità, quei fili crespi hanno un loro fascino surreale. Hana sorride, ma è un sorriso strano. Anche qui, c'è qualcosa che non torna, e non riesce ad inquadrarlo bene. Scavalca la barriera con un attimo di esitazione
(È UN DIVIETO BAMBOCCIO CHIEDITI IL PERCHÈ TORNA INDIETRO È LA TUA ULTIMA POSSIBILITÀ DI FARE DIETRO FRONT E TORNARE DA MAMMINA )-
Consuma gli ultimi scalini, si ferma sul pianerottolo illuminato. È stretto, ci sono due porte, una davanti alle scale, l'altra contro l'angolo opposto. Sopra la prima, c'è una lampadina che irradia quella luce pallida che lo circonda. Qualcosa non va . Impiega un attimo a realizzare cosa sia. L'elettricità. La palazzina è abbandonata da una decina d'anni, non può esserci corrente. Che diavolo… Qualcosa non va . Sì, è vero. C'è un'altra stranezza. Anche qui, Hanamichi impiega qualche secondo per VEDERLA. Sgrana gli occhi. La lampadina che illumina il pianerottolo è rotta. Broken. Kaputt. Nello svolgersi naturale della vita quotidiana, avrebbe potuto illuminare quanto una capocchia di spillo in una colata di letame. Ed ora invece è lì, davanti ai suoi occhi, viva e vegeta. Gli sale istintivamente la frase di un film visto qualche tempo prima sulla vita di Cristo: - Alzati e cammina- esclama, e guaisce una risatina isterica. Alzati e cammina, diceva proprio così. E il morto tornava a camminare tra i vivi… e le lampadina ad illuminare pianerottoli bui. - O cazzo. O cazzo o cazzo o cazzo…- bisbiglia tremando , ridacchiando incredulo. Non è possibile. Non è possibile. Deve essere un sogno. Deve essere tutto solo un sogno schifoso, sta dormendo, sì, deve essere così, così… solo un sogno… Sente le mani fradice di sudore, si asciuga i palmi sui pantaloni, tanto sudore, tantissimo. Ne sente una ancora umida, fa male. Abbassa lo sguardo, e c'è sangue su una coscia. Il sangue della mano che si è ferito prima. Sangue. E dolore. Questo non è un sogno, Hanamichi. Questa è la realtà. E ora ti dico una cosa: scappa. Scappa più veloce che puoi, senza mai voltarti indietro. Si volta bruscamente verso le scale, scende un paio di scalini, lancia un'occhiata alle corde… e non le trova. Non ci sono più. Il buio le ha inghiottite. ' Eppure ero certo che prima fossero illuminate…' Magari la luce della lampadina si è affievolita, magari quella di prima è stata solo una tua impressione… ma sa che non è vero. Poteva vedere le corde, poteva vedere gli scalini sotto di esse. Ora non più.
(il buio avanza)
Non…
(avanza, e inghiotte tutto ciò che incontra. Ti avevo avvertito, bamboccio)
… più.
(era la tua ultima possibilità.)
Risale i due scalini all'indietro, ed è solo uno spasmo nella morte di un istante, ma è certo che il nero delle scale sia avanzato, un poco.
(e poi, Hana? Avanzerà un poco, e un altro poco ancora, e un altro poco ancora… e poi arriverà a te)
'A me'. Sente le mani ancora sudate, se le porta al petto, strizza la stoffa della camicia, in un vano tentativo di fermare il cuore che vibra nel petto, come un motore di macchina in corsa.
(Deja vu, tesoro, deja vu)
Suo padre a terra, le dita che artigliano la camicia bianca.
(tuo padre, Hana. Come lui.)
Allontana le mani dal petto con un movimento brusco, sbatte quella ferita contro la ringhiera, e mentre urla e la porta a sé, è certo che, anche attraverso gli occhi lucidi di lacrime, sulla scia delle vibrazioni metalliche, le ombre si avvicinino danzando come risacca gonfia d'alghe scure. Ora è a tre scalini dal pianerottolo. Hanamichi mugola disperato. 'Papà!!' urla nella sua mente. Ha le spalle spinte contro la prima porta. Due scalini. Sente il cemento sotto quella massa oscura sfrigolare di dolore. 'Non dovrei essere qui' si giustifica muto. È paralizzato dal dolore. Uno scalino. Uno solo. ' Non voglio…' Singhiozza. La risacca scatta in avanti. Nello stesso istante, la porta alle sue spalle cede. Cade indietro, sente la compattezza di un muro dietro di sé. La marea nera si gonfia come aizzata da un cocchiere fantasma, si erge in piedi, muro d'acqua nera. Con un sibilo di terrore, Hanamichi afferra la maniglia e richiude la porta di scatto, un attimo prima che l'ondata lo inghiotta.
***
^^''' Babbo_di_hanamichi: ç______ç ma tu mi fai sempre crepare… Tes:^^’’’’’ Ooooh, ^______^ fine primo capitoloooooo^__________^… ritorno ai vecchi amori*_____*… Questo capitolo mi è uscito un pochinino dark^^’’’’, ma io lo adoro*________*!
I commenti dei sopravvissuti impietositi da sta roba commentino a tesla_vampire@yahoo.it, grazie^**^!
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