Disclaimer: I personaggi sono tutti
miei. Al più, può vantare qualche pretesa la Sardegna.
Rating: R
Note: In questo racconto sentirete
parlare dei Mamuthones, maschere tipiche del carnevale sardo la cui origine
risale (è non è solo un’immagine poetica) alla notte dei tempi. Potrei
tenere una conferenza sull’argomento, ma l’introduzione ad un racconto non è
mai una buona sede per cose del genere e così, per preservarmi intatto
qualche lettore, ho deciso di girarvi molto più semplicemente questo link:
http://www.mamuthones.it/storia.asp
che vi consentirà di farvi una discreta cultura a riguardo (e, soprattutto,
di poter vedere qualche immagine).
Per il resto non mi resta che augurarvi, come mio solito, buona lettura, non
prima di aver ringraziato due artisti veri: Niccolò Ammaniti e Vinicio
Capossela. E sì, anche mia zia Sabina, anche se la detesto cordialmente.
Il verso delle cose
di Kuso
Baba
*fic scritta per il progetto
letterario "Morceaux"
“Gaudentes ed exsultantes, si taliter se in
ferinas species transformaverint, ut homis non esse videantur”
(Gioiosi ed esultanti perché si erano trasformati a tal punto in animali da
non sembrare più uomini)
Cesario di Arles, VI sec. d.C.
Era ancora estate.
Eppure non lo era più.
Il luccichio del mare, il sole che batteva, insistente e fastidioso, sulla
pelle abbronzata (quasi a farle un dispetto) erano più intensi di quelli
d’agosto, ma l’aria… non sapeva perché, Giulia percepiva nella brezza che la
avvolgeva qualcosa di strano.
Settembre.
I figli più grandi della sua ospite parlavano di compiti da fare, sbuffando,
usando quell’indifferenza sguaiata propria di bocche che hanno già perso il
sapore dell’infanzia.
Seduta in veranda su un divanetto di vimini, Giulia sorrideva.
Ormai non poteva fare più a meno di sorridere alle cose che la vita le
offriva.
Aveva imparato a farlo, finalmente.
Aveva dovuto imparare.
***
Il tamarindo è troppo dolce e lascia la bocca impastata.
Elias lo sapeva, ma ogni volta ci ricascava.
Sua zia gli raccontava sempre che ai suoi tempi quello c’era quando uno
aveva sete, altro che Coca-Cola, e lui un po’ per non starla a sentire, un
po’ per curiosità, un po’ perché provava rispetto per la vecchia zia Teresa
e per i suoi racconti (come per quelli di qualunque altro vecchio) lasciava
che gli servisse quel singolare liquido ambrato.
-Si può mescolare anche con l’orzata, volendo.-
Sì, ma l’orzata è più buona.
Il sole filtrava attraverso le fessure delle persiane, legni vecchi ormai
scrostati dalle intemperie, spezzando con le sue strisce di luce bianca la
rassicurante penombra in cui Elias voleva sprofondare. I libri erano là, su
quella scrivania moderna che tanto stonava con l’arredamento della sua
cameretta da bambino, singolare agglomerato di miseria in cui spiccava la
totale assenza di qualcosa che le conferisse anche solo un minimo di
personalità, ma lui non aveva affatto voglia di fare i compiti.
Aveva altro a cui pensare, lui.
Una pistola.
Una pistola nascosta nel cassetto del comodino.
L’ultimo oggetto che ti aspetteresti di trovare nella stanza di un ragazzino
di tredici anni.
***
Una ciotola di porcellana celeste e tanti piccoli cubetti fasciati di rosa.
Per ogni cubetto, un frammento di un disegno da bambini: una torta, un
aquilone, un nonno che gioca col nipotino (*).
Giulia aveva notato che alcuni disegni -se accostati- si completavano, come
tessere di un dolcissimo puzzle da paese dei balocchi, e così si era messa a
comporlo, pensierosa, lasciando che il caffé si freddasse regalando il suo
aroma al vento.
-Ci sei cascata anche tu, non è così? Questa è una delle geniali idee di
Marta. Quando ha trovato la scatola di queste zollette ha deciso che
sarebbero state perfette per Veronica: farla giocare con quel rompicapo di
zucchero è l’unico modo che abbiamo per riuscire a farle fare colazione.-
-E così, voi mi vedete come una bambina di cinque anni, eh?-
Giulia sorrideva divertiva.
-Certo. Lo sai che per Marta tu sei come una sorella minore.-
-Antonio, senti: mi dispiace per tutto quello che vi ho fatto passare. Io…-
-Non devi dire nulla. Ormai è tutto finito. Piuttosto: è vero che hai
ripreso a lavorare?-
-Sì, da un paio di settimane. La conduttrice del programma è una mia cara
amica, di me si fida e così, quando ha saputo che mi ero completamente
ripresa, mi ha voluta subito in redazione.-
-Sono contento per te.-
Ora era Antonio a sorridere sincero.
-Di cosa ti stai occupando, di preciso? Non mi pare che tu sia in Sardegna
solo per una vacanza. Ho riconosciuto il tuo cameraman, l’altro giorno, al
bar del porto.-
-Sì, Stefano. Ecco, vedi, mi serviva un’idea per un servizio, e non riuscivo
a trovare nulla. Mi sento un alieno lì in redazione… sono tutti più veloci
di me. Comunque: una sera, con alcuni amici, siamo andati ad un concerto di
Vinicio Capossela (**), e l’ho visto entrare in scena con una pelle di
pecora e una strana maschera. Ovviamente mi sono chiesta cosa raffigurasse e
mi sono subito messa in caccia. Ho fatto qualche ricerca ed eccomi qua.-
-Dobbiamo ringraziare Vinicio Capossela, allora.-
-Per avermi spedita a dare la caccia a dei pastori? Assolutamente.-
-Pastori?-
-Pastori. Quella gente che qui, a Portocervo, non sapete neanche come è
fatta.-
-E tu, invece, sei riuscita a trovarne qualcuno?-
-Esattamente.-
-Sono contento per te.-
Una voce proveniente dall’interno della casa distolse Antonio dalla
conversazione, permettendo a Giulia di rimanere nuovamente sola ad inseguire
il filo dei suoi pensieri.
Un filo sottile che conduceva direttamente nel cuore della Barbagia, e al
volto senza età di Janni Sorgu.
***
Le porte di casa cigolano con un fastidioso rumore di vecchio, ma per Elias
quel suono, ormai, è familiare. Si sta chiedendo soltanto se si tratti di
sua madre, o se debba prepararsi ad uno sgradevole incontro. Da qualche
giorno a questa parte, infatti, incontrare suo fratello Marco significa
ingaggiare una lotta col suo stomaco per non vomitare.
-Ma perché ti sei arrabbiato tanto? Non ho
fatto niente di male!-
-Ma che dici, eh? Niente di male? A calci in culo fino a casa ti dovrei
prendere! Tu ti sei fatto fregare, come tuo solito. Tra mezz’ora tutto il
paese ti riderà dietro.-
-Ma perché? Me lo vuoi spiegare? Mattia non dirà niente a nessuno!-
-E come fai a saperlo? Te l’ha giurato sulla testa di sua madre?-
-No… non gliel’ho chiesto, ma so che non lo farebbe a prescindere.-
-Stupido coglione!-
Il dolore per quell’insulto era stato più forte di quello per lo schiaffo
dietro la nuca. Il collo indolenzito bruciava, e la rabbia creava nelle
orecchie un ronzio che sembrava il crepitio di quel fuoco. L’umiliazione è
una cosa durissima da sopportare, specie se proviene da una persona nella
quale riponiamo la massima fiducia. Lui e Marco si portavano appena un anno
di differenza, eppure da due settimane a questa parte quel divario pareva
essersi centuplicato.
Marco aveva cambiato scuola, ma era come se avesse cambiato vita.
Nuovi amici, che a lui non piacevano.
Nuovi interessi, che lo spaventavano.
E quella dannata pistola nel suo cassetto, pesante neanche fosse fatta di
granito.
Pesante come la coscienza sporca che si rifiutava di avere.
***
Janni Sorgu non viveva in paese assieme agli altri. Diceva che Mamoiada era
diventata troppo moderna, per i suoi gusti. Era un uomo basso, di quasi 70
anni, e aveva capelli bianchi seminascosti da un cappello scolorito. Eppure,
gli occhi grigio-azzurri erano di una lucidità impressionante.
Era il colore del veleno che paralizza ed impedisce di muoversi.
Janni Sorgu faceva il pastore, ma era anche un intagliatore. Sin da giovane,
come suo padre, come suo nonno prima di lui, era stato
Mamuthones. A Carnevale sfilava per
le vie del paese, un fazzoletto nero in testa, una pelle di capra attorno al
corpo, e campanacci con cui far fuggire tutti via terrorizzati. Tutti tranne
i bambini, che restano lì a guardare la morte in faccia con l’incoscienza
che è loro propria.
Perché i Mamuthones simboleggiano la
morte da cui fuggire, e che a sua volta fuggirà a breve, perché all’inverno
segue la primavera, e in primavera la vita torna a reclamare il suo possesso
sulla Terra. Allora, la maschera di legno scuro si ripone, e tutti i
pensieri vanno alle greggi e al lavoro da fare.
Fazzoletto nero, pelle di capra, campanacci dal suono infernale, e una
maschera.
Nera, di legno d’ontano.
A forma di animale.
A forma di uomo, che è il peggiore degli animali.
-Le pecore puzzano, ma la loro è puzza di
vita. Siamo noi che puzziamo di morte, perché ci profumiamo con cose
inanimate.-
Noi puzziamo di morte, perché le essenze con cui sono fatti i nostri profumi
sono morte. Fiori secchi, erbe
recise, sostanze chimiche.
Puzza di putrefazione che addormenta i sensi.
L’odore del sangue, invece, sveglia. Fa venire da vomitare, costringe a
trovare un coraggio che non si possiede. Lo sa bene il pastore che deve far
nascere un agnello, o deve ammazzare una gallina, così come lo sa un medico.
Lo sa Janni Sorgu, ma lo sa anche Giulia.
Giulia, che un giorno era stata costretta a trovare un coraggio che non
aveva.
Il coraggio di annusare l’odore del suo sangue, e di rimanere sveglia.
***
-Com’è? Niente studio oggi? I froci hanno la scienza infusa?-
-Piantala. Stavo dormendo.-
-Non è vero, stavi pensando al tuo fidanzato, e al fatto che non sei
riuscito a prenderlo nel culetto perché avevi troppa paura. Oltre che frocio,
anche pauroso. Che schifo di fratello!-
-Piantala! Io non sono un frocio!-
Elias tirò il cuscino contro Marco, mancandolo.
-E allora cosa sei? Un uomo che si bacia con un altro uomo è un frocio.
Punto e basta.-
-Non è vero. Io non sono un frocio, e neppure Mattia. Io e lui volevamo solo
provare una cosa…-
-E cosa?-
Come si fa a saltare un burrone? Sarebbe
meglio che dire questo…
-Cosa si prova ad essere amati.-
-Che?!-
-Cosa si prova ad essere amati.-
-E adesso, per capire se uno è amato o meno dalla propria famiglia, si va in
giro a baciare sconosciuti?-
-Mattia sostiene che, a parte noi stessi, nessuno ci ama.
Tu non mi ami. E me lo stai
dimostrando insultandomi.-
Elias aveva gli occhi pieni di lacrime pronte a scendere giù, mentre Mattia
non riusciva più a parlare.
-Hai ragione, io non ti amo. Ti voglio
soltanto bene, e penso a ciò che è meglio per te, a differenza di
quel frocio che ti farà diventare lo zimbello di tutta Mamoiada. Vedrai se
non è così.-
-Non ha ancora detto niente, e non lo farà mai!-
-Semplicemente perché ancora non ha ottenuto quello che voleva. Sparagli
prima, Elias. Toglitelo di mezzo prima che ti rovini.-
-Io non sono un assassino.-
-Non serve che lo ammazzi, basta solo che lo azzoppi, come si fa coi cani
randagi.-
-Mi farei schifo.-
-Tu fai schifo, Elias. Fattene una
ragione.-
Marco recuperò dal fondo di un cassetto un pacchetto di sigarette ed uscì.
Fumare, per lui, aveva ancora il fascino di una cosa nuova e proibita.
***
E’ che non ce la faccio. Tutto qui.
E’ così che si decide che non si ha più voglia di vivere. Una mattina ti
alzi, fissi le piastrelle bianche del tuo bagno senza finestre e ti dici che
basta, quello è il capolinea.
Hai visto troppo negli ultimi mesi per poter andare avanti.
Il lavoro non ti aiuta, e l’essere sola neppure.
Tua sorella non sopravviverà per più di un paio di giorni, e tu per non più
di mezz’ora.
Pensi all’anno di agonia che ha tolto le forze ad entrambe.
Pensi a uno dei tanti film che hai visto, oppure frulli assieme scene
diverse.
Fatto sta che tenti di toglierti la vita, e lo fai in quella stessa,
patetica maniera, tagliando i polsi con un coltello da cucina..
Fatto sta, non sei riuscita a sopportare la paura della morte.
***
Elias ha aperto svogliatamente il libro di matematica, ma la sua mente corre
veloce, altrove.
Corre come la sua bicicletta, che vorrebbe prendere per andare via, in un
posto.
Elias non vuole fare male alle persone, ma alcune persone lo vogliono
obbligare a fare del male all’unico essere umano a cui si sia mai sentito
realmente legato.
Mattia, colpevole solo di avergli dato un bacio.
Di avergli detto che sì, lo amava, e che si sentiva riamato, come mai nessun
grande aveva saputo fare.
Mattia che ha l’età di suo fratello.
Che è in classe con suo fratello.
Mattia con cui è bello giocare a pallone e discutere di fumetti.
Mattia a cui sta per sparare Marco, che assieme alle sigarette si è portato
via anche la pistola.
***
Janni Sorgu si era fatto trovare intento a lavorare.
Il che è normale, per un uomo che si deve occupare di una tenuta agricola.
Ma lui non stava preparando delle caciotte per la stagionatura, lui stava
lavorando un ciocco di legno scuro.
Doveva uscire una maschera, da lì, ma non sapeva ancora quale.
-Mi piace seguire il verso del legno, lui sa cosa deve venire fuori.-
-Il verso del legno?-
-Sì, il verso del legno. Questo qua.-
Una mano nodosa scivola sul ciocco, indicandone le venature.
-E’ così che si lavora, sennò non ne viene nulla.-
-Si fa meno fatica, in effetti.-
-No no, niente fatica. Proprio non si può fare. Vede, il legno, così come
tutte le cose, ha un suo verso. Se lo segui, bene, il lavoro fila. Se non lo
segui, lui non segue te e viene fuori un gran macello.-
-Tutte le cose hanno un loro verso?-
-Certo: mica penserà di poter tenere uno scalpello dalla parte del metallo.-
-Eh, già.-
Giulia fissò ipnotizzata quelle mani rugose che lavoravano esperte.
-Lei crede che anche con la vita sia così?-
-Assolutamente. Quando io ero ragazzino, ogni
Mamuthones si intagliava la maschera
da sé, così ognuno l’aveva sua personale. Poi, però, con gli anni le cose
sono cambiate: la gente ha iniziato a fare altri lavori, e le maschere si
sono riunite in un’associazione che va in giro a fare feste tutto l’anno.
Quelli che sono rimasti a intagliare il legno per crearle sono pochi, e sono
quelli che lo sanno fare meglio. Evidentemente, noi riusciamo a seguire il
verso di questa tradizione. Gli altri provano a opporsi, ma niente. Si fa
fatica e si perde tempo.-
Giulia rimase colpita da quelle parole.
”Ogni cosa ha il suo verso” aveva una sua logica semplice ma
schiacciante. Se ripensava adesso alla sua condizione di un anno prima, non
poteva che dare ragione a quell’uomo.
***
Sapeva dove stava andando Marco, e sapeva anche che poteva arrivare in tempo
perché lui la bicicletta ce l’aveva a casa, mentre suo fratello il passaggio
in motorino doveva scroccarlo in paese.
Tempo ne aveva poco e ne cercava ancora di più, spingendo come un forsennato
sulle sue gambe ossute.
Doveva salvare Mattia, a tutti i costi.
Non poteva assolutamente perdere qualcosa di così prezioso.
***
Sua sorella stava per morire, quello era il verso della sua storia. Lei
aveva tentato di opporsi rifiutando quel fatto essenziale. Aveva preferito
buttarsi lei stessa lei in braccio alla morte, piuttosto che guardare in
faccia quella di una persona amata per cui tanto aveva lottato.
Le mani del vecchio Sorgu proseguivano il loro lavoro, scivolando agili
nonostante fossero più nodose dell’albero da cui proveniva il ciocco che
stavano lavorando. Il viso di un uomo, anche se deformato, stava prendendo
vita. Un viso che seguiva perfettamente le linee naturali delle venature del
legno, e quindi la sua storia. L’uomo, almeno in questo caso, si inchina
alla natura, lasciando che sia lei a decidere il dove e il come. Lei non
seppe fare altrettanto, allora.
Ma il suo verso non portava alla
morte.
Portava direttamente a quelle parole.
Era immersa in pensieri come questi, Giulia, quando un rumore la fece
sobbalzare.
***
La proprietà della famiglia di Mattia si trovava poco fuori Mamoiada.
Sugheri, rocce e pecore. E un odore di mirto reso più aspro dalla paura.
Elias tese le orecchie per percepire anche il più piccolo rumore, ma nulla.
Solo silenzio.
Pregò vivamente Sant’Antonio di essersi sbagliato, finché non vide un’ombra.
Marco, suo fratello, sembrava un cane rabbioso.
***
Un ragazzino di circa quindici anni la stava fissando coi suoi bellissimi
occhi grigio-azzurri. Era rimasto nascosto dietro una catasta di legna per
tutto il tempo dell’intervista.
-Signor Janni, chi è questo bel ragazzo?-
-Mio nipote Mattia.-
-E perché non ce l’ha presentato subito?-
-Perché è lui che non si è voluto presentare.-
-Però adesso ci hai ripensato, eh? Io mi chiamo Giulia, piacere. Tuo nonno
mi stava dicendo delle cose molto interessanti, lo sai?-
-Lo so, è per questo che le stavo ascoltando anch’io.-
Quella donna sorrideva ed era gentile, ed aveva mani lisce e bianche come
saponette.
-Anche tu stai cercando di capire qual è il tuo verso? Penso sia una cosa
comune a noi tutti, sai?-
Lo sguardo che Giulia vide in quel momento non l’avrebbe più dimenticato.
***
-Marco, che fai? Non vorrai metterti a cercare Mattia!-
-E tu? Non vorrai mica difenderlo, vero? Quel porco si sta divertendo con
te!-
-Non è vero! Ma perché non vuoi credermi! Lui non è un porco! E’ l’unica
persona con cui sto bene da quando…-
-Da quando?-
-Da quando hai cambiato scuola. Non sei più lo stesso, Marco. Mi spaventi,
con le sigarette e tutto il resto.-
C’era rancore, nella voce del fratellino minore, il rancore di un bambino
che è stato tagliato fuori dal mondo dei grandi.
-Sto diventando grande, Elias, i cambiamenti sono inevitabili. Pensi davvero
che si possa rimanere sempre gli stessi?-
-Io ci speravo.-
Piagnucolò quest’ultimo.
-E speravi male. Bisogna crescere e smettere di frignare.-
-E diventare assassini?-
-Anche, se è a fin di bene.-
-Tu sei matto!-
Elias aveva sgranato i suoi grandi occhi scuri, colmi della paura di chi non
riesce più a riconoscere qualcosa che gli appartiene.
-Forse. Ma io mi preoccupo per te.-
-E chi ti ha detto di preoccuparti? Io vivo benissimo senza la tua
preoccupazione!-
-Non è vero! Tu fai solo cazzate! Ecco cosa sai fare senza di me!-
-Ma perché dici questo…-
-Perché… perché io ti amo.-
Uno sparo non avrebbe potuto produrre un suono più assordante.
***
Uno sguardo serissimo, da adulto consapevole delle proprie scelte. Questo
vide Giulia dipinto sul volto di Mattia Sorgu.
-Io il mio verso l’ho capito già da un po’.-
-Ah, sì? E quale sarebbe?-
Mattia contrasse istintivamente le mascelle. Doveva abituarsi a combattere
per tirare fuori se stesso.
-Io vado al contrario di come va la gente.-
Giulia smise di sorridere. Quello non era un dialogo di cortesia, quello era
un vero e proprio proclama. Quattordici anni, ed aver capito cosa si vuole
dalla vita.
Lei non ci era arrivata neanche a trentacinque.
-A volte è dura.-
-Lo è sempre.-
-Buona fortuna, Mattia. Ne avrai bisogno.-
***
-Tu… tu prima, a casa, avevi detto…-
-Lo so cosa avevo detto a casa, e me ne pento. Io non voglio che mi lasci
per quello là, hai capito?-
-Ma Mattia…-
-Mattia, Mattia e ancora Mattia! Ma che rottura questo Mattia! Ma lui lo sa
cosa significa starti accanto quando hai la febbre e mamma e papà non ci
sono perché hanno da fare in negozio? E i compiti? Mattia è una capra, a
scuola, mentre io sono uscito dalle medie con buono. Chi credi che ti ami di
più, è?-
-Non è una gara.-
Più che colpito, Elias sembrava offeso dalle parole di suo fratello.
-Non è una gara, ma io non voglio che ti faccia soffrire.-
-Ma non è lui a farmi soffrire, sei
tu. Tu sei cattivo ed egoista!-
-E tu sei uno stupido!-
-No! Lo stupido sei tu! Non ti permetterò di parlare ancora male di Mattia,
hai capito? Lasciaci stare! Se mi vuoi davvero bene come dici, o addirittura
mi ami, mi devi lasciare libero di
vivere la mia vita in pace. Lui lo farebbe, se fosse al tuo posto.-
Elias aveva urlato quelle parole talmente forte da non avere più voce. In
compenso, aveva ottenuto di riuscire a calmare Marco.
O almeno così sembrava.
***
-E’ buono, il gelato?-
-Molto, sì. Grazie mille, Signora.-
-Prego, per me è stato un piacere.-
Giulia era letteralmente incantata dal suo giovane ospite, che aveva portato
in paese a prendere qualcosa al bar assieme a loro, caffé-dipendenti. Fissò
quel grazioso ovale dai tratti morbidi, e lo trovò forte e deciso, ma
nonostante tutto, bambino. Quanto può essere strana l’adolescenza?
-Senti, me la togli una curiosità?-
-Se posso volentieri, Signora.-
-Mi dici come fai ad essere così sicuro di te stesso?-
-Non lo posso dire.-
Mattia era a disagio, proprio non se la sentiva di raccontare di lui e di
Elias ad una perfetta sconosciuta, anche se gentile come quella signora.
-C’entra una persona speciale? Non voglio sapere chi è, ma soltanto capire.
Niente nomi, se non vuoi.-
-Una persona speciale? Sì, c’entra. Ce n’entrano diverse, per la verità. C’è
il nonno, che è uno che sa accettare le cose così come vengono, senza mai
urlare. C’è la mamma, che mi è vicina. E c’è… beh, c’è una terza persona, ma
non ne posso parlare.-
-Non parlarmene, non è necessario. Certe cose è meglio che rimangano solo
nostre.-
Giulia sorrideva. Chiunque avesse visto quel ragazzino, lo avrebbe preso per
una creatura solitaria, ed invece sembrava un forziere carico di monete
pronte a brillare al primo raggio di luce.
Mattia Sorgu aveva capito come procedeva la linea dell’amore, seguendola
come un branco di pesci segue la corrente. Ebbe l’istinto di chiedergli come
procedere anche lei in quella direzione, ma pensò che il ragazzo non avrebbe
saputo risponderle.
Ogni cosa ha il suo verso, così come ogni
persona.
Lei doveva cercarsela da sola, quella strada.
***
Marco era sbiancato. Non aveva mai sentito Elias gridare così forte. La sua
schiena venne scossa da un brivido che partiva da un punto preciso della
coscia.
Il punto dove premeva la canna della pistola.
Era andato lì per sparare a Mattia Sorgu e invece… invece ora la stava
puntando contro un altro bersaglio.
E stava premendo il grilletto.
Sei colpi, e un casino di uccelli a volare via.
Aveva svuotato tutto il caricatore in aria, e ora aveva gettato via quel
giocattolo inutile.
Elias era rimasto a fissarlo come un ebete, senza neppure avere la forza per
essere terrorizzato. Le orecchie ronzavano e le gambe sembravano fatte di
burro che si stava sciogliendo.
-Andiamo, su, si è fatto tardi. Dobbiamo ancora fare tutti e due i compiti,
o mamma ci ammazza quando torna.-
-Ma…-
-Niente ma. Hai detto che ti devo lasciare libero, no? E io ti prendo in
parola. Sappi solo una cosa, però: se vengo a sapere quello che non devo da
chiunque, in paese, io a quel porco gli spezzo le gambe. Tutte e due, e
senza bisogno di armi.-
Elias aveva ancora gli occhi sbarrati e la gola secca.
-Io l’ho detto che sei matto.-
-E io ti dico solo che ti voglio proteggere. E ora andiamo: la bicicletta la
porto io, tu stai dietro, dove sta il portapacchi.-
Nonostante quell’apparente serenità, i due fratelli sentivano ancora il peso
del fardello che li aveva accompagnati.
Avevano assaggiato per la prima volta cosa significa l’essere grandi, e quel
brutto sapore di sporco li aveva disgustati.
Molto meglio pensare ai compiti, allora, e alla cena che li avrebbe attesi
di lì a qualche ora.
Meglio accettare l’accaduto e ricucire lo strappo, che perdersi del tutto.
Elias si sedette dietro al fratello. Il portapacchi era scomodo, ma ritrovò
finalmente in quella schiena un odore e un calore familiari.
Marco era tornato ad essere suo fratello, e lui era tanto, tanto felice.
***
Il caffé era definitivamente freddo ed insapore, e Giulia aveva abbandonato
l’idea di finire il puzzle di zollette. Sarebbe stato compito di Veronica,
l’indomani mattina.
Guardò verso il mare, inspirando profondamente.
Ripensò al viso di Janni Sorgu, così simile a quello della maschera che
aveva intagliato, e allo sguardo determinato del nipote.
Il tutto nascosto in una terra apparentemente aspra e inospitale.
Mentre si alzava per rientrare in casa, si disse che sarebbe stato bello
poter restare lì un altro giorno.
(*)
Queste zollette esistono davvero, e sono prodotte dalla Eurosucre. Il loro
nome è “Daddy”.
(**) Cantautore, scrittore, talento multiforme e raffinato, Vinicio
Capossela ha pubblicato un disco intitolato “Ovunque proteggi”. Tra i vari
simboli utilizzati ci sono anche maschere della tradizione sarda. Per
saperne di più, ecco il link del suo sito ufficiale dedicato a questo disco:
http://www.capossela.altervista.org/pagine/ovunque_proteggi.htm
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