Il
profumo della Senna
parte I
di Earl Cain
Sapevamo di essere nel
peccato.
Dio non ci avrebbe perdonato.
Probabilmente.
Nessuno ci avrebbe perdonato.
Correva l’anno 1623, a Parigi le strade erano sempre gremite di
persone. Villani venuti in città per versare parte dei raccolti, mercanti
indaffarati che dovevano concludere importanti affari, artisti che si
dirigevano nei vari laboratori, chierici e uomini di Chiesa che, circondati da
bambini, o da poveri, o da buone donne entravano o uscivano dalle Chiese dopo
le Sante Messe, nobili che, circondati da guardie del corpo, passeggiavano a
capo alto nei viali più rinomati, o si apprestavano alle proprie carrozze per
raggiungere il fiore di Francia, la bella reggia di Versailles. Il conte
Jean-François de Polignac stava raggiungendo in carrozza la reggia di
Versailles, un volto, il suo, fra tanti altri. Aveva ereditato il titolo
seppur ancora veniticinquenne, ma aveva sempre presentato una maturità
superiore alla sua età, fin da piccolo, forse perché carico dell’onere di
essere il fratello maggiore di una nidiata di cinque bambini. Entrambi i
genitori infatti, l’una per costituzione, l’altro dopo un grave incidente,
erano in condizioni molto deboli e lui, seppur giovane, aveva sempre dovuto
avere un occhio di attenzione in più sia per gli affari della casa, sia per
questioni meno importanti, ma sempre fondamentali. Quando era morto suo padre,
dopo lunghi mesi di una malattia incurabile, la tisi, aveva preso a pieno
regime ciò che già da parecchi anni aveva in mano, quindi non aveva risentito
tanto dell’onere, quanto aveva sofferto di più per la perdita del genitore, al
quale era sempre stato particolarmente legato per una spiccata affinità
intellettuale. Jean-François infatti non era mai stato troppo brillante negli
sport, quanto invece lo era stato a riguardo della letteratura e dell’arte.
Sin da piccolo aveva covato un enorme interesse per il violino, insegnatoli da
suo padre quando ancora era figlio unico, all’età di cinque anni. I piacevoli
pomeriggi, sul calar del tramonto, quando ormai i fratelli erano stanchi delle
giornate passate all’aperto a giocare e si riposavano nel salone, passati a
suonare insieme a suo padre erano i ricordi migliori della sua infanzia. Come
anche le accese e mai noiose discussioni sulla letteratura. In particolare
piaceva loro commentare le elegie di Tibullo e i carmi di Catullo, o i sonetti
amorosi di Dante. Alla Commedia avevano dedicato lunghe giornate, passate a
decidere quale peccato il sommo poeta Fiorentino era riuscito a rendere nel
miglior modo, e quale meno. L’Inferno era la loro cantica preferita. Quando
morì, però, il giovane apparentemente sembrava non aver accusato troppo
tristemente il colpo. Era pronto alla sua morte, e ormai aveva assunto quell’atteggiamento
da Pater Familias, che sempre gli era stato particolarmente congenito, e che
ora poteva esserlo a pieno diritto. Ora le serate passate a suonare si erano
ridotte notevolmente, dovendo badare a molte più problematiche, diversi
carteggi, terreni da vendere e da comprare, l’economia famigliare, la corte. A
Versailles, in particolare, era faticosa la vita per lui. Abituato a
disserzioni acculturate, doveva subire le chiacchiere futili di ragazzine, o,
peggio, di donne inutili, che lo circondavano affascinate dal suo aspetto
particolare: un fisico asciutto, ma non parvo di una certa muscolatura ben
delineata, i capelli neri corvini raccolti in una coda semi lunga, gli occhi
di un azzurro intenso, gli zigomi marcati e le labbra rosse e sottili gli
rendevano la vita difficile. Quelle donne, abituate ad altri giovinetti senza
cervello tutti presi dal porre in risalto il proprio fisico, sfociando in una
certa volgarità di espressione e portamento, erano come magicamente
catalizzate da lui, che a stento sperava di poter riprendere la strada per
casa ancora vivo, ogni volta che varcava i cancelli della splendida corte.
Fortunatamente il padre non si era mai impegnato politicamente, e, nemmeno lui
volendo farlo, quello era un problema in meno.
Quel giorno Jean-François doveva recarsi a corte non per
qualche stupido balletto, che odiava, ma per una cerimonia particolarmente
importante, la cerimonia dei “ringraziamenti” del nuovo anno che la regina e
il re erano soliti effettuare a tutte le famiglie nobili gradite. I Polignac
erano sempre stati visti bene, in quanto famiglia tranquilla e appartata, che
non aveva mai tentato di porre il becco negli affari del Re, e ciò era cosa
buona. Non ne aveva comunque voglia e quella mattina aveva pregato iddio di
mandare qualche inconveniente per evitargli la noiosa cerminoia che, per due
secondi di saluto, durava così tanto perché le famiglie nobili erano davvero
molte, e lui sarebbe satato chiamato alla lettera P. Scosse pesantemente la
testa, ancora in preda di una certa sonnolenza, quando sentì nitrire i cavalli
e la carrozza fermarsi di botto.
Due giovani litigiosi si erano trascinati fino in mezzo alla
strada ed avevano rischiato di farsi travolgere dalla carrozza, uno di essi si
era gettato a terra per evitare i cavalli, ma aveva battuto la testa ed era
svenuto, l’altro era invece fuggito a gambe levate. Una folla si era formata,
come era solito in eventi del genere succedere a Parigi, attorno al giovane.
Jean-François, che non aveva paura del popolo, scese dalla carrozza, senza
ascoltare i consigli del cocchiere, e si avvicinò.
<<Scusatemi… permesso…>> mormorava con voce sommessa per farsi
largo e quando finalmente potè raggiungere la sua meta rimase pietrificato.
Steso a terra stava un qualcosa di indescrivibilmente bello. I capelli castani
chiari, non lunghi, ma nemmeno corti, gli circondavano il volto e la testa
come un’aureola che brillava ai raggi del sole, le labbra carnose erano
socchiuse, le sopracciglia lunghe e sottili e il corpo ugualmente magro.
Jean-François credette di trovarsi davanti a un angelo… un angelo mandatogli
da dio, un angelo androgino. Una strana idea gli si delineò nella testa.
<<Cocchiere! Abbiamo investito questo povero giovane, ora è
nostro dovere riportarlo alla villa e portargli le dovute cure…>> poi corrugò
la fronte; non voleva dividere quel messaggero di dio con nessuno, quindi
ripropose <<…o meglio; non voglio recare a mia madre inutili preoccupazioni.
Lo porteremo nella nostra villa di campagna, poco fuori Parigi e gli porterò
le cure personalmente. Comunque là dovrebbe esserci un maggiordomo nevvero? Ci
condurrai là e poi tu stesso andrai a Versailles a riferire rimanendo sul
generico di un impedimento causato da forza maggiore>>. Sorridendo ringraziò
dio. Quell’angelo gli aveva evitato una lunga e noiosa giornata fra stupide
nobildonne e nobiluomini ingordi di fama. Il cocchiere, seppur non d’accordo,
obbedì e aiutò il padrone a caricare in carrozza il ragazzo.
Mentre si conducevano verso la villa fuori città, Jean-François
studiò meglio l’esile figura. Ora il suo interesse fu catturato dagli abiti.
Indossava una camicia bianca, sporca, lacera su più punti, semi aperta,
lasciava intravedere un corpo candido e ancora non sviluppato, liscio e
glabro, e un paio di brache di tela marrone, molto leggeri; fra le altre cose
era scalzo. Il giovane nobile estrasse da una tasca un fazzoletto e dopo
averlo bagnato con della saliva pulì il sangue che ancora colava dalla bocca
tagliata del ragazzo, il quale, a quell’azione, corrugò le sopracciglia e
voltò la testa. Dopo un po’ di tempo furono arrivati alla villetta. La
villetta stava al centro di un’ampia distesa, da generazioni dei Polignac, di
molti ettari, con un bel boschetto di aceri e platani e ampi giardini fioriti
e prati verdi. Il cocchiere aiutò nuovamente il suo signore, e insieme
portarono in una stanza per gli ospiti il ragazzo, che ancora giaceva svenuto,
o, forse, addormentato.
Jean-François scrisse velocemente una lettera per la corte e la
consegnò al cocchiere poi tornò nella stanza e sedette su uno sgabello.
<<Come ti chiami angelo?>> mormorava piano, carezzando, anzi,
scostando lievemente le ciocche di capelli dalla fronte del ragazzo che
dormiva, immacolato <<come ti chiami? Ti ha mandato Dio a me? Sei così… bello…
>> le dita avevano lasciato la fronte, ora gli sfiorava le labbra, che si
socchiusero al suo tocco. Jean-François ritirò di scatto la mano.
Il ragazzino si era mosso e aveva cominciato ad aprire gli
occhi. Quando fu “sveglio” si artigliò alle lenzuola sotto di lui sgranando
gli occhi, come terrorizzato, poi si tirò di scatto a sedere, voltò la testa
prima a sinistra e poi a destra, dove incontrò lo sguardo divertito del
nobile. Gridò, si alzò in piedi ritirandosi all’angolo della stanza.
<<DOVE SONO FINITO?!>> disse ad alta voce <<CHI .. CHI SEI TU??
COSA CI FACCIO QUI??>>
<<Calmati… il mio cocchiere ti ha inv…>>
<<ODDIO! ODDIO!... MI VOLETE METTERE IN PRIGIONE? NON AVEVO
RUBATO IO QUELLA PAGNOTTA! ERA STATO MICHELLE!!>>
Jean-François rise di gusto, cosa che non accadeva da molto
tempo, e, accavallando le gambe, appoggiò la schiena allo schienale della
sedia, rilassandosi. Con sorriso affabile, poi, continuò.
<<ho detto… stai calmo.. il mio cocchiere ti ha accidentalmente
investito quando sei sbucato per la strada, così, visto che nessuno era venuto
a reclamare il tuo esanime corpo, ho deciso di raccoglierti dalla strada e di
curarti, visto che la colpa, dopo tutto, era mia…>>
L’angelo non rispose, limitandosi a spalancare gli occhi e a
puntare il dito verso il nobile, da diversi minuti ormai con il braccio teso,
il pugno serrato e il dito indice dispiegato in avanti. Sembrava una statua.
Una sorta di cupido e quel braccio era una delle sue freccie. La similitudine
affacciatasi alla mente di Jean-François lo fece arrossire impercettibilmente,
e lo confuse per alcuni secondi, lui che era fidanzato con una giovane di
Lione e che mai aveva accusato tendenze omosessuali.
<<…sei buffo così paralizzato..>> esordì, poi, per districarsi
dal groviglio di pensieri che aveva cominciato a complicarsi nella sua mente
così abituata a interpretare il cuore altrui, più che il proprio.
<<ah… come? Come dici?>>
<<ho detto che sei buffo.. abbassa quel braccio e torna qui>>
battè una mano sul letto <<o se senti la tua virilità vulnerabile qua sopra
c’è una sedia lì>> indicò a pochi passi da lui, sotto la finestra chiusa, che
però non impediva al sole di filtrare all’interno. Perché aveva tirato in
ballo la virilità? Si morse la lingua, senza darlo a vedere.
<<oh.. oh…>> abbassò il braccio arrossendo, forse per il buffo,
forse per la virlità <<si.. si..>> con movimenti impacciati conquistò la sedia
di legno di ciliegio e si sedette, con le mani sulle ginocchia, guardando a
terra.
<<perché quel muso lungo monsieur….>> Jean-François fece un
gesto della mano <<…qual è il tuo nome?>>
<<Jean…>> mormorò frettolosamente <<ma i miei amici mi chiamano
François perché dicono che assomiglio ad una ragazza che si chiama così… però
preferisco Jean>>
Jean-François rimase a bocca aperta. Non solo Dio gli aveva
inviato un angelo bellissimo, ma anche gli aveva dato il suo stesso nome per
farglielo capire.
Jean lo guardò, imbarazzato per quel silenzio.
<<Vostra signoria… che… che cosa vi succede??>>
<<eh.. oh.. vostra signoria? Non sono mica il re! Sono solo un…
“nobile”.. non ho molta più dignità di te.. Jean>> poi rise <<sai ero rimasto
un po’ imbambolato perché il mio nome.. è Jean-François…>> si grattò la testa
<<sono buffi i casi della vita… eh?>>
Ora fu Jean a restare a bocca aperta.
<<Su… ora…>> il giovane nobile si alzò <<ho fatto preparare un
bagno caldo… sei tutto inzaccherato e sporco di sangue! Nel bagno troverai
anche dei vestiti puliti. Sono di uno dei miei fratelli, ma non li usa più
ormai. Quindi ti prego di prenderli senza fare complimenti!>>
Il ragazzino non capiva più niente. Ma obbedì senza obiezioni.
Jean-François nel frattempo era uscito. Era confuso. Lui
inizialmente l’aveva portato lì per portargli soccorso. O forse no? La sua
bellezza. Era terribilmente bello. Così femminile. Più femminile e bello di
qualsiasi altra dama di Francia. Assomigliava a Nadinè, la sua sorella più
piccola, che aveva soltanto 10 anni, ma aveva una bellezza fuori dal comune.
Dall’aspetto nobile ed elegante, aveva un atteggiamento un po’ rustico, una
buffa pretesa di virilità nei modi, e nella voce che, Jean François ne era
sicuro, cercava di rendere più maschile possibile. Sorrise. E sussultò quando
sentì alle proprie spalle quella voce su cui stava ragionando in quel momento
esordire con un
<<signore?>>
<<oh?..>> si voltò quando era sicuro di aver perso il rossore
<<sei pron…..to…>>
Era… bellissimo. Mozzafiato. Il cuore del nobile si era fermato
per alcuni secondi, ne era sicuro, ed aveva ripreso a battere con una velocità
inverosimile. Gli aveva tolto il respiro. Gli aveva rubato anche l’anima.
Pulito e fresco, sembrava un giglio appena sbocciato, nei primi giorni di
primavera, quando ancora una certa tenace coltre di neve voleva resistere
appigliata alla bella terra che sotto di essa già stava risorgendo per un
nuovo ciclo vitale. Era un giglio che, sul bordo di una strada, rischiava di
essere calpestato. Bello e selvaggio. I capelli, puliti, erano molto più
biondi, ordinati, molto più lisci e composti, gli ricadevano sulle spalle,
sfiorandole appena con le punte, corti sulla fronte. Gli occhi erano di un
verde intensissimo, simile allo smeraldo, ma più chiari, come un fondo lago.
La camicia fresca, di seta, gli ricalcava i lineamenti del torso con mollezza
e delicatezza, e la sua semi trasparenza lasciava poco all’immagginazione. I
pantaloni stretti, le scarpe… sembrava un nobile. Un vero angelo.
Improvvisamente il desiderio, un desiderio folle, mai provato prima, aspro,
peccaminoso, terribile, disgustoso si impadronì del sempre pacato Polignac che
dovette voltarsi per evitare di contrarre lo sguardo, per evitare di mostrare
al ragazzino la propria perversa aspirazione.
<<Signore? Vi sentite bene?>>
<<Si.. si sto bene.. ho avuto un… un… capogiro… ecco…>> si
voltò nuovamente. Jean gli si stava facendo vicino, con una èassp che stonava
con il suo aspetto, un po’ troppo villano per l’idea che il nobile si era
fatto di lui. Smorzò il suo desiderio inespugnabile, che si spense
velocemente.
<<Ebbene… hai per caso una famiglia.. Fran… ehm.. Jean?>>
<<Chiamatemi pure François se vi piace>> sorrise il ragazzino
<<tanto ormai ci sono abituato… >>
<<D…d’accordo…>> mormorò confuso. Il suo atteggiamento così
amichevole lo imbarazzava, e aveva riacceso in lui una certa voglia di farlo
suo. <<dicevo.. avrai una famiglia immagino…>>
<<no… cioè… non lo so.. forse… sono un orfano.. vivo insieme ad
altri ragazzi per la strada.. viviamo di… diversi lavorettti e .. bhè si ce la
caviamo dopotutto.. non ci manca il necessario… siamo in molti e ognuno
provvede da sé al proprio, ma aiutiamo sempre chi di noi è meno fortunato>>
Jean-François rimase sbalordito. Forse per la veloce e allegra
favella del ragazzo. Forse per quello che aveva sentito dal ragazzo. Sapeva
che il popolo non se la passava bene, ma non si era mai interessato molto ad
esso.
<<Mi dispiace>> mormorò.
<<Di cosa, signore?>>
<<Chiamami Jean>> lo interruppe.
<<Come desiderate, Jean>> sorrise <<dicevo… non dovete
dispiacervi… non avete fatto nulla…>>
<<François… se vuoi… puoi rimanere qui… con me…>> disse senza
pensare, pentendosi delle proprie parole solo dopo averle pronunciate.
<<Come?>> spalancò gli occhi il ragazzino <<no.. no… non se ne
parla>> corrugò la fronte <<Non mi serve la vostra compassione>>
<<no… mi hai frainteso.. non è compassione la mia…>> disse il
nobile avvicinandosi <<…è passione…>> mormorò piano.
Jean sentì a stento le parole del nobile. Si morse un labbro.
Seppur giovane, aveva sedici anni, non era più vergine. Aveva anche, poche
volte, venduto il proprio corpo a qualche vecchio nobile sporcaccione
pederasta disposto a pagare quel Luigi in più per un bel fondoschiena glabro.
Certo, sapeva quanto i nobili spesso fossero frustrati. Ma Jean François gli
piaceva. Non voleva rovinare quell’idea di lui. No.
Fece due passi indietro.
<<scusatemi signore… non posso proprio accettare… non vendo più
il mio corpo… e voi mi piacete troppo perché possa concedermi a voi, signore…
spero che possiate capire…>> si voltò slacciandosi la camicia, diretto alla
stanza, per recuperare i propri stracci. Quando fu in stanza, a torso nudo, il
marchese entrò, chiudendo dietro di sé la porta.
<<François… angelo mio… perché??>> gli si avvicinò sfiorandogli
la schiena. Il contatto con le dita fredde produsse un breve eccitante brivido
attraverso Jean, che lo scosse.
<<Signore>> prese dal letto la sua camicia strappata quando
Jean François lo voltò e lo strinse fra le braccia <<Dio ti ha mandato a me…
non puoi volare via adesso… angelo mio…>> e lo baciò, tentò di baciarlo, ma il
ragazzino serrava le labbra, spingendo il petto del nobile con entrambe le
mani, per liberarsi. Sentiva il desiderio dell’uomo spingere contro di lui.
Spingere con forza, così come lo stringevano quella mani così belle e sottili,
sicuramente mani di un musico. Infine il marchese de Polignac lasciò la
stretta, senza però allontanarsi. Jean abbassò la fronte, senza però
spostarsi, rimanendo ancora lì, i corpi che si sfioravano, il desiderio del
nobile contro di lui, poteva sentirlo ancora in tenzione, i respiri, entrambi
affannati, l’uno per la resistenza, l’altro per il desiderio, gli sguardi, le
mani contratte, i nervi tesi. Poi il ragazzino sfiorò le labbra del nobile con
le proprie, fuggevolmente. Si allontanò da lui senza mormorare parola. Indossò
la propria camicia lacera e uscì, piano dalla stanza. Quando fu oltre la porta
mormotò
<<signor Jean… non adesso… io… se volete… possiamo… più avanti…
mi troverete quando vorrete per strada.. dove mi avete investito… ecco… io….>>
e se ne andò. Chiese gentilmente al cocchiere di accompagnarlo dove lo avevano
raccolto. Il cocchiere lanciò un’occhiata alla finestra della stanza, dove si
era affacciato il marchese e quando questo annuì, allora fece salire il
ragazzino in carrozza.
<<Anche tu… sai dove trovarmi Jean François>>
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