IL PRINCIPE AZZURRO 16
di Unmei
È passato quasi un mese dall’ultima
volta che ho dedicato un po’ di tempo alle mie ‘cronache’; non le avevo mai
trascurate così a lungo, e ora mi sento quasi in colpa. Di cose da dire ne
avrei avute molte, perché quest’ultimo periodo è stato più denso e interessante
di tutto il resto della mia vita messo insieme, ma avevo bisogno di fare un po’
d’ordine nella mia testa, prima… sono stato così preso dagli avvenimenti che
riuscivo a malapena a elaborarli, figurarsi metterli su carta. Ora però ci
voglio provare.
L’ultima volta che scrissi ero in cerca
di un lavoro. Bene. I primi esiti non erano stati incoraggianti, e io la stavo
prendendo piuttosto male; adesso capisco quanto la mia reazione fosse
esagerata, e provo non poco imbarazzo ripensando ai patemi e alla
preoccupazione per quegli insuccessi. Era come se ogni fallimento decretasse
che veramente da solo non sarei riuscito a combinare nulla, come se confermasse le parole di mio
padre sulla mia inettitudine.
Il livello di
sconforto avrebbe potuto essere ben peggiore, se non fosse stato per Alan:
vedendomi annaspare nell’autocommiserazione, ha voluto darmi una scossa: mi ha
strapazzato (come sempre), ha insultato il mio disfattismo, il mio modo di
vestire, di pettinarmi, e i miei poveri vecchi occhiali. Poi mi ha tagliato i capelli e ha dato
via tre quarti dei miei vestiti (ma per correttezza specifico
che mi ha anche accompagnato a comprarne altri, contrattando con il negoziante
uno sconto che da solo non avrei avuto animo di chiedere).
Lo ha fatto per spronarmi, per aiutarmi… per
rendermi più risoluto. Nessuno c’era mai riuscito, prima; forse in realtà
nessuno s’era mai preoccupato di provarci. E forse nemmeno Alan ce l’ha fatta
del tutto: non mi sento ancora davvero sicuro di me, ma sto cercando di
comportarmi come se lo fossi… se riesco a fronteggiare le mie insicurezze,
scoprendo di poter sopravvivere a esse, un giorno o l’altro anche la vera
fiducia verrà. Prima che per me stesso,
lo faccio perché non voglio deludere Alan. Perché voglio la sua stima, e che
non si penta d’avermi accettato.
Lui ha capito il bluff, sa che sono sempre il
solito ‘impiastro’, ma per il momento sembra gli vada bene così. Anzi, credo
sia soddisfatto di come me la sto cavando, anche se ovviamente me lo dice in alanese, e se uno non è pratico della
lingua non si accorge del complimento.
In ogni caso, se di finta si tratta, suppongo
di farlo abbastanza bene, perché cinque giorni dopo la strigliata di Alan ho
trovato un lavoro: un posto in una piccola agenzia pubblicitaria. Non certo
come copy writer (potrei mai, con la mia ‘grinta’?):
bassa manovalanza d’ufficio, commissioni e contatti con clienti, specie se
inviperiti. *
È infinitamente meglio
di quanto avessi sperato, considerando che non avevo esperienze né referenze da
offrire; a quanto pare è stata determinante la mia conoscenza delle lingue
straniere, quindi almeno per qualcosa devo ringraziare mio padre… anche se non
so quanto gli farebbe piacere, scoprire che le decine di migliaia di dollari
spesi in insegnanti privati e in soggiorni studio in Europa hanno contribuito a
liberarmi della sua influenza.
* (e approvvigionamento caffè , a essere precisi)
Il lavoro è in condivisione con una
ragazza che ha da poco avuto un bambino; questo mi lascia maggior tempo libero,
ma purtroppo anche un minore stipendio. Cercherò un secondo impiego, più
avanti, ma prima devo abituarmi a questo, e soprattutto non ho voglia di
ripetere così presto l’esperienza da ‘ansia del primo giorno’.
Va
bene, dire ansia è riduttivo. Tutta la mia instabile facciata
di autocontrollo è venuta meno: ero un fascio di nervi ipersensibili già alla
vigilia: avevo mal di testa, un perenne senso di nausea e non riuscivo a stare
fermo per più di tre minuti: avrò percorso qualche miglio, girando per casa da
una stanza all’altra. Ho anche avuto un po’ di febbre, a un certo punto,
sulla cui origine psicosomatica non nutro alcun dubbio.
Alan me ne ha dette di tutti i colori, ma poi
devo avergli fatto pena; forse era addirittura un po’ preoccupato, perché alla
fine, invece di infierire, ha cercato di rassicurarmi, di calmarmi e farmi
ragionare. Come sempre alla sua maniera, con frasi del tipo ‘se ti hanno dato
il posto è perché gli sei piaciuto, imbecille’ , o ‘se
ti tratteranno male incendierò le loro auto, ti fa sentire meglio?’.
Detto da lui è quasi romantico.
Ecco, dovrei parlare più
dettagliatamente di quanto mi sta capitando, di come è stato il mio primo
giorno di lavoro e di come sta andando ora… delle cose che sto imparando, delle
persone che ho conosciuto e delle telefonate di mia madre che ‘cerca di
farmi ragionare’, dei miei progetti immediati e di quanto mi sembri
d’essere un miracolato. Ci sarebbe davvero tanto, da dire; dovrei riempire intere
pagine.
Invece ciò che più mi viene in mente è Alan…
smetto di scrivere, e con la penna sul foglio inizio a pensare a lui, e quando
mi riscuoto mi accorgo di stare sorridendo.
È
normale che sia nei miei pensieri, visto quanto è legato alla mia vita attuale
e a tutti i cambiamenti dell’ultimo periodo, ma lui lo è davvero tanto, presente…
così tanto, forse troppo, che mi chiedo… non lo so. Se provo a ragionarci
sopra, o a mettere per scritto, i miei sentimenti si ingarbugliano, e non so
nemmeno da che parte iniziare.
Alan mi è piaciuto dal primo momento,
anche se non sapevo nulla di lui. All’inizio è stata solo una simpatia
istintiva, qualcosa che non è raro provare, tutto sommato. Ma oggi, benché
ancora non possa dire di conoscerlo a fondo, quella simpatia è diventata
qualcosa di molto solido e importante, per me. Mi piace il suo modo di fare, il
suo carattere spigoloso, il suo essere gentile sotto i modi ruvidi, la sua
voce, la sua musica. E ammiro la sua indipendenza, invidio la sua sicurezza.
Più lo conosco, più sto bene con lui.
Sono felice, qui.
Quando ancora stavo con Dietrich, quando
avevo appena conosciuto Alan, mi sentivo in colpa a provare tanto interesse per
un altro, per essere così desideroso di vederlo e passare del tempo con lui; mi
sembrava quasi una forma d’infedeltà, anche se ero sicuro, assolutamente certo,
di amare solo Die. Lo ero davvero, allora. Credo.
Ora, invece… il ricordo di Dietrich
brucia ancora il mio orgoglio, ma di lui non m’interessa più nulla, mentre di
Alan m’importa forse troppo, e ne sono confuso; non riesco a definire di preciso quello che sento…
… se mi sto innamorando di lui, se lo
sono già, se è solo curiosità, oppure se ho semplicemente bisogno di
appartenere a qualcuno. Qualsiasi cosa sia, so che non è saggio provarla ora,
e soprattutto non è saggio provarla per lui.
Sono ancora troppo “sensibile” per iniziare
un’altra storia; sto iniziando a raggiungere una parvenza di fiducia in me
stesso, e non posso permettermi altre cadute, men che
meno un rifiuto proprio da parte di Alan.
Ma il discorso è ozioso, non posso farmi
illusioni. Lui certo non prova il minimo interesse per me, sotto questo punto
di vista; non per una relazione, e nemmeno per un’avventura. È assurdo il solo pensiero. Anzi, probabilmente
non vede l’ora che me ne vada: anche se mi ha accettato come amico non
significa che sia felice di avermi tra i piedi tutti i giorni. Io stesso avevo
promesso di levare le tende appena possibile, e preferirei farlo prima che sia
lui a intimarmi di sloggiare.
Vorrei restare… l’ho già detto: qui sto
bene. E ho paura, andandomene, di sentirmi troppo solo… di uscire dalla vita
di Alan, non soltanto dalla sua casa.
Julian pose il punto e restò fermo, inclinando la testa.
Aveva scritto tutto di getto, specie l’ultima parte, e ora, rileggendo, gli
sembrava un lamentoso sfogo adolescenziale; mancava solo qualche frase sul
genere ‘nessuno mi capisce’
e l’effetto patetico sarebbe stato completo.
<Forse dovrei andare da un medico… qualche
psicofarmaco adatto al mio caso dovrà pur esistere.>
Si disse, chiudendo l’agenda e riponendola, e non
era del tutto certo si trattasse solo di una battuta: temeva che se fosse
rimasto troppo a lungo diviso tra entusiasmo ottimista e paranoiche esitazioni,
il suo equilibrio mentale non ne sarebbe uscito bene.
Tornò in cucina, lieto di avere ancora molto da
preparare, per cena: cucinare lo divertiva, lo rilassava, lo distraeva. E
cucinare per degli ospiti graditi moltiplicava tutti quei benefici effetti;
riusciva a dimenticare per un po’ le preoccupazioni mentre stava tra i
fornelli, nel mezzo di un piccolo caos di ingredienti e pentole che si
risolveva poi sempre in qualcosa di ottimo e speciale. Aveva iniziato a
cimentarsi, anni prima, per noia, e aveva trovato un senso di stabilità nel
seguire passo per passo le ricette: i buoni risultati che otteneva sembravano
confermargli che, se si è precisi e attenti, niente può andare male. Per una persona con discreti problemi di autostima
anche la buona riuscita di un soufflè poteva essere
un importante progresso, e quando persino suo padre, sempre così ipercritico e
incontentabile, si complimentava con lui, gli sembrava già un grande risultato.
Certo, considerata l’attuale situazione, suo padre ora non avrebbe dimostrato soddisfazione
nemmeno se gli avesse messo davanti un piatto elaboratissimo, regale, o
introvabile, addirittura impossibile…
< Tipo
un dodo arrosto.>
Pensò divertito, inserendo un cd nel piccolo stereo
sullo scaffale della cucina; una compilation dei T-Rex
che aveva raccolto personalmente, mettendo insieme i suoi pezzi preferiti.
<Mi
accuserebbe di tentato avvelenamento e finirebbe col disconoscermi del tutto…
pare che quella bestia avesse una pessima carne.>
Era certo che suo padre fosse più arrabbiato che
mai. L’uomo doveva aver dato per certa la poca resistenza del figlio, il suo
contrito ritorno all’ovile, l’ubbidiente ripresa degli studi e la preghiera di
essere reintegrato nelle patrie finanze; che il figlio stesse riuscendo a
farcela da solo doveva essere per lui ulteriore fonte di collera.
<La
realtà è che avrei dovuto fare per conto mio da molto prima.>
Si disse. Immerse i filetti di salmone nel brodo,
aggiunse il vino, e nell’attesa del bollore si dedicò alla meticolosa pulitura
dei funghi, e alle riflessioni. Pensandoci, l’essere andato a studiare
dall’altra parte degli Stati Uniti, l’essersi allontanato così tanto da casa,
poteva già dirsi un tentativo di acquistare indipendenza, no?
…
Balle. Quale indipendenza, foraggiato e alloggiato a
spese del padre? Desiderio di fuga, piuttosto, ma senza il coraggio di provarci davvero. Ora, invece, avrebbe
potuto iniziare a essere autosufficiente, libero… adulto. Doversela cavare da
solo lo avrebbe fatto maturare più in fretta. Tutte cose che suo padre avrebbe
dovuto apprezzare, no? Avrebbe dovuto complimentarsi, o perlomeno riconoscere il coraggio che
gli ci era voluto per affrontarlo.
E come l’aveva chiamato, invece? Sfacciato e
ingrato. Buono a nulla, anche. E per fortuna l’uomo non aveva avuto la minima
idea della motivazione scatenante, di ciò che l’aveva spinto a quella scelta;
avesse saputo di Dietrich, gli sarebbero uscite di bocca parole molto più
sgradevoli.
<Non
voglio nemmeno provare a immaginare.>
Pensò, con una fitta di autentico dolore. Poteva
sopportare la delusione che aveva provocato, sperare anche di riuscire a vincerla, un
giorno, ma il disprezzo… quello no, non lo poteva tollerare, né illudersi di
trasformarlo in accettazione.
Suo padre, WASP fin nel midollo, rigido, conservatore
e, dettagli ben più gravi, sottilmente razzista e decisamente omofobo, gli
avrebbe più facilmente perdonato un omicidio che un amante maschio. Non c’era
probabilità che l’uomo rivedesse le proprie posizioni e che tentasse un
riavvicinamento, come aveva fatto il padre di Aidan; per una cosa del genere il
presupposto indispensabile era che il genitore amasse il
proprio figlio.
<Papà,
invece… non mi odia, ma certamente non mi vuole bene. Non sono mai stato come
lui sperava, e non si è mai preoccupato di nasconderlo.>
Ormai stava imparando a lasciarsi scivolare addosso le opinioni paterne, ma ancora non riusciva a
ignorarle del tutto. La razionalità poteva anche dirgli di non dar loro peso,
ma il dispiacere e la frustrazione erano sentimenti difficili da estirpare una
volta per tutte.
<Ma
prima o poi ci riuscirò. Prima o poi imparerò. Adesso ho cose più importanti e
soddisfacenti di cui occuparmi, che non conquistarmi la sua approvazione. >
Non era solo un tentativo di farsi coraggio, ma la
pura e semplice verità: ciò che gli era capitato era
una grande opportunità, era stato fortunato. Gli metteva i brividi invece
pensare alla vita in cui si sarebbe trovato invischiato, continuando a fare
giorno dopo giorno qualcosa che non gli piaceva; immaginava un disastroso
effetto domino, si figurava un futuro da insoddisfatto, depresso, alienato e…
<Ammetto
di stare esagerando!>
Pensò, sorridendo. Dubbi e turbamenti di cui aveva
scritto poco prima si erano acquietati, a riprova che cucinare aveva davvero un
potere tranquillizzante su di lui; cucinare con il giusto sottofondo musicale,
poi, era persino liberatorio. Cominciò a canticchiare a mezza voce, mentre
procedeva con la ricetta, che ormai conosceva perfettamente a memoria. Scolò il
salmone, e nel brodo di cottura mise a lessare il riso; spezzettò i funghi, li
irrorò di succo di limone e li mise da parte: prima era meglio rosolare lo
scalogno, mettere i due ingredienti subito insieme non dava lo stesso
risultato, secondo il suo parere.
E visto che
di scalogno ne aveva ancora in abbondanza, avrebbe anche potuto preparare un
po’ di salsa per accompagnare il piatto… ma a quello poteva dedicarsi dopo,
mentre il koulibiak sarebbe stato in forno.
Mentre aggiungeva i funghi nel tegame, si accorse
che ormai aveva unito al canticchiare anche un vago ondeggiamento al ritmo di
musica; indice di massimo relax, senza dubbio, e nel ritornello si lasciò
trasportare del tutto, alzando la voce, cantando più liberamente. E
ancheggiando, e usando il cucchiaio di legno come microfono.
“But you won`t
fool the children of the revolution…”
Era
certo che Marc Bolan lo avrebbe perdonato.
”No you won`t fool the children of the revolutiAAAHH!”
All’urlo
e al balzo all’indietro, Julian fece seguire qualche istante d’impacciato
silenzio, prima di chinare la testa e strofinarsi la fronte, con il cuore che
ancora doveva calmarsi.
“Dio, che
vergogna terribile.”
“Ah, non era così male. Per un pivello.”
Alan sorrise, ben sapendo che i suoi commenti
stavano mettendo ancora più in difficoltà Julian; cominciava a prenderci gusto,
doveva stare attento. Abbandonò il suo posto, appoggiato allo stipite della
porta, e si accomodò a cavalcioni di una sedia. Julian
rialzò il viso e diede una rimestata ai funghi in pentola, tentando di
riacquistare un contegno.
“Da quanto tempo eri lì?”
“Dall’inizio della canzone, mi sono goduto tutto il
duetto. Non malaccio, ma eccedi un po’ nei toni alti.”
“Devi
proprio muoverti così di soppiatto in casa tua? Questa è la seconda volta! Mi
hai fatto venire un colpo… mi volto e sei lì, immobile a fissare… ghignando,
anche.”
“Di
soppiatto? Sono arrivato da dieci minuti! Ho salutato, entrando, sono andato a
cambiarmi, sono venuto qui e non ti sei accorto di
nulla. Un giorno entrerà un ladro, ti porterà via la sedia da sotto il culo, e
non te ne accorgerai nemmeno.”
“Avevo la
musica accesa.”
Borbottò Julian sulla difensiva, abbassando il
volume e sentendo gli occhi di Alan puntati sulla schiena; insomma, tendeva a
finire spesso con la testa fra le nuvole, ma non era il caso di esagerare.
“Il profumo
è buono. Te la cavi, in cucina.”
“È l’unica cosa che so
fare quasi bene. E temo che non mi
sarà molto utile, per il futuro.”
“Avresti
potuto cercare un posto come cuoco.”
“Uhm… no. In
un buon ristorante assumerebbero un professionista, a me al massimo farebbero
lavare l’insalata. In una tavola calda dovrei limitarmi a cuocere bistecche,
alquanto insoddisfacente. E in ogni caso, il cuoco
sarebbe un mestiere troppo faticoso!”
“Oh, povera
anima. Dimenticavo che il signorino è troppo delicato per certe cose – a
dispetto delle parole, il tono era amichevole – Hai bisogno d’aiuto, vuoi che
ti asciughi il sudore dalla fronte?”
“Ce la
faccio da solo, grazie.”
“Impiastro.”
Sentenziò Alan, uscendo dalla stanza. Tornò subito dopo,
con un libro tascabile che aveva l’aria di essere stato riletto più di una
volta; si preparò una tazza di caffé e si mise a
sedere, aprendo il volume a poco meno della metà.
“Non ti troveresti
più comodo sul divano?”
“Sto bene
qui in cucina, fa più caldo.”
“Che libro
è?”
“Storie Impreviste, di Dahl.”
“Mhh. Non avresti voglia… di leggere ad alta voce?”
Alan sbuffò. Sfogliò un paio di pagine, lamentò di
non essere uno speaker radiofonico, informò Julian dell’esistenza degli
audiolibri.
Ma lesse, e dalla voce non sembrava dispiaciuto.
*
Julian amava uscire la sera, con i suoi nuovi
amici; frequentavano posti che erano stati completamente fuori dal suo giro, prima, ma in cui si era trovato
facilmente a proprio agio, e il Diadokon era diventato il suo locale preferito,
specie quando Alan vi cantava. Era bello anche vagabondare semplicemente per la
città, in macchina o a piedi, parlando, bevendo e ridendo e forse comportandosi
in maniera un po’ idiota, e intere ore volavano senza che lui se ne accorgesse.
Ma serate come quella che stava trascorrendo erano
per lui ugualmente piacevoli; erano preziose e gli scaldavano il cuore, e gli
facevano sospettare di essere, in fondo, un tipo piuttosto casalingo. Rimanendo
tra mura domestiche, inoltre, anche Fabian poteva far parte del gruppo; Julian
era il più giovane della sua famiglia, non aveva fratelli minori, né esperienza
alcuna nel trattare con i bambini, ma tutto sommato non doveva cavarsela male,
perché il piccolo sembrava averlo preso in simpatia. Quella sera, in
particolare, aveva deciso di monopolizzarlo: dopo la cena, e dopo aver guardato
un film, si era seduto accanto a lui sul divano, mostrandogli orgoglioso le
foto che aveva scattato lui, tutto da
solo, sottolineava, durante i giorni di vacanza trascorsi a San Juan.
Entusiasta e chiacchierone, spiegava ogni scatto spiegandogli i mille dettagli
strambi e importanti per un bambino di cinque anni.
“Sei un
fotografo davvero in gamba, sai? Più bravo di me.”
Si complimentava Julian; esagerava solo in parte,
perché in mezzo a foto storte, controluce o incomprensibili, ce n’erano alcune
ben riuscite, che dimostravano un occhio interessante. Forse erano solo episodi
fortunati, ma poteva anche trattarsi di un talento da coltivare.
“Gli ho affidato la mia vecchia digitale – Damien
parve intuire il suo pensiero - lasciandolo libero di fotografare ciò che gli pareva.
Permettere ai bambini di esprimersi è il miglior modo di crescerli… mio nonno
fece così, con me.”
“Bel risultato ha ottenuto.”
“Aidan invece dimostra chiaramente di essere sempre
stato un represso – commentò Damien, alzandosi - Bene, vista l’ora direi che dovremmo
togliere il disturbo. Fabian, vieni; finirai di raccontargli un’altra volta.”
“Presto,
però! E poi… oh! Julian – cambiò argomento il piccolo – sai fare le torte?”
“In realtà
non ci ho mai provato, ma c’è sempre una prima volta, no? Se vuoi sceglierne
una, poi possiamo farla insieme.”
“Non te lo leverai
più di torno.”
Sorrise Damien, spettinando il bambino, che già
aveva iniziato a elencare torte: al cioccolato, alla crema, alle fragole…
Anche il
represso si alzò, e senza replicare alla provocazione di poco
prima. Anzi, ne era quasi grato: per tutta la sera Damien non l’aveva
reso oggetto di irritanti battute, col risultato di instillargli una vaga
inquietudine. Dopo tutto, nel corso degli anni, esse
avevano acquistato un che di rassicurante, e la loro assenza era sempre stata
un brutto segno.
“Grazie per l’ospitalità e, Julian, complimenti.
Per l’ottima cena, per il lavoro e per come te la stai cavando.”
“E per il
cambio di look – aggiunse Damien, aggiungendo imbarazzo su imbarazzo sul volto
di Julian – Anche i nuovi occhiali sono molto più adatti a te.”
Julian fece un sorriso, spingendosi istintivamente
la montatura su per il naso.
“Grazie. Un
po’ mi dispiace per quelli vecchi… li avrei almeno voluti tenere come ricordo,
invece Alan li ha buttati.”
“Ci risiamo!
Paranoico! Mi accusi senza prove.”
Esclamò stizzito Alan, incrociando le braccia e
voltando sdegnosamente il viso.
“Li avevo
posati sul comodino, prima di dormire; il mattino dopo non c’erano più. Li ho
cercati ovunque: spariti. Chissà cosa gli sarà successo, eh?”
“Si saranno
mestamente incamminati verso il cimitero degli occhiali-elefanti: l’età c’era
tutta.”
Julian gli
rivolse una smorfia, poi tornò a guardare gli ospiti. Si tolse gli occhiali,
osservandoli; rettangolari, sottili e allungati, e di colori molto più vistosi
di quelli vecchi.
“Un’altra
prova che è stato Alan a gettarli via, è che il senso di colpa lo ha spinto a
portarmi in una specie di bazar dove ho trovato qualche bella montatura a pochi
soldi. Questa costa meno di quaranta dollari!”
“Da Malcom?”
Fecero in coro Aidan e Damien. All’annuire di Alan
si guardarono e scrollarono spalle.
“Beh, finché
si tratta di così poco, niente di male, suppongo.”
Per un qualche motivo quella frase pronunciata con tanta
disinvoltura da Aidan mise una leggera agitazione in animo al quattrocchi.
“Cosa intendi, scusa?”
“Alan non ti ha avvisato? – chiese Aidan, con
palese disapprovazione – Dunque… Malcom è un bravo
ragazzo, in fondo. Sta in quel negozio, che è di suo padre, solo un giorno la
settimana; in realtà lavora per un corriere, fa consegne per ditte e negozi...
e talvolta capita che…”
“Capita che
qualcosa gli resti attaccata alla mano, nel qual caso
disporre di un simile bazar può tornare utile, per arrotondare lo stipendio.”
Terminò
Damien, serafico. Julian sbatté gli occhi, prima di capire veramente.
“Cioè sarebbe… quel negozio è uno spaccio di merce
rubata?”
“Via, non esageriamo; detto così sembra brutto. Non
tutto. Qualcosa, ogni tanto. Un paio di caschi da motociclista. Qualche
orologio. Scarpe sportive di marca. Dipende da cosa lo ispira, e da quanto è
annoiato.”
Il tono perfettamente ragionevole di Damien non
servì a rassicurare Julian; non essendo molto avvezzo a certe cose, la faccenda
gli sembrava più losca di quanto dopotutto non fosse.
“Sono
praticamente un ricettatore!”
“Sei
praticamente una piaga!”
Lo zittì Alan, tirandosi indietro i capelli con un
gesto veloce; era evidentemente offeso dal vedere degradato a crimine il
proprio gesto altruista. Julian avrebbe voluto protestare, ma gli mancò la
parola quando si ritrovò con un braccio di Damien a cingerlo. Si voltò verso di
lui, e quello gli rivolse un sorriso affascinante e insidioso, avvicinando il
viso al suo.
“Julian,
come puoi sopportare? Perché non lasci
questo bruto e vieni a stare da me? Una camera libera l’ho
anch’io.”
“Ah… ecco, io, in verità…”
“Come avrai notato, sono molto più gentile di lui.
Beh, ammetto che ci vuole poco. Non chiedo affitto, mi basta poter approfittare
delle tue doti gastronomiche. Allora?”
“G-grazie,
ma…
Julian, vagamente imbarazzato, era nel dubbio se l’offerta
fosse da prendere sul serio o se si trattasse di uno scherzo, ma non gli era
semplice capirlo: Damien era uno degli individui più difficili da decifrare che
avesse mai incontrato. Forse l’ideale sarebbe stato riderne e dire che Alan
poteva essere un bruto, ma ormai lui ci si stava abituando, e che anzi la sua
vicinanza era paragonabile a una salutare tempratura
del carattere. La risposta gli parve soddisfacente, ma non ebbe il tempo di
pronunciarla: qualcuno lo separò bruscamente dallo scrittore, mettendosi tra
loro.
“La tua
opportunità di prendere in casa l’impiastro l’avevi avuta e hai preferito
scaricarlo a me, quindi ora me lo tengo!”
“Oh! Ma guarda un po’ che interessante reazione!”
Con le braccia incrociate sul petto e l’espressione
beffarda, Damien fissava Alan, sfidandolo a giustificare tanta veemenza. E con
un motivo, nello specifico, che permettesse al ragazzo di conservare intatto l’orgoglio.
“È… questione di principio.”
Fu tutto ciò che lo sfidato riuscì a mettere
insieme, dopo un momento d’indecisione. Una scusa abbastanza patetica; lo pensò
anche lui, specie vedendo il sogghigno di Damien farsi ancor più soddisfatto e
carico di sottintesi. Si diede dello stupido; avrebbe dovuto rispondergli <Prenditelo
pure, per quel che mi riguarda> o qualcosa di simile: lo conosceva da
anni e ancora non aveva imparato a riconoscere le sue provocazioni, o a
controbatterle degnamente.
Se non altro il bieco individuo parve
sufficientemente compiaciuto da decidere di potersi congedare; dopo un
abbraccio affettuoso al piccolo, un saluto ad Aidan e un paio di insulti a
Damien, Alan chiuse la porta dietro ai suoi ospiti. Si augurò che Julian avesse
il buon gusto di ignorare quanto avvenuto e detto negli ultimi minuti, che non
si mettesse bizzarre idee in testa e che soprattutto non facesse battute di
alcun genere, perché era certo che la sua risposta sarebbe stata poco garbata.
Provò qualcosa tra il sollievo e il disappunto, nel
vedere esaudite le proprie speranze: Julian sorrise, con giusto un po’
d’imbarazzo, e blaterò qualche considerazione sulla buona riuscita della serata
e sul successo
del menù. Il disappunto virò in fretta verso una leggera irritazione, e Alan
non riusciva a capire cosa lo seccasse tanto, e perché quel senso d’aspettativa
delusa: evidentemente Julian non era stato impressionato da quel suo rigurgito
di possessività, ecco tutto.
Meglio così. Poteva andarsene a dormire tranquillo,
adesso, ostentando indifferenza.
“Buona
notte, impiastro. Ci vediamo do… che stai facendo?”
“Beh, lavo i
piatti, no?”
Julian trovava la cosa piuttosto evidente: stava
riempiendo l’acquaio, e versandoci dentro un detersivo dal colore quasi
fluorescente.
“Sono le
due, per Dio! Fallo domani!”
“Mi dà
fastidio lasciare questo disordine, preferisco pensarci adesso.”
“Ma sentilo…
- scosse la testa - sei davvero sicuro di possedere il cromosoma Y?”
“Guarda
che…”
Alan però aveva voltato le spalle e già se ne stava
andando, rivolgendogli un vago cenno di saluto.
“Buonanotte.”
Sospirò Julian, mettendosi al lavoro. Stimò che per
rimettere tutto in ordine avrebbe impiegato una quarantina di minuti, e
sbadigliò; a pensarci bene non sarebbe stata poi un’idea malvagia, quella di
rimandare le faccende al mattino dopo, ma ormai…
Aveva lavato solo qualche piatto che, con suo
stupore, Alan tornò accanto a lui, canovaccio alla mano.
“Fai casino – gli disse, seccamente – ti aiuto ad
asciugarli, così ti sbrighi prima e posso dormire in pace.”
“Non dirmi che si sente così tanto rumore dalla tua
camera, perché non ci credo.”
Julian notò l’occhiata torva che gli venne scoccata
e rientrò nei ranghi, ma non nascose un sorriso divertito; se mai Alan gli avesse rivolto esplicitamente un gesto gentile, senza pretesti e senza mugugni,
lui forse non si sarebbe mai ripreso dallo shock.
“La prossima volta che vengono a scroccare la cena
– commentò il musicista – i piatti li laveranno loro. Mi sembra il minimo.”
“Non è buona
educazione far rassettare agli ospiti. Credo infranga qualche regola del
galateo, sai.”
“Peggio per
loro. Se vogliono evitare, possono regalarci una lavastoviglie.”
Lavorarono in silenzio. Un silenzio rilassato,
molto diverso da quello carico di imbarazzo in cui si erano trovati talvolta,
nei loro primi giorni assieme. Ogni tanto Julian occhieggiava Alan, sentendosi
felice del cambiamento avvenuto, e dispiaciuto perché non avrebbe potuto
goderne a lungo: il loro tempo sotto lo stesso tetto era ormai limitato. Molto
limitato, forse.
Aveva accantonato il pensiero del vicino
trasferimento per buona parte della giornata, lo aveva praticamente
dimenticato, ma adesso tornava a farsi vivo, e gli sembrava ancor più
deprimente. Forse doveva approfittare del momento, del fatto che Alan sembrasse
rilassato e ben disposto, e che in qualche modo la battuta fattagli da Damien
quasi rientrasse nell’argomento. Era
l’ultima cosa di cui avesse voglia, ma la doveva
fare. Era nei patti, dal primo giorno.
“Senti, a
proposito di quello che prima ha detto Damien…”
Non guardò Alan nel parlare, e così si perse
l’irrigidirsi nervoso e involontario delle sue spalle.
“Lui parlava
per scherzo, d’accordo – continuò – ma ora che ho un lavoro potrò mantenere
quel che ti avevo promesso. Sai, di levare il disturbo quanto prima.”
Tacque, senza avere risposta. Al prolungarsi del
silenzio si sentì ridicolmente teso; si voltò verso Alan, preoccupato, e
scoprendo il suo sguardo intenso, fisso su di lui, si trovò ancor più in agitazione.
“Voglio
dire… tra i soldi guadagnati dalla vendita della Porsche e lo stipendio, penso
di potermela cavare. E nel frattempo
magari troverò un secondo lavoro. Non è necessario che io… continui a seccarti.”
“E quando
avresti intenzione di andartene?”
Il tono di Alan era così asciutto e freddo che
Julian se ne sentì ferito; spostò il peso da un piede all’altro, e rispose con
una naturalezza tanto esagerata quanto palesemente falsa.
“Non so, il tempo di ricevere il prossimo
stipendio, di trovare un alloggio. Per adesso ho solo controllato gli annunci
immobiliari, da lunedì potrei cominciare a fare telefonate, a vedere qualche
posto…”
“Se
dimostrerai lo stesso fiuto per gli affari che hai sfoggiato nell’acquisto di
quel catafalco che chiami auto, posso immaginare in che razza di topaia andrai
a finire. Dovrai comprare un fucile per ammazzare gli scarafaggi, tanto saranno
grossi.”
“Accompagnami tu, se temi possa farmi
imbrogliare.”
“Non temo. So. – disse con un mezzo ghigno – Ma
immagino che potrei darti una mano, dopotutto va anche a mio vantaggio: non
correrò il rischio di vederti tornare con la coda fra le gambe.”
“Bene.
Grande. Allora poi… ci metteremo d’accordo.”
<Che
stupido. Che stupido a rimanerci così male.>
Si disse Julian. Chissà cosa si aspettava, poi: già
sapeva che Alan non vedeva l’ora di vivere di nuovo da solo, e che lo aveva
accettato malvolentieri in casa sua. Avrebbe cercato almeno di trovare un
alloggio nello stesso quartiere, e avrebbe continuato a vederlo, e a
frequentare il Diadokon, per sentirlo cantare. Andare a stare per conto proprio
non doveva significare perdere la loro… amicizia?
“Fai come vuoi – riprese Alan, con un filo
d’incertezza nella voce, ma Julian era troppo preso
dai propri sentimenti per notarlo; alzò gli occhi verso Alan, e vide che
parlava senza guardarlo, mentre asciugava con ostinazione una paletta da
portata – però… non è poi così urgente che tu te ne vada. Insomma, sei meno
fastidioso di quanto credessi. Hai persino qualche pregio, e poi mi fa comodo
avere qualcuno con cui dividere le spese, e che tiene spontaneamente in ordine
questo posto. Quindi se vuoi rimanere per me va bene, non mi dispiace. Se… vuoi rimanere?”
*
Solo dopo quella fatidica
domanda Alan si decise a guardare di nuovo il suo coinquilino, e dopo aver
posato gli occhi su di lui, scoprì di non riuscire a staccarli. Era colpito,
del tutto catturato, dall’espressione
sul viso di Julian; dalla sua sorpresa, dalla sua felicità incredula, dalla
gioia e dal sorriso che erano una più che sufficiente risposta.
Che cretino l’impiastro, a credere di non essere
bello, quando sapeva sorridere in quel modo.
Alan, guardandolo, non riusciva più a pensare. O
meglio, non riusciva a pensare che a una cosa, senza trovare le ragioni o la
forza per resistere; così percorse la breve distanza che li separava e
passandogli un braccio dietro la schiena, stringendo la mano su un suo fianco,
lo baciò.
*
Julian avvampò, sussultò di stupore e piacere. I
suoi occhi si spalancarono, al tocco delle labbra di Alan, e poi lentamente si
chiusero. Tutta quella vicinanza, all’improvviso … il profumo di Alan, il suo
calore, il gusto della sua bocca, le sue mani e il suo corpo… si sentiva del
tutto, stupendamente, sopraffatto. Si strinse a lui, lasciandosi trasportare
dalle sensazioni, amplificate mille volte, stordito dal proprio cuore che
batteva con violenza; si sentiva leggero, un po’ ubriaco
anche se non aveva toccato un goccio d’alcol, quella sera. E il bacio di
Alan… oh, il suo bacio era come lui.
Era aggressivo, e possessivo, appassionato; ma pieno anche di una dolcezza
aspra, e di necessità; del bisogno
disperato di essere accettato, accolto, ricambiato.
Riflessioni che passarono come un
lampo, breve e vividissimo, nella mente di Julian, e come un lampo fecero luce
sui suoi sentimenti; il bagliore non l’accecò, ma gli mostrò la verità pura e
semplice: i dubbi sui sentimenti che provava, l’incertezza, ciò che aveva
scritto quello stesso giorno sul diario… quel bacio gli dava la risposta: ora
sapeva di non aver aspettato altro, forse dal giorno in cui s’erano incontrati.
Annaspò nel bacio, sentendo le dita di Alan
sfiorargli la pelle nuda sotto la maglia; i brividi che lo percorsero erano
sinuose scariche elettriche, e insieme al sangue sembrava scorresse il fuoco,
tanto il calore che sentiva.
E poi un nodo allo stomaco, che toglieva il fiato,
ma così piacevole, e quella sensazione al basso ventre, l’eccitazione
inconfondibile, il desiderio, l’erezione prigioniera dei jeans… era così… così non si era mai sentito.
Si strinse più forte a lui, cercando il maggior
contatto possibile, comunicandogli col corpo, con la bocca, con le mani, tutto
ciò che provava.
E d’un
tratto si trovò separato da lui. Le mani di Alan ancora sui suoi fianchi per
qualche secondo, poi il ragazzo fece un passo indietro, fissandolo; turbato,
incredulo per ciò che aveva fatto, per aver ceduto, obbedendo a un desiderio
che non sapeva di avere. Rosso in viso e con gli occhi accesi, si mordeva le
labbra e aveva il respiro corto; sembrava quasi spaventato dal suo
stesso slancio, e da quello con cui Julian aveva ricambiato. Abbastanza
spaventato da non riuscire a dire nulla, da non poter fare altro che un cenno
con la testa, prima di uscire dalla cucina e tornare nella propria stanza.