IL PRINCIPE AZZURRO 14

di Unmei

 

  

Aidan non sorrise, né mostrò incredulo stupore, quando lui entrò nel negozio. Strano, pensò Damien, eppure gli aveva subito offerto il sacchetto della caffetteria, annunciando davergli generosamente portato la colazione, fatto che accadeva quasi con la stessa frequenza degli anni bisestili. Per esibire quellespressione irritata Aidan avrebbe potuto almeno aspettare di sbirciare allinterno e scoprire la grossa fetta di torta alla meringa che gli aveva comprato. Damien si era ricordato che detestava quel tipo di dolce quando ormai era troppo tardi, non era stato un dispetto voluto. E poi era il pensiero a contare; innaffiandola con una buona dose di caffé nero avrebbe potuto buttarla giù lo stesso, dopotutto non è che soffrisse di una qualche allergia alimentare, e che mangiarla gli avrebbe procurato chissà quali sofferenze.

 In ogni caso, invece di commossa gratitudine, ad accoglierlo cera offesa irritazione.

 

 “Sentiamo, cosa ti ho fatto questa volta? Di quale oltraggio mi sono macchiato?” 

Senza parlare Aidan calò rumorosamente un libro sul bancone, e lo spinse verso di lui; copertina nera, opaca, affilate scritte rosso cupo, in rilievo.

 

 “Ah! - esclamò Damien, facendo scorrere le pagine - Più lo vedo e più mi piace, così sobrio. Tu che ne pensi?”

 “Perché non me lhai detto?”

 “Cosa?”

 “Il romanzo! Perché non mi hai detto che stavano per pubblicare un tuo romanzo?”

 “Ti prego! In campo letterario lautopromozione è una cosa talmente squallida.”

 “E così lo scopro per caso, entrando in libreria. Sono soddisfazioni.”

 “Aidan, non ho mai sbandierato la pubblicazione di un mio racconto, perché avrei dovuto farlo questa volta?”

 “È diverso. Un romanzo è più importante. Se non mi ci fossi imbattuto, chissà quando lavrei scoperto. ”

 “Per fine anno di sicuro: te ne avrei regalato una copia a Natale, tanto la casa editrice me ne ha fornite un po gratuitamente.”

 “Ti risparmio linsulto. E nemmeno sapevo che lo stessi scrivendo. Potevi parlarmene, raccontarmi qualcosa. Discuterne con me. Sai che lo avrei apprezzato.”

 Uno scrittore che parla dei propri libri è insopportabile quasi quanto una madre che parla dei propri figli. Non lho detto io, ma Disraeli, che non era lultimo degli scemi, giusto?”

 

La discussione si interruppe, perché due ragazzi si presentarono alla cassa con i loro acquisti, e a Damien fu risparmiata una piccata e tagliente risposta; non che faticasse a immaginarsela, comunque. In quei pochi istanti vagliò mentalmente quale argomento tirare in ballo per salvare la conversazione, poiché lincontro non stava esattamente andando come aveva preventivato. Di quel passo la meringata offerta di pace sarebbe stata ignorata, nel migliore dei casi, e Aidan si sarebbe barricato ancor più nel suo austero castello di sensibilità offesa e orgoglio ferito. Pensarci non diede frutti particolarmente buoni: ancora parzialmente obnubilato dal sonnifero assunto la notte precedente (dopo due ore e tre quarti passate con gli occhi spalancati nel buio si era arreso, abbandonandosi alle seducenti spire di due pasticche), riusciva a mettere insieme solo pessime battute. Che, ovviamente, avrebbero fatto precipitare la situazione. Altrui arguti aforismi si presentavano, scoppiettando, uno dopo laltro, ma temeva non avrebbero riscosso successo: aveva ben visto lespressione di Aidan alla sua piccola citazione…ne aveva da parte anche di ciniche e irritanti sulla sensibilità e lamicizia, che però avrebbero causato la sua cacciata immediata e senza appello. Ah, Dio, quale suscettibilità!

 

 “Incompreso e poco apprezzato, ecco come mi sento.”

 

 Sospirò, tirando fuori la borsa del tabacco, ma riponendola subito, avendo la percezione che forse non era una buona idea mescolare i residui di un sonnifero con quella roba.

 

 Quando i due clienti se ne furono andati, cercò di portare la conversazione su binari meno accidentati. Seriamente, per quanto fosse divertente tormentare Aidan e mettere a dura prova la sua infinita pazienza, capiva quando  era il momento di smetterla, perché lirritazione andava trasformandosi in dolore, in delusione, e forse qualcosa di simile alla paura. Paura del distacco che avrebbe potuto crearsi fra loro. Un timore che era tutto nella testa di Aidan, perché dopo tanti anni passati insieme, quasi due terzi delle loro vite…

… forse stava dando Aidan troppo per scontato. La sua presenza, tolleranza e comprensione erano così abituali che ormai le riteneva garantite, sempre e comunque. Aidan meritava di più che una simile, arrogante, leggerezza.

 

 “È davvero uneternità - disse - che non andiamo da qualche parte, noi due. In vacanza, intendo.”

 “Tre anni, credo.”

 “Tre anni, sì. Era quasi unaltra vita. Sarebbe ora di rimediare, non trovi?”

 

Dallespressione di Aidan, capì di aver compiuto una mossa completamente inaspettata. Anche a lui stesso, in tutta sincerità: chi mai aveva preso possesso del suo apparato vocale, per tirare fuori una simile proposta?

 

 “Allora, che ne dici?”

 “Una vacanza…”

 “Sì, quella sarebbe lidea.”

 “Dove?”

 “Dove…ah, certo… non ti preoccupare del dove! In teoria dovrebbe importarti solo di stare con me, no? Sotto un ponte o ai Caraibi non dovrebbe fare differenza.”

 

 Aidan incrociò le braccia sul petto; parte di lui desiderava trovare una risposta pungente, laltra detestava ammettere che Damien non aveva tutti i torti, dopotutto.

 

  “A San Juan! - continuò Damien, improvvisamente ispirato - Sono solo novanta miglia da qui. Bella isola, un sacco di cose da fare. Io non ho problemi, le scuole sono finite e posso smettere di fingere di essere un insegnante… e tu puoi pur chiudere questo posto per qualche giorno.”

 “Questo tuo improvviso desiderio di una vacanza insieme mi suona sospetto. Mi spingerei quasi allaggettivo sinistro.”

 “È deprimente vedere i propri slanci affettivi trattati con tanta diffidenza. Allora, puoi chiudere sì o no?”

 “Potrei, certo, ma -”

 “Se ti preoccupi per i tuoi gerani, puoi chiedere a un vicino di innaffiarli mentre sei assente.”

 “Io non ho stupidi gerani.”

 “No? Mein Gott - esclamò con affettato sbigottimento - allora non hai scuse!”

 “Non avrei cercato scuse. Sono solo… perplesso.”

“Sono davvero così terribile da causare sconcerto, se per una volta tendo una mano a voi mortali?”

 

 Aidan gli rispose con un semplice, eloquente sguardo, e Damien non poté fare a meno di sorridere.

 

 “Oh. Allora sono peggiorato, col tempo.”

 “Non sai quanto.”

 “Lo prendo come un elogio. Bene, allora è deciso. E offro io, naturalmente - zittì le nascenti proteste di Aidan stringendogli una mano sulla bocca - Considerala una cosa che devo fare per riequilibrare il karma, e lascia tutto a me.”

 


Aveva lavorato solo fino a metà pomeriggio, ma la giornata era stata stressante quanto bastava da far desiderare ad Alan nient
altro che una doccia calda e ore a poltrire senza vergogna. Trovò la casa vuota, e pensò a Julian, chiedendosi ancora una volta come stesse procedendo la sua ricerca dimpiego. Quando era uscito, quella mattina, non gli era sembrato particolarmente fiducioso, il che non costituiva certo la migliore delle premesse.

 I suoi timori vennero confermati poco più di mezzora dopo. Limpiastro tornò, salutò, chiacchierò; palesò un eccessivo, quanto falso, buonumore, ma il suo evitare con estrema accuratezza di parlare dellesito della ricerca sul campo raccontava chiaramente comera andata.  Le brevi scorte di pazienza di Alan finirono quasi immediatamente.

 

 “Finiscila di far finta di niente! Allora? Avevi ben tre colloqui oggi, cosa sei riuscito a combinare?”

 Julian parve quasi afflosciarsi, abbandonando allistante tutta la sua sbandierata allegria. 

 “Uno schifo. In buona parte per colpa mia, lo ammetto. Non sono abituato  a queste cose, lansia mi dava quasi la nausea. E poi non ho esperienze lavorative da presentare, mi sentivo in soggezione, avevo anche le mani sudate. Devo aver balbettato un paio di volte, ad un certo punto. Insomma, non credo di essere stato molto brillante.”

 “Una tragedia, ecco cosa.”

 “Grazie per la comprensione.”

 Brontolò Julian, lasciandosi pesantemente cadere sul divano, e coprendosi gli occhi con un braccio.

 “Comprensione! Mi sembra che ad affrontare, no, assillare me, quella volta, tu te la sia cavata discretamente, e ti fai prendere dal panico per questo?”

 “È diverso.”

“Già. Nel senso che parlare con un tizio che deve se non altro far finta di essere cortese, dovrebbe essere più facile!”

 

Julian non rispose: seppellì il viso contro un bracciolo ed emise un mugolio che probabilmente significava non infierire e Alan decise che in fondo gli faceva un po pena. E poi certo, era preoccupato per se stesso e la parte daffitto che limpiastro avrebbe dovuto pagare.

 

 “Mi ha detto Sen, oggi, che sua sorella sta per lasciare il negozio in cui lavora. Una di quelle boutique che vendono gran firme dai prezzi spropositati, una di quelle dove una giacca costa come un rene sul mercato nero… sono sicuro che tu le conosci tutte. Forse potrebbe presentarti ai proprietari: quando lei se ne andrà avranno bisogno di qualcuno che la sostituisca. ”

 “Grazie, Alan, ma lascia perdere. Non mi prenderebbero mai.”

 “Finiscila, disfattista. Provaci, almeno; lei potrebbe raccomandarti, e non credo che in questo caso lesperienza sia fondamentale. Che mai ci vorrà per…”

 “Bella presenza.”

 “Eh?”

 

Alan lo guardò senza capire, e Julian si rimise a sedere.

 

 “In un posto del genere, per essere assunti, è fondamentale essere belli, attraenti. È inutile che ci provi.”

 

Spiegò, con un sorriso rassegnato, appena sfiorato dallamarezza.

Alan fu talmente sconcertato che sul momento gli venne meno qualsiasi parola, per ribattere come una tale idiozia meritava. Si chiese se limpiastro stesse scherzando, ma osservando la sua aria mesta gli ci volle poco per capire che parlava sul serio.

 

 “Non mi risulta che tu sia guercio, sfregiato, storpio o gobbo, quindi cosavresti che non va?”

 “Oh, finiscila. Tu sei bello, non puoi capire.”

 

Mentre Julian si alzava e andava in cucina a versarsi da bere, Alan aveva la vaga sensazione che fosse lecito incazzarsi, in quel momento, ma lesasperazione gli levava le energie. Gli dava sui nervi che il quattrocchi dimostrasse tanto avvilimento, e gli dispiaceva che avesse così povera considerazione di se stesso: tendeva a sminuire le proprie qualità, ad attribuirsi difetti eccessivi, se non inesistenti. La forza interiore non gli mancava e, se avesse avuto più autostima, la sua vita avrebbe avuto una svolta. Quelle, però, non erano certo doti che si acquisivano da un giorno allaltro. Di non considerarsi attraente, poi, Julian aveva già parlato, ma se questo lo bloccava al punto di impedirgli di presentarsi per un lavoro, bisognava correre ai ripari, e in fretta.

 

Raggiunse Julian, e rimase a osservarlo mentre questi si preparava un tramezzino. Lunica cosa che non andava in lui, sicuramente, era il look. Se avesse modificato, rimodernato, rivoluzionato la sua immagine, avrebbe fatto tutta unaltra figura. Non sarebbe diventato una folle bellezza da far girare la testa, ma sicuramente avrebbe dimostrato al mondo di essere carino, aveva tratti armoniosi, proporzionati, e un bel sorriso. Trovarsi più attraente forse sarebbe stato un inizio per guadagnare un po di sicurezza.

 Sbuffò, afferrò Julian per un braccio e lo portò nella propria camera, senza rispondere alle sue richieste di spiegazioni. Aprì il guardaroba,  squadrando Julian e passando in rassegna i vestiti.

 

 “Alan, cosa ti prende? Io avrei fame, e quel -”

 “Zitto! Taci e lasciami fare, prima che mi penta. - lo guardò ancora una volta da capo a piedi - Suppongo di non poter esagerare… con certa roba addosso finiresti per essere ancora più impacciato.”

 “Eh?”

 “I vestiti, parlo dei vestiti, sveglia! Non posso permettere che tu viva qui e ti faccia vedere in giro così conciato: ne va della mia immagine.”

 “Ma…”

 “E poi i capelli, e gli occhiali….”

 “Coshanno che non va?”

 “Niente, a parte che ti fanno sembrare il fratello scemo di Harry Potter.”

 “Ehi! Questo è un insulto pesante!”

 “In ogni caso, il peggio sono proprio i vestiti. Vediamo un po’… dovresti portare all’incirca la mia taglia.”

 “Non credo, tu sei più magro… ma insomma, vuoi dirmi -”

 “Non di molto, ti andranno lo stesso.”

 “Ancora non capisco cosa non vada nel mio modo di vestire.”

 Alan si voltò verso di lui, esasperato.

 “No? Ma prova a guardarti!”

 

Si diede unocchiata nello specchio. Francamente, ancora, non capiva. Indossava jeans chiari, dal taglio classico, e una semplice Lacoste, a grandi righe in toni dazzurro e blu. Ai piedi un paio di mocassini di pelle chiara. Nulla di diverso da quello che portava sempre.

 

 “No, non ci arrivo proprio.”

 “Metti tristezza, non ti stanno bene, ed è roba da vecchi.”

 “Non è vero! È abbigliamento… normalissimo. Un sacco di gente si veste così.”

 “Oh, certo. Probabilmente lo farò anche io, a sessantanni, magari per andare a giocare a golf, quando abiterò in Florida. Ma spero che Dio, nella sua infinita bontà, mi incenerisca prima.”

 

Julian gli lanciò unocchiataccia, ma non era nulla che potesse impressionarlo. Avrebbe dovuto esercitarsi molto, prima di essere in grado di intimorire qualcuno.

 

 “Ecco, questi possono andare. Tieni. - disse, consegnandogli sbrigativamente alcuni indumenti - Provali.”

 

Julian restò immobile per qualche istante. Pensò a un buon motivo per rifiutare, gentilmente, ma alla fine si arrese, anche se non sapeva se per gentilezza verso Alan, per timore di peggiori prese in giro o per curiosità. In realtà gli sarebbe piaciuto provare un paio dei suoi pantaloni di pelle, era rimasto un po male, constatando che laltro gli aveva consegnato invece un paio di jeans. Si strinse nelle spalle.

 

 “Beh, allora vado in camera mia a cambiarmi.”

 “Cosè, hai paura a farlo qui? Ti vergogni? Giri senza mutande?”

 “Vuoi smetterla?” 

 

Poco dopo Alan poté constatare con i propri occhi di aver avuto ragione, nonostante gli sembrasse impossibile che una persona potesse apparire così diversa solo cambiandosi dabito. Il portamento era un disastro, sembrava proclamare sono insicuro e imbranato, approfittatevi di me, ma a quello si poteva rimediare col tempo.

                                                                  

 “Alan… a me sembrano un po stretti, questi jeans.”

 “Ti ci abituerai. E poi ti stanno bene.”

 “Ho letto che i jeans troppo stretti causano morie di spermatozoi. Già li sento agonizzare.”

 “E con questo? Avevi forse intenzione di riprodurti?”

 

Alan gli si avvicinò, scrutandolo con occhio critico; laderente maglietta rosso cupo aveva una sottile cerniera che partiva da una spalla e scendeva fino al fondo dellindumento. Julian laveva lasciata chiusa, ma lui gliela tirò giù di una buona spanna, scoprendo la pelle.

 

 “Ecco. Finalmente cominci a non sembrare più un pensionato.”

 “Sarebbe un complimento? E potrei, per cortesia, vedere come -”

 “Zitto! Non ho finito, adesso vieni in bagno.”

 

Julian decise di non opporre resistenza, rassegnato e ormai curioso. Non aveva molta fiducia nei risultati che avrebbe potuto ottenere, ma voleva vedere fino a che punto sarebbe arrivato. Ma il vero  motivo, molto più importante, era che quelle brusche attenzioni gli piacevano, e non era sprovveduto al punto di bersi il pretesto che, tra un ringhio e laltro, Alan gli aveva propinato.   Lidea che volesse aiutarlo, che quindi un po gli importasse di lui, era abbastanza da metterlo in animo di accettare pressoché qualunque cosa.

 Pressoché.   

  Sedette su uno sgabello, dando le spalle allo specchio, come da istruzioni, e si tolse gli occhiali, mentre Alan frugava in un cassetto.

 “Cosa stai cercando?”

 “Forbici…. Ah, eccole!”

 “Forbici? Che cosa ci vuoi fare?

 “Scolpire una riproduzione del Discobolo su una saponetta. Indovina che cosa voglio fare.”

 

Julian si irrigidì mentre Alan gli inumidiva sbrigativamente i capelli, girandogli intorno per osservarlo da più angolazioni, sollevandogli e abbassandogli la testa senza troppo garbo. Era abbastanza preoccupato per le sorti della sua chioma, e non riuscì a trattenere la domanda, quando Alan cominciò a sforbiciare, e piccole ciocche a cadere.

 

 “Sei capace, vero? Sai quello che stai facendo?”

 “Ma certo. Ho anche lavorato da un barbiere.”

 “Sul serio?”

 “No, era per farti stare buono… Stai fermo! Se ti muovi così di scatto potrei tranciarti un orecchio!” 

 

 Alan si tagliava i capelli da solo da ormai cinque anni, e non se la cavava male; non poteva essere tanto diverso farlo a qualcun altro, giusto? Non fece molto caso allespressione preoccupata di Julian, che osservava  luttuosamente le ciocche cadute a terra, né alla di lui timida obiezione quando lo vide prendere il barattolo del gel. Minacciò però che se non si fosse levato quellespressione afflitta dalla faccia, gli avrebbe fatto una cresta usando la colla di pesce.

Alla fine fu compiaciuto del risultato, anche se non era esattamente quello che aveva avuto in mente allinizio. Si era figurato qualcosa di più aggressivo, qualcosa che avrebbe potuto portare lui stesso, ma ripensandoci era giusto così: come per i vestiti, meglio restaurarlo in un modo che non stridesse con la sua personalità. Anzi, quello doveva essere solo un aiuto a tirarla fuori più spesso, la personalità, visto che aveva dimostrato di possederne fin troppa, quando voleva.

 

 Andò alle spalle di Julian, mentre questi si osservava nello specchio, studiandosi; sembrava addirittura  sorpreso da ciò che vedeva, come se pensasse che, data la materia prima, non fosse possibile ottenere un risultato apprezzabile.

 

 “Cosa ne pensi?”

 Gli chiese, avvicinandosi di un passo e sbirciando da vicino la sua espressione.

 “Sono…oh, non so cosa dire - sorrise, imbarazzato, e si voltò a guardarlo - Mi… piace. Non sembro nemmeno io. Grazie.”

 “Bah, grazie… non c’è voluto molto. E l’ho fatto solo per non dovermi più sorbire i tuoi piagnistei.”

 “Ma certo.”

 

Il tono di Julian faceva intendere quanto poco credesse alla giustificazione dellinteresse personale, e il suo sorriso continuava a essere un fin troppo grato. Era abbastanza da mettere a disagio Alan, e da farlo preoccupare per la bizzarra reazione di calore improvviso in cui il suo corpo si stava producendo. Si preoccupò ancora di più trovandosi ad ammettere che quella sensazione era, in effetti, piacevole.  Ignorarla era senz’altro la cosa più saggia da fare. 

 

 “Non ci resta che sostituire quei tuoi tremendi occhiali tondi e abbiamo finito.”

 “Ma vanno ancora benissimo!”

 “Sono tremendi. E di tartaruga, per lamor di dio! Quanti anni hai, ottanta?”

 “Beh, in un certo senso ci sono affezionato. Ammetto che per tutto il resto avevi ragione, ma questi non li voglio cambiare.”

 “Daccordo, daccordo tagliò corto Alan, uscendo dalla stanza - Tanto può sempre capitar loro un incidente.”

 

Lultima frase laggiunse sotto voce, ma non sfuggì a Julian.

 

“Ti ho sentito!”

 

Ribatté, divertito, mentre tornava a guardarsi nello specchio: da vicino, a qualche passo di distanza, di profilo, assumendo espressioni serie, decise, sorridenti. Trovò, forse per la prima volta, che non gli dispiaceva ciò che vedeva. Ne era stupito e soddisfatto, confuso, anche. Quello era laspetto di  qualcuno molto più disinvolto di lui. Non era certo di poter diventare quel tipo di persona, non del tutto, ma ci avrebbe provato, anche per non deludere Alan. Era il momento di smetterla di fare di tutto per passare inosservato, e diventare più combattivo, più sicuro di se stesso. O almeno doveva imparare a fingere di esserlo, se ci teneva a trovare un lavoro. Così avrebbe potuto pagare ad Alan la parte daffitto che gli doveva, e levare il disturbo per trovare un alloggio per conto proprio. Lidea avrebbe dovuto dargli entusiasmo e nuova determinazione, ma si accorse che invece lo lasciava semplicemente inquieto, e abbattuto.

 

 

Talvolta Damien cercava solo una scusa che lo tenesse lontano dal computer e dalla scrittura, aderendo con gioia ad ogni diversivo gli si parasse davanti, e cercandolo spudoratamente se esso tardava a presentarsi. Talora aveva invece bisogno di tranquillità e silenzio assoluti per poter scrivere, e qualsiasi distrazione, qualsiasi intruso lo disturbasse,  veniva accolto con un’ostile irritazione che faceva battere in ritirata anche il più audace dei temerari. La reazione peggiorava a dismisura se sventuratamente si trovava a un’impasse, se non riusciva a riordinare i pensieri, e quelle poche sillabe che, nel corso di lunghe ore, digitava venivano condannate all’oblio quando chiudeva il documento senza salvarlo. Solitamente il gesto era accompagnato da una sequela d’invettive, più o meno scurrili a seconda della sua frustrazione.

 Più spesso, per fortuna,  le parole non lo tradivano; riga dopo riga, pagina dopo pagina si estraniava da ciò che lo circondava, dimenticandosi del tempo che scorreva e di se stesso. Allora non faceva differenza essere immerso nella solitudine, nel silenzio, o nel mezzo di una vociante confusione, anzi, il brusio poteva diventare quasi un piacevole sottofondo.

 

Damien si trovava nel caffè dove amava rintanarsi per ore e buttare giù appunti, quando lumore glielo concedeva. Era un vecchio locale, non molto grande, dalleleganza sciupata e dal parquet consumato. I muri erano dipinti di colori scuri, e le luci, quando la sera venivano accese, erano velate, morbide. La musica non era mai ad alto volume, e il proprietario generalmente dimostrava un ottimo gusto, nello scegliere le canzoni. Lì ci si sentiva obbligati a moderare il tono della voce, a non fare rumore, non dare spettacolo. Dava lidea che fosse concesso ubriacarsi, a patto che si trattasse di sbronza triste,  contegnosa, tale da non  rovinare latmosfera quieta e lenta.  A tanti quellambiente poteva sembrare cupo, opprimente,  ma per Damien era un luogo confortante, dove poteva lasciarsi alle spalle il mondo, con il suo stress e il suo inutile fracasso.

  A ciò si aggiungeva un vasto assortimento di caffè e una scelta di liquori pregiati di tutto rispetto, altro più che valido motivo per cui Damien amava tanto quel posto un po’ antiquato. Sedeva al suo posto preferito, quello più isolato, e aveva colonizzato il tavolo con gli attrezzi del mestiere: un taccuino fitto d‘appunti, il nuovo mini-portatile sottilissimo e maneggevole, acquistato apposta per le sessioni di scrittura in trasferta (in realtà poteva andare benissimo l‘altro che già aveva, ma era stato vinto dall’estetica di quel costoso gingillo), il generoso bicchiere di Bombay Sapphire che era stato già riempito e vuotato due volte. Non era forse il più pregiato dei gin, ma restava sempre il suo preferito, per motivi affettivi, si poteva dire.

 Era assorto, intento a scomporre e ricomporre mentalmente un paragrafo, mai del tutto soddisfatto di come le parole suonavano, di come le emozioni prendevano forma e vita, e si accigliò quando davanti agli occhi gli comparve la copertina nera del suo romanzo. 

 

 “È la seconda volta, oggi, che me lo mettono sotto il naso in questo modo.” 

 “Autografo?”

 

Damien alzò lo sguardo verso il nuovo arrivato, e questi gli indirizzò uno sorriso privo di qualunque timidezza.

 “Un punto a tuo favore: laltra persona che oggi mi ha presentato questo libro era più propensa allaggressione che ad altro.”

 “Un atteggiamento alquanto disdicevole. Posso sedermi?”

 “È un paese libero.” 

 

Il giovane si accomodò e raccolse una penna dal tavolo; la porse allo scrittore, sollecitando silenziosamente la firma del volume, continuando a sorridere in modo innegabilmente affascinante. Damien non parve particolarmente impressionato, e nemmeno compiaciuto come di solito avveniva, quando il suo ego veniva in tal modo adulato. Fissò il nuovo arrivato intensamente, in attesa, tanto a lungo da affievolire infine la sua baldanza, come s‘intese nel vacillare del sorriso, e nel tono della voce, troppo forzatamente spavaldo, quando di nuovo parlò.

 

 “Vuoi il mio nome per la dedica?”

 “So benissimo come ti chiami. Dietrich. Mi sto solo domandando che diavolo tu voglia.”

 “Quanto sei scontroso. Non avrai forse pregiudizi nei miei confronti?”

 “Oh, no. Sono di mentalità aperta, non nutro pregiudizi verso nessuno. A parte astemi e vegetariani, certo, ma quella è gente strana. Te lo ripeto chiaramente: che vuoi?”

 “Un autografo, sul serio. Che incredibile combinazione: sono entrato qui per prendere un caffé, e leggermi l’ultimo capitolo del libro, e trovo proprio te. Quasi un segno del destino… ma posso capire, se la mia presenza ti contraria.”

 “Non montarti la testa, la tua presenza mi è del tutto indifferente. E così tu saresti un mio lettore?”

 “Certo. Alan a casa ha tutte le riviste e le raccolte con i tuoi racconti, ho potuto approfittarne. Alcune cose le avevo già lette anni addietro, ma non conoscevo il viso dell’autore, e non avrei mai creduto fossi tu.  Ad ogni modo, sono diventato un tuo grande ammiratore. Mi piacerebbe poter guardare dentro la tua testa… deve essere come trovarsi in un dipinto di Bosch.”

 “Lusingato – Damien fece un ampio quanto affilato sorriso, poggiandosi una mano sul cuore, mentre chinava il capo – Il miglior complimento che mi sia mai stato fatto.”