IL PRINCIPE AZZURRO – 13
di Unmei
Alan restò sulla porta,
domandandosi se fosse suo diritto curiosare, o se fosse
meglio non ficcare il naso. Guardare in giro non sarebbe stato certo il più
educato dei comportamenti, ma dopotutto era sempre
casa sua… no? Certo non si sarebbe messo a rovistare nei cassetti, voleva solo
dare una sbirciata, ed erano dieci giorni che
resisteva alla tentazione. E visto che aveva ancora un po’ di tempo prima
dell’appuntamento con l’impiastro e la sua ‘nuova’ macchina, poteva farlo
tranquillamente, senza temere di venire sorpreso.
E va bene.
Si disse, ed entrò.
La stanza che aveva ‘prestato’
a Julian appariva quasi più grande, dopo che il ragazzo l’aveva
risistemata, o almeno così gli sembrava. Sarà stato per via dei mobili nuovi,
disposti sfruttando meglio lo spazio, per il maggiore ordine, ma la camera aveva cessato di somigliare ad un ripostiglio
impolverato. Dove una volta c’era stato
il vecchio divano sfondato, stava una libreria quasi completamente stipata, e
accanto ad essa una piccola scrivania. Il letto aveva
trovato posto sotto la finestra, e l’armadio restava al suo posto di sempre, ma
era stato addossato al muro, ricavando ancora un po’ di spazio, abbastanza per farci stare una colonna di cd.
Aprì un’anta della parte di armadio
che aveva riservato a Julian, per esaminare meglio il suo guardaroba, e lo
sconforto lo assalì. No, no, così non andava proprio. Non poteva tenersi in
casa qualcuno che vestiva in quella maniera. Erano tutti capi firmati, costosi,
di ottima qualità, era evidente, ma così… banali,
anonimi. Non gli si addicevano per niente, poteva dire
adesso, conoscendolo un po’ meglio. Sembravano abiti scelti da una madre, con
l’intento di far apparire il figlio come un Bravo Ragazzo: perbene, affidabile
e rassicurante. In poche parole, innocuo.
Richiuse l’armadio, e andò alla scrivania. Era
piccola, e oltre al computer non ci stava molto altro. Alan sfiorò la tastiera,
e picchiettò con l’indice sul tasto d’invio; era tentato. Un giro tra i
documenti di Julian, una sbirciata alla cronologia dei siti che visitava:
avrebbe potuto imparare molto di più su di lui, concedendosi una mezz’ora rovistando
nei suoi affari informatici. Era certo che Julian non usasse una password d’accesso, non gli sembrava proprio il tipo, quindi
sarebbe stato facile… fece un passo indietro, seccato. Non era mai stato un ficcanaso, ed invece si
stava comportando come uno della peggior specie. Si strofinò la faccia,
lasciandosi cadere pesantemente sul letto, e rimase per un po’ a guardare il soffitto,
domandandosi se anche per Julian fosse la stessa cosa, se provasse
la medesima curiosità, se in sua assenza si guardasse in giro, cercando di
saperne di più su di lui.
…
No, probabilmente era un
signorino troppo ben educato per agire così; nel momento in cui avesse voluto
conoscerlo più a fondo lo avrebbe semplicemente stressato e preso per
disperazione, come già aveva fatto. Voltò la testa, fissando lo sguardo
sull’agenda sul comodino, e si sentì ridicolo. Forse, un’occhiata non sarebbe
stata la fine del mondo. Rotolò e si allungò verso l’oggetto, aprendolo a caso,
e subito capì che non era un’agenda, ma un diario.
Un diario… c‘era da aspettarselo, da Julian.
Era facile immaginarlo scrivere su quelle pagine, la sera, più che pensarlo
alle prese con un blog. E,
in tutta sincerità, la cosa gli piaceva. Fece scorrere velocemente le pagine,
senza soffermarsi a leggere veramente, cogliendo solo qualche parola, fino a
che non gli balzò agli occhi il proprio nome. Richiuse di
scatto il diario, restando a stringerlo fra le mani. Già, Julian doveva
aver parlato anche di lui; era soltanto ovvio, con tutto quello che era
successo. Leggendo quelle pagine avrebbe potuto scoprire più dettagliatamente
quello che l’impiastro pensava di lui, dal loro primo incontro fino a quel momento… ma non era sicuro di volerlo sapere. La simpatia
iniziale, e quello che sembrava il nascere di un’amicizia… lì ci sarebbero stati scritti. E forse
ci sarebbe stato anche l’odio, si disse, perché ancora, in fondo, non riusciva
a capacitarsi dell’assenza di sentimenti negativi nei suoi confronti. Avrebbe
potuto sapere se Julian in realtà lo considerasse uno stupido… un patetico ex
tossico, un fallito; se non stesse a sua volta pianificando un qualche tipo di
vendetta.
O se magari desiderasse
davvero, semplicemente, la sua compagnia.
Era tutto lì, tra le sue mani. Sciocco Julian, a lasciare una cosa tanto privata in bella vista.
Avrebbe potuto leggere tutto, sarebbe stato così
facile. Ma…
Ma temeva quel che vi
avrebbe potuto trovare, pure fossero state belle parole nei suoi confronti.
Ma non aveva idea di se e
come ciò avrebbe potuto influire sul suo comportamento verso Julian.
Ma era convinto che se
Julian avesse sospettato e scoperto la sua violazione, l’avrebbe considerata un
torto peggiore del doppio gioco che aveva tenuto in passato, e non
gliel’avrebbe perdonata.
Rimise il diario al suo posto, nell’esatto
punto in cui l’aveva trovato, e prima di andarsene lisciò la trapunta sul
letto.
Aidan bussò alla porta
di Damien, stanco ormai di aspettare; il suo immodesto ed egocentrico amico
avrebbe dovuto presentarsi a casa sua almeno mezz’ora prima, ma non si era
fatto vedere, e cominciava a credere che si fosse dimenticato
dell’appuntamento. O almeno non credeva che fosse
desideroso d’attenzione al punto di ritardare di proposito. Bussò ancora
una volta, chiamando, ed evitando un fraterno insulto solo a beneficio delle
innocenti orecchie del bambino che viveva in quell’appartamento. Pochi istanti
dopo una voce infantile gli rispose.
“Cosa c’è? Sei
Aidan?”
“Fabian! Certo, sono io, apri.”
“E come faccio a
sapere che sei davvero tu?”
“Non riconosci la mia voce?”
“Puoi essere uno che fa finta!”
Oh, i bambini!
“Guarda dallo spioncino.”
“Ma non ci arrivo!”
“Vai a chiamare quella mente
sublime di Damien… non ti ha lasciato a casa da solo, vero?”
“Noooo! Lui c’è!”
Aidan sospirò, poggiando una mano sullo
stipite.
“Fabian, per favore…”
Prima che potesse terminare la frase, Fabian gli aveva aperto la
porta, e lo guardava, sorridendo smagliante.
“Ciao, Aidan! Lo sapevo che eri tu, sai?”
“E allora perché non
hai aperto subito?”
“Damien ha detto che
se venivi, ti dovevo aprire solo se chiedevi per favore”
“Che simpatico.”
“Però magari la prossima volta miagola, mi
piace di più.”
“Miagolerò. - promise lui, rassegnato,
accarezzandogli distrattamente i capelli biondi – Allora, dov’è Damien? A dormire o a far finta di scrivere?”
“Fa il bagno. Ha detto
che doveva rilassarsi.”
Già, ne ha proprio un gran bisogno.
Rimandò Fabian a giocare
e bussò alla porta del bagno, chiamando.
“Damien, sei in ritardo, muoviti. Potevi
degnarti di uscire da quella vasca, quando hai sentito che ero io.”
Ma dall’altra parte solo
silenzio, nemmeno il rumore dell’acqua.
“Damien?”
Ripeté; accostò il viso alla porta, per udire
meglio, ma continuò a non udire nulla.
“Sei annegato nella vasca?”
Attese
per qualche istante, in silenzio, che Damien smettesse di fare il cretino. Ponderò che in
effetti, per quello, ci sarebbero voluti anni, e che avrebbe potuto benissimo
lasciarlo lì e andarsene; però il suo spirito apprensivo si fece sentire,
instillandogli il dubbio che forse il suo amico non si era sentito bene, forse
non rispondeva semplicemente perché non poteva. Magari si era solo appisolato,
ma se così non fosse stato… un malore improvviso era sempre possibile, anche in
una persona che aveva sempre goduto di ottima salute.
Beh, salute fisica, almeno; su quella mentale
non ci avrebbe giurato.
Furono quindi la sua
apprensione di innamorato e il suo senso del dovere di
quasi medico a spingerlo ad aprire la porta ed entrare. Forse anche un
po’ di voyeurismo, non poteva negarlo… forse si trattava solo di quello, e
tutto il resto era una scusa decisamente stiracchiata:
era dai tempi del liceo e delle docce in palestra che non vedeva Damien senza
vestiti addosso, e rinfrescarsi la memoria, se così si poteva dire, non gli
dispiaceva.
Fece pochi passi nella stanza, e non si rese
conto immediatamente di ciò che vide, il cervello impiegò qualche secondo a
registrare e decifrare l’immagine.
Damien aveva gli occhi
chiusi, la testa reclinata contro il bordo della vasca; immerso immobile
nell’acqua tinta di rosso, non diede alcun segno di accorgersi della sua
presenza. Aidan barcollò, senza fiato; il suo cuore si rattrappì, un pulsante
nodo di dolore e spavento, e poi esplose. Nausea, sapore
acido nella bocca, un peso opprimente sul petto; sensazioni che gli furono
amaramente familiari. L’aveva già vissuto, non
l‘avrebbe mai dimenticato… essere in un incubo e non potersi svegliare.
Puro terrore.
Gridò il nome
dell’amico.
Damien!
o gridare almeno avrebbe
voluto, perché dalla bocca gli uscì solo un suono rauco. Fu un lunghissimo
istante, prima di riuscire a muoversi ancora, prima di arrivare a lui e
afferrarlo per le spalle, tirandolo a sé.
Fu un istante incredibilmente breve, invece,
prima che Damien aprisse di scatto gli occhi, sbalordito, seccato e allarmato.
“Ma che diavolo!”
Aidan lo fissò, mentre
le sue mani continuavano a stringere le spalle con più forza di quanto si
rendesse conto, e il suo corpo era ancora scosso da un tremito che in nessun
modo riusciva a controllare.
Damien lo stava
guardando, allibito; aggrottò le sopracciglia e se lo scrollò di dosso, senza
premurarsi di nascondere il proprio fastidio.
“Anche la tua ultima cellula cerebrale ha dato
le dimissioni, Aidan?
Pativa la solitudine?”
Chiese,
levandosi gli auricolari, riponendoli sulla mensola che correva intorno alla
vasca.
Aidan non si era nemmeno accorto che li avesse addosso: passavano dietro la testa,
erano coperti dai capelli. Notò allora ciò a cui un primo momento non aveva
fatto caso: il lettore mp3, poggiato anch’esso sulla mensola; tendendo le
orecchie poteva cogliere le note di Perfect
Murder. Nonostante questo progresso, era ancora troppo sconvolto per replicare in modo degno all’acida battuta di Damien;
poté solo infilare una mano in quell’acqua rossa, guardingo, cavandosi di bocca
un afono:
“Come… cosa è successo?”
Damien cominciava a dare
per certa la follia di Aidan, quando, osservando la
sua espressione, poi l’acqua, e ripensando ai suoi gesti, d’improvviso
l’illuminazione gli mostrò l’equivoco; non voleva credere a un’ipotesi tanto
assurda, ma il comportamento del poveraccio non lasciava molto spazio a dubbi.
“Non mi dire… che hai creduto…”
Non terminò la frase, non ne
ebbe bisogno, perché lesse la conferma sul volto di Aidan. Damien lo
fissò per qualche secondo, e cercò, sinceramente, davvero, di soffocare
l’ilarità, ma non ci riuscì. Il mezzo sorriso si trasformò in una risata trattenuta
a stento, e poi rise e basta, chinando il capo, in
quel suo modo strano, quasi silenzioso. La cosa ebbe l’effetto di far
riprendere Aidan: l’angoscia e lo spavento si trasformarono in irritazione e
sdegno; a quanto pareva Damien trovava la situazione buffa, e non capiva se ce l’aveva più con lui, per quella dimostrazione di scarsa
delicatezza di fronte alla sua preoccupazione, o con se stesso per essere stato
così… ipersensibile.
Ingenuo.
Imbecille.
“Era molto che non ridevo così di gusto, non posso che ringraziarti… Dio, quasi le lacrime!”
“Sono felice di esserti utile a
qualcosa.”
“Suvvia, non fare quell’espressione offesa. Se
fossi un minimo obiettivo ammetteresti che è stato
divertente.”
“Ammetto solo che il tuo senso dell’umorismo è
alquanto molesto.”
Damien guardò teatralmente verso il soffitto,
riappoggiandosi allo schienale.
“Tu, mio caro, devi aver subito molti traumi
nella vita.”
“Già, e quasi tutti a causa tua.”
“Modestamente! Ma usa quella si suppone sia la
tua intelligenza: secondo te sarei tanto sconsiderato
da dissanguarmi con Fabian in casa?”
“Damien…”
“Altra domanda: secondo te
sarei tanto idiota da dissanguarmi con te nel raggio di cento miglia? Visti i
precedenti, come minimo cambierei stato, per farlo. E
poi, tagliarsi le vene! Un metodo così fuori moda! Ma per chi
mi hai preso?”
“Per lo stronzo che
sei, niente di meno. Da dove arriva quel colore, si può sapere?”
“Questo? - Damien schiaffeggiò lievemente l’acqua - Un intruglio da bagno
che mi ha regalato una delle gentili donzelle che mi vogliono tanto bene e che
non so perché tu non riesci a tollerare. Quella con i capelli di quattro
o cinque colori, hai presente? Lo ha creato lei apposta per me: il colore lo ha
scelto proprio per l’effetto drammatico, ha pensato che potesse piacermi, vero!, e il profumo di menta e cannella perché stimola la
creatività, dice. ”
“Ma pensa. Che dolce.”
“Sei acido come una
zitella in menopausa. Non mi intendo di aromaterapia, ma ammetto che alcune idee interessanti mi
sono venute, mentre stavo in ammollo. Potrei comprare un tavolino apposito e prendere l’abitudine di scrivere nella vasca.”
“Bada solo di non fare la fine di Marat.”
“Presterò attenzione. E ora, Charlotte,
potresti voltare le terga e uscire, prima che ti faccia
pagare il biglietto per lo spettacolo?”
Damien osservò Aidan, e
non gli sfuggì l’ultimo sguardo risentito che gli
lanciò, mentre richiudeva la porta. Fosse dannato se ne capiva
il motivo: a lui l’equivoco era parso sinceramente comico. Forse avrebbe dovuto
immedesimarsi nei coscienziosi e apprensivi panni del suo amico, per
comprendere… e se ci provava, l’unica cosa evidente era
che Aidan mal sopportasse il suo fare ironia sul suicidio. Ma
quello lo sapeva già da anni.
“Avrò ferito la sua sensibilità. Amen.”
Disse, stiracchiandosi e
promettendosi di uscire dalla vasca entro cinque minuti. E, anche, di essere un po’ più… tenero,
nei confronti di Aidan. Non sempre, o avrebbe perso
uno dei suoi divertimenti preferiti, ma ogni tanto,
per farlo contento. O almeno per salvarlo
dell’esaurimento nervoso.
Alan esaminò il
cruscotto, tastò il tettuccio, aprì e richiuse un finestrino, il tutto sempre
con aria critica. Sapeva che sarebbe rimasto deluso, quando Julian fosse
arrivato a bordo del suo acquisto. Non per altro, ma perché
una qualsiasi auto da comune mortale avrebbe fatto una magra figura, paragonata
alla Porsche immolata sull’altare della necessità
economica. Vederlo giungere su quel coso, e con aria soddisfatta,
fu lo stesso un duro colpo. Era un fuoristrada, e già quello era un gusto
opinabile, per il suo senso estetico; la linea era ormai datata, spartana, il
colore canna di fucile. Aveva fulminato con lo sguardo il quattrocchi
quando questi, smontando, gli aveva domandato sorridendo ‘Che ne
pensi?’, e si era limitato a chiedergli quanto, quel venditore di auto
usate privo di morale e coscienza, gli avesse dato per
“Questo… è quanto ti ha dato?”
“Già.”
“Questa miseria è
quanto ti ha dato?!”
“… è poco?”
“Poco? Ma porca
puttana, Julian! Avrebbe dovuto offrirti cinque volte tanto. Ti rendi conto?”
“Oh! – sul viso, candido, sincero stupore – Ma
lui mi ha detto che le auto di lusso si svalutano molto
in fretta… e che il bianco non va granché, come colore.”
Lui aveva alzato una
mano, implorando silenzio e pietà.
“È colpa mia, colpa
mia. Non avrei dovuto permettere che te ne occupassi
da solo; tu non hai idea del valore dei soldi, scommetto che non sai nemmeno
quanto costava la tua macchina. Invece ho lasciato tutto a te, e quel tizio
adesso avrà un nuovo aneddoto da raccontare al pranzo del Ringraziamento.”
Julian non aveva badato
troppo alle sue parole, apparentemente. Lo aveva trascinato sul fuoristrada,
per provarlo andandosene un po’ in giro per la città e nei dintorni; ormai
stava guidando da più di un’ora e il suo entusiasmo per il nuovo acquisto
non sembrava minimamente scalfito.
“Sai una cosa? Mi piace
guidare questa macchina, più di quella che avevo prima. Sarà per il fatto di
trovarsi più in alto, ma mi dà l’idea di… dominare la strada, diciamo.”
“Passi esserti fatto fregare, ma dire di
preferire questo rottame ad una Porsche rasenta la
malattia mentale.”
“Non è un rottame!”
“Avrà vent’anni,
Julian.”
“Allora è più giovane di noi.”
“Un anno, per un’auto, equivale a cinque anni
umani. Ergo, è un rottame.”
“Ammetto che forse è un po’ vissuto… e il
colore non è granché… però se tu potessi metterci mano
migliorerebbe molto, che ne dici? Ti andrebbe di.…”
“Scordatelo. L’unica cosa che farò sarà
installare una nuova autoradio, ma solo per interesse personale.”
“Grazie!”
Gli rivolse un ampio,
esasperante sorriso, e Alan alzò gli occhi con rassegnazione; era davvero poco
soddisfacente mostrarsi scontroso con lui, faceva quasi venir voglia di
desistere. Forse, pensandoci, la cosa
non gli era mai riuscita troppo bene, visto che Julian
sembrava molto soddisfatto di vivere sotto il suo stesso tetto. Doveva
ammettere che ormai la cosa non gli dispiaceva, che
era contento di avere qualcuno per casa, e che quel qualcuno fosse l’impiastro,
ma mai, mai, mai, lo avrebbe ammesso pubblicamente.
“Parcheggia questo
residuato bellico e andiamo a farci una bevuta prima di tornare a casa.”
Julian seguì Alan,
lamentando di non voler lasciare incustodita la macchina, che avrebbe dovuto
far installare un antifurto, e quello gli rispose che nessuno poteva essere
tanto disperato da volersi portar via il relitto, anche un ladro ha una sua dignità, dopotutto. Era il tipo di risposta che
Julian si aspettava; aveva fatto apposta la sua battuta, lo divertiva il
disgusto che Alan ostentava. Ed era sicuro che
insistendo… parecchio… avrebbe strappato al suo amico artista una riverniciatura e un’aerografia
sulle fiancate che avrebbero resuscitato l’aspetto di quel buon vecchio
fuoristrada. Se avesse opposto resistenza, sarebbe bastato insistere e
insistere: gli
aveva già dimostrato di saper essere determinato fino all‘esasperazione.
Erano solo a metà strada verso il locale
prescelto, che un giovane, incrociandoli, li fermò.
“Alan!”
Disse, con un sorriso forse sincero, ma così…
malato, era forse la definizione giusta. Alan lo guardò, intensamente e
dubbiosamente, come se gli ricordasse qualcuno, ma non sapesse dargli un nome, un posto nella memoria. O come se avesse
capito, e in qualche modo stesse cercando di negarlo a
se stesso.
“È da tanto che non ci vediamo, Alan… proprio
da tanto… tanto tempo, sì…”
“Joey?”
Joey, come ti sei ridotto?
Era la frase che aleggiò non detta. Perché il
viso che affiorava alla memoria di Alan era abbronzato
e bello, e il corpo alto, forte e agile, la voce sicura, sempre troppo alta. La
persona davanti a lui era di una magrezza estrema, fragile e
agghiacciante; la pelle del viso, tirata sugli zigomi, era d’un colore
malsano, e gli occhi infossati, cerchiati da occhiaie di sonno, di dipendenza,
di malattia. Joey si inumidiva
nervosamente labbra perennemente secche, si stringeva nelle braccia ossute,
tremante e ingobbito, nuotando in vestiti diventati troppo larghi per lui.
Alan non riusciva a
trovare parole, né sincere né mendaci, da rivolgergli.
Non sapeva dar voce al proprio sconcerto, ma nemmeno riusciva a fingere di non
vedere la devastazione che aveva davanti agli occhi. Non erano mai stati
davvero amici, non avevano mai avuto più di tanta confidenza,
ma quel silenzio, quell’angosciante vuoto era insopportabile; avrebbe
voluto andarsene in fretta, e dimenticarsi di lui, ma non riusciva a
costringere le proprie gambe a muoversi, o se stesso a voltare le spalle senza
dirgli nulla.
“È da tanto che non
capito più al Diadokon… continui a suonare lì?”
Fu grato a Joey per
aver preso la parola, per aver chiesto una cosa banale, per aver fatto finta di
niente; annuì, ma non gli riuscì di rispondere,
morbosamente assorto nella contemplazione di quel viso sfatto. Si chiese se Joey si rendesse conto del perché della sua attenzione, se
ciò lo addolorasse e lo mettesse in imbarazzo, se lo irritasse, o se ormai
fosse troppo fuori di sé per capire, o per prestarci attenzione. Lui, sapeva,
avrebbe odiato essere guardato in quel modo, avrebbe preso a pugni in faccia
chi avesse osato.
“Alan, senti…- si grattò una guancia, ma
sembrava un tic - Non
avresti qualche soldo? Per… comprarmi da mangiare.”
Trenta
dollari, tutto ciò che aveva nel portafogli. Glieli tese senza
pensarci, fissandolo mentre afferrava le tre
banconote, mentre se le ficcava in tasca, avidamente. Sapeva benissimo come li
avrebbe spesi, e forse aveva sbagliato, dandoglieli, ma cosa sarebbe cambiato? Joey gli biasciò un ringraziamento, superandolo e
andandosene, con passo incerto. Comparso e scomparso in
fretta, solo per lasciarlo avvelenato.
Non lo seguì con lo sguardo, mentre si
allontanava; preferiva cercare di cancellare la figura dalla sua mente,
soffocare la nausea che gli aveva dato.
“Mi è passata la voglia di bere. Andiamo a
casa”
Disse, tornando alla
macchina.
Sedette al posto accanto
al guidatore, silenzioso, lo sguardo basso. Attese che Julian mettesse in moto; per più di un minuto, un tempo
lunghissimo. Aspettò invano, sempre più impaziente, fino a
quando, desideroso di prendersela con qualcuno, sbottò.
“Muoviti, Cristo! O
questo rottame ha fuso il motore?”
“…Stai bene?”
La voce di Julian era titubante, era l’indecisione
sul suo diritto a intromettersi a renderla tale, e
preoccupata. Alan lo guardò, trovando premura e apprensione sul suo viso, ed
entrambe sembravano essere sincere. Sentì la risposta astiosa che avrebbe
voluto dare sgonfiarsi, affievolirsi, svanire; le male
parole davano poca soddisfazione, con l’impiastro, lo aveva già ampliamente
sperimentato. Sospirò, cercando di allentare la tensione che gli imprigionava
le spalle.
“Non lo so.”
Una pausa, ancora,
durante la quale, Julian ponderò se fosse il caso di obbedire, e tornare a casa
senza altre domande, o di cercare di andare a fondo di
quel malessere, e di alleviarlo, se possibile.
“Quel tuo amico… non
sapevi stesse male?”
“No, non lo sapevo. E non è nemmeno un mio
amico, per la cronaca; mi ero quasi dimenticato di lui, se devo essere sincero.”
“Ma se vederlo ti ha
turbato fino a questo punto, in qualche modo dovevi…”
“Non mi ha turbato affatto,
lui. Non me frega proprio niente di lui,
se vuoi saperlo!”
Sbottò, usando un tono
più alto e aggressivo di quanto avesse voluto. Se ne
pentì quasi subito, ma non si scusò.
“Ma allora, perché? Se sei sbiancato. Eri, e sei, sconvolto, anche se lo
neghi posso leggertelo in faccia, e in tutto il tuo atteggiamento.”
“Infatti non mi pare
d’aver detto d’essere tranquillo e sereno!”
Alan tacque,
massaggiandosi la fronte. Aveva la sensazione che parlandone, ammettendolo con
qualcuno, si sarebbe sentito meglio. Che uno sfogo
avrebbe allentato la pressione che sentiva nel petto, e avrebbe dissolto il
gelo che gli correva lungo la schiena. Sarebbe stato facile, se si fosse
trovato con Damien, o Aidan; anzi, forse con loro non avrebbe nemmeno dovuto
aprire bocca, perché anche loro conoscevano Joey, e
avrebbero capito da soli quello che lo aveva colpito tanto violentemente. Ma Julian… Julian no. A lui
avrebbe dovuto spiegarlo, e si sarebbe sentito debole e stupido nel farlo.
Aveva sperato di non dover mai parlare con Julian della sua tossicodipendenza,
cancellando quel capitolo dalla sua vita, come era
stato cancellato Dietrich. Julian attendeva, in silenzio, e lui comprese che
non gli avrebbe chiesto di parlare, che in quel caso non avrebbe insistito,
rispettando la sua reticenza. Fu tentato di approfittarne, di chiudere il
discorso, ma gli tornò alla mente come Julian si era messo a
nudo con lui, affrontando il rischio di essere respinto e deriso. Era un
pericolo che sapeva di non correre, non con quell’impiastro desolantemente
dabbene.
“Non eravamo amici - ribadì Alan - Era solo qualcuno che frequentava i miei stessi
locali, le stesse persone… gli stessi spacciatori.”
Mise del disgusto, in quell’ultima parola, e
si tormentò una ciocca di capelli, prendendosi una piccola, indispensabile
pausa, prima di continuare.
“Se non mi avesse
parlato, non l’avrei mai riconosciuto. Era sparito dalla circolazione, tempo
fa, poco dopo aver iniziato a farsi di eroina;
dicevano che si fosse trasferito in un’altra città, per cambiare giro, disintossicarsi. Mi pare evidente che, se
così era, abbia fallito.”
“Però hai detto che di lui
non ti importa.”
“Io non ho…ad un certo
punto… non ho visto lui. Ho visto me. Quello che mi
attendeva, quello che facilmente avrei potuto
diventare, quello che magari ancora mi attende. Forse è una paura che avrebbe dovuto cogliermi allora, ma prima non mi aveva mai sfiorato; mi dicevo di essere
superiore, che non mi sarei mai ridotto ad uno schifo simile. Che non mi sarei mai bucato, che non avrei mai toccato l’eroina.
Come lo diceva lui. Io e Joey provavamo
lo stesso ribrezzo per chi si faceva di quella roba; una sera eravamo in giro,
e un tossico ci avvicinò più o meno come ha fatto lui poco fa. Joey lo spintonò, buttandolo giù… lo insultò, e lo feci
anch’io. Lo deridemmo, e ce ne andammo lasciandolo a
terra. Ci riempimmo di acido, quella sera. Lo ricordo
bene, stemmo male per giorni… ma non ci passò mai per
la testa di essere tali e quali al tizio che avevamo maltrattato. Eppure, ecco
la fine che ha fatto, con tutto il suo sprezzo; la merita, forse… e forse la
meriterei anch’io.”
Si zittì, stupito di aver parlato tanto, e
nonostante tutte quelle parole era certo di non essere
riuscito a spiegare cosa provasse, il motivo più profondo della paura, dello
schifo e del senso di colpa che si mescolavano in lui. Si disse
che stava reagendo eccessivamente, che non era da lui, che l’incontro avrebbe
dovuto lasciarlo indifferente, non scuoterlo al punto di… di fargli sentire il
bisogno di confidarsi.
Doveva essere lo stress,
la causa di quell’ipersensibilità; il logorio per una relazione andata in
frantumi e il
conflitto con i propri sentimenti lo avevano lasciato scioccamente nervoso.
“No. Non la merita lui, e ancor meno tu – Julian parlò quieto; la sua voce era bassa, ma sicura e
seria come Alan non l’aveva mai sentita – Sei stato forte, ne sei uscito.”
“Già, come no, forte. – a lui, invece,
riusciva solo un amaro, infastidito, sarcasmo – Nessuno può dire con sicurezza
di esserne uscito per sempre.”
“Come nessuno può essere sicuro di non
entrarci mai. So che mi consideri uno sprovveduto con ben poca esperienza di
vita, e non hai torto, ma un’idea di cosa possa essere una dipendenza ce l’ho, e anche della determinazione che occorre per
liberarsene.”
Julian sperò che le sue
parole sortissero un qualche effetto, che non sembrassero
solo vuote frasi di circostanza, buttate lì con leggerezza. Tacque, aspettando
una risposta, ma Alan stava in silenzio, guardando
fuori dal finestrino, aumentando la sua preoccupazione. Che
altro poteva aggiungere? Non aveva mai avuto molte occasioni
di incoraggiare, o consolare, qualcuno, non era certo di esserne capace.
Forse stava riuscendo solo a irritarlo ancora di più.
Sospirò, augurandosi che cambiare completamente tono e discorso potesse funzionare.
“Beh… allora torniamo a casa, adesso: per
sollevarti il morale ti farò qualcosa che ti piacerà di sicuro.”
Lui si voltò lentamente
a guardarlo, con una strana espressione, insieme stupita, perplessa e intensa, e Julian
ebbe la vaga sensazione di aver detto qualcosa di fuori posto, di strano.
“Intendi – chiese Alan con cautela – qualcosa
che non potresti farmi anche in macchina?”
Julian impiegò qualche
secondo per afferrare il concetto, e quando ci riuscì sentì il proprio viso
farsi bollente in modo esagerato; il colore che doveva aver assunto poteva solo
immaginarlo.
“La cena! Parlavo di cucinarti qualcosa per
cena!”
Si affrettò a chiarire,
a voce un po’ troppo alta, d’un fiato, con un’imbarazzatissima foga che quasi sconfinava nel panico. Alan
lo fissò, poi guardò davanti a sé, sogghignando; oltre che divertito sembrava
compiaciuto, quanto bastava per far sorgere a Julian il dubbio che non avesse
per nulla equivocato le sue parole. Julian vide residue tracce di tensione
nella sua postura, e il suo volto era ancora troppo
pallido, più del solito; il turbamento non lo aveva abbandonato, ma quella
battuta indicava la volontà di lasciarsi l’episodio alle spalle. Di volerci
provare, almeno, di volersi distrarre, e con quella
presa in giro era quasi come se gli avesse chiesto una mano.
“Ahah. Molto
spiritoso.”
Commentò, mettendo in
moto e ostentando un’espressione sdegnosa. Peccato che
l’effetto fosse rovinato dal rossore ancora visibile sulle sue guance, e
da un sorriso trattenuto a stento.