IL PRINCIPE AZZURRO 9

di Unmei


 

  Quella notte Alan si ritrovò a pensare a ciò che aveva perduto. Come suo padre, per esempio, che gli mancava così tanto; era sicuro che la sua vita sarebbe stata ben diversa, se lui non fosse morto.

 E pensava agli amici che aveva perso di vista, che gli erano sfuggiti dalle mani, di cui non sapeva più nulla, e di cui forse nemmeno gli importava.

 

 E pensava anche a ciò che non aveva mai avuto.

 Come l’Università, che non aveva potuto permettersi di frequentare.

Chissà se Dietrich lo avrebbe considerato in maniera diversa, se gli avrebbe attribuito un po’ più di valore, se l’avesse conosciuto come studente, anziché come tossico abbordato in un locale. Riflettendoci probabilmente no, forse anzi non avrebbe nemmeno attirato la sua attenzione….. il che non necessariamente sarebbe stato un male, suggerì una voce pedante da qualche parte nella sua testa.

 

Ora rischiava di perdere anche Dietrich, ma con stupore scoprì di non temere quel risultato. Non quanto aveva creduto, almeno, e questo perché lo scopo principale era cambiato.

 Avere Die solo per sé, ottenere il suo amore impressionandolo con una ribellione di cui non lo riteneva capace: questo aveva desiderato all’inizio.

 Ora l’unica cosa importante era strapparlo a Julian. Quello gli sarebbe bastato, a costo di perderlo lui stesso.

 Julian che aveva tutto, che viveva felice il suo amore, pure se inesistente, che si permetteva anche di essere una persona insopportabilmente amichevole….. Julian meritava di scoprire cosa significasse perdere, e stare male.  

 

 Lui aveva ormai stabilito come agire, e con un po’ di fortuna le cose sarebbero andate come si aspettava: era sicuro di sé, tranquillo, determinato. Eppure aveva un nodo allo stomaco che non riusciva a sbrogliare, che lo nauseava e gli impediva di dormire. In altri tempi avrebbe buttato giù un paio di quelle pastiglie venefiche, eppure così perfette per sciogliere la paura, per cancellare i pensieri e far passare in fretta la notte. Ma non era più così stupido, così debole e così impaurito: da solo poteva arrivare al giorno dopo, e anche affrontarlo.

 Abbandonò il letto, perché ormai gli era divenuto insopportabile continuare a rigirarsi tra le lenzuola. Avrebbe voluto suonare. Suonare era per lui una consolazione e una cura: riusciva a calmarlo, incoraggiarlo, eccitarlo, ma erano le tre passate e sapeva che i suoi vicini non si sarebbero fatti scrupolo di mandargli la polizia alla porta per disturbo della quiete. Già una volta lo avevano fatto, e lui voleva risparmiarsi il fastidio. Tirò fuori un blocco da disegno e cominciò a tracciare schizzi senza un’idea precisa, lasciando errare i pensieri come la matita sul foglio.

 

L’ultima volta che aveva visto Julian era stato tre giorni prima, alla vigilia del ritorno di Dietrich. L’impiastro era passato dal negozio di Aidan, perché lì gli aveva dato appuntamento; avevano parlato, rovistando tra ultime uscite e vecchi 33 giri, di concerti, della serata passata al Diadokon. Onestamente l’entusiasmo di Julian per la sua musica l’aveva quasi messo in imbarazzo; era quantomeno ironico che tanto apprezzamento provenisse proprio da lui. La chiacchierata non era stata male, in ogni caso….. si stava abituando ad esse. Avevano continuato a discorrere anche quando se ne erano andati, assieme; avevano lasciato nel negozio Aidan, ovviamente, e Damien, giunto una mezz’ora prima, di ritorno da una riunione pomeridiana a scuola, e particolarmente in vena di tormentare il suo vecchio amico.

 

 “Ogni volta che li lascio soli - aveva spiegato, mentre camminavano - Mi aspetto di ritrovarli il giorno dopo finalmente accoppiati. Lo spero più che altro per Aidan, povera bestia, ma se continua così farà tempo ad invecchiare.”

 “Ma tu credi che abbia delle possibilità? Voglio dire….. A Damien piacciono gli uomini? Perché da come si è comportato l’altra sera…..”

 “Da maschio dominante che signoreggia su tutte le femmine fertili, intendi?”

 “Non avrei usato esattamente questi termini, comunque sì: gli interessano anche i ragazzi?”

 “Oh, questo è un discorso complicato. Non riuscivo a capirlo, i primi tempi, e alla fine gli chiesi francamente se gli piacessero gli uomini o le donne.”

 “E lui?”

 “Risposta tipica, da parte sua: ‘a me piace chiunque sia disposto a venerarmi’. Non so bene se ciò costituisca una speranza o un sventura per quell’altro disgraziato.”

 

Chissà perché era così facile parlare con Julian. Ogni volta preparava nella sua testa argomenti e discorsi ben precisi, con l’intenzione di influenzare a proprio piacimento il ragazzo, e dare una visione di sé artificiale, per mantenere le distanze. Ogni volta invece finiva con il lasciarsi trasportare, coinvolgere, e le chiacchierate diventavano imprevedibili, spontanee. Non andava bene, no. Non vedeva l’ora che quella storia finisse.

 

Continuò a disegnare, scurendo, sfumando, definendo i particolari; sorrise al pensiero della cena che avevano condiviso da Kadir. Lui l‘aveva avvisato, di non chiedere dose extra di salsa piccante nel kebab, ma Julian aveva voluto fare di testa sua. Bisognava riconoscergli una certa inaspettata testardaggine, o stupidità, visto che nonostante il colorito scarlatto che avevano assunto le sue labbra e guance, e gli occhi lucidi, era arrivato fino in fondo al grosso panino facendo finta di nulla, senza attaccarsi alla Coca Cola ghiacciata, nonostante le lanciasse  lacrimose occhiate piene di desiderio.

 

 “Va benissimo, benissimo! Non capisco perché la dicevi così terribile…..”

 

 Il sorriso gli scomparve dalle labbra: lui lo costrinse a svanire, perché si rese conto che non si trattava di un sorriso di scherno, ma di sincero divertimento.

 Era stato bene, quel giorno, e non era felice di ammetterlo. Fissò il disegno, una creatura inesistente, che aveva le fattezze di Dietrich ma gli occhi, inequivocabilmente, di Julian. Uno sguardo morbido, sincero, che stonava su quel volto.

 Accartocciò il foglio e lo gettò via.

 

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 “Credevo ti saresti fatto vivo prima: sei tornato da qualche giorno, ormai.”

 “Considerato come ti sei comportato l’ultima volta, ho creduto che non t’importasse molto di rivedermi.”

 

Alan storse la bocca in quel particolare modo che lui trovava al tempo stesso superbamente attraente e pericolosamente irritante. Gli prese il mento fra le dita, avvicinando il volto al suo.

 

 “…..il benvenuto che mi ha dato Julian è stato molto più caloroso e soddisfacente del tuo. Vuoi che ti racconti, così magari prendi spunto?”

 “Non credo di averne bisogno.”

 

Dietrich lasciò che Alan scostasse il viso, infastidito, che infilasse una mano tra i capelli della sua nuca, attirandolo verso di sé per baciarlo. Sentì il profumo pungente della sua pelle, i suoi denti mordergli le labbra, e l’erezione imprigionata nei jeans gli sembrò ancor più impaziente; ansimò di piacere e sollievo quando Alan slacciò la patta e la prese in mano, attraverso la stoffa dei boxer. Si staccò dalla sua bocca quel tanto che gli serviva per parlare.

 

 “Cosa facciamo qui in entrata? Andiamo in camera.”

 “E se mi sentissi offeso dal tuo silenzio e non avessi voglia di scopare?”

 “Ti violenterei, molto semplicemente.”

 “Oh. Tremo di paura.”

 “Ma a dire che non ne hai voglia saresti davvero un bugiardo. Un pessimo bugiardo.”

 

Sogghignò, cominciando a sospingerlo verso la stanza da letto. Alan lo fissava con sfida, opponendogli una falsa resistenza, e poi lentamente gli sorrise; quando con le gambe arrivò a sfiorare il letto, il suo musicista lo prese per le braccia, scambiando le loro posizioni.

 

 “Credo di essermi comportato davvero male l’ultima volta…..”

 “Sono felice che tu ci abbia riflettuto.”

 “Allora lascia fare tutto a me: mi farò perdonare.”

 

Lo spinse sul letto, e lui fu ben felice di mettersi comodo, lasciando che Alan gli si mettesse cavalcioni e gli sbottonasse lentamente la camicia. Aveva le mani stranamente fredde, in quel momento; il loro tocco lo faceva rabbrividire, ma gli piaceva. Gli piaceva Alan, quando si comportava così, e quando si sottometteva, quando si ribellava; tutte le sfaccettature contrastanti del suo carattere, fragili e taglienti. Era come….. un bell’oggettino di cristallo.

Alan lo spogliò, si liberò dei propri vestiti e si chinò su di lui, leccandogli le labbra, sfiorandole con un sorriso lascivo.

 

 Dietrich ripensò ai primi tempi passati insieme, e a come Alan era stato diverso.

Stava venendo fuori dalla droga….. e lui gli stava dando una mano, se così si poteva dire, affascinato più da quel tentativo e dalle reazioni che provocava,  che realmente fiducioso in una sua riuscita. Lo aveva visto ansioso, i primi giorni; inappetente, depresso, e stanco, divorato dal desiderio di cocaina, per quanto negasse, testardo, di sentirne il bisogno. Dopo aveva iniziato a dormire gran parte della giornata, a mangiare abbondantemente e nervosamente, senza mostrare più alcun desiderio per la droga. Quello era solo l’inizio, l’organismo che tentava di rimettersi in sesto, di trovare un equilibrio: non era una guarigione, nemmeno una apparente. Per questo lo aveva ancora una volta respinto, nonostante lo trovasse ancor più desiderabile, sconvolto a quel modo.

 

 “Eri un tossico, e resti un tossico; sei solo passato attraverso una crisi d’astinenza. Non mi hai dimostrato proprio nulla.”

 

 Quanto si era incazzato, a quelle parole. Lo aveva fissato ferocemente, insultato, mandato all’inferno; aveva fatto per prenderlo a pugni, ma si era trattenuto, sfogandosi poi prendendo a calci i mobili e riuscendo a distruggere un paio di sedie. Ma lui non aveva mentito: la prima fase della disintossicazione era la più semplice da superare, nonostante le apparenze. La liberazione era  momentanea, ingannevole, e il peggio era ancora a venire.

L’equilibrio appena conquistato, infatti, si era velocemente sgretolato in un umore pessimo, irritabile; aveva vissuto a casa di Alan, in quei giorni, e lo aveva visto sempre più agitato e intrattabile, irritato e spaventato. Alan si chiedeva che mai poteva riservargli il futuro, e come affrontarlo, privo del rifugio e della forza, pur  ingannevole e fatale, della coca. L’aveva rimpianta, in quei giorni? Probabile, quasi certo. Forse, se non l’avesse tenuto d’occhio, sarebbe corso dal suo spacciatore, per avvelenarsi ancora, illudendosi di trovare la pace. Lui gli aveva impedito di uscire, lo aveva anche chiuso a chiave in camera quando aveva cominciato a dare in escandescenze, ed era rimasto al di là della porta serrata ad ascoltare i suoni della sua rabbia: gli improperi a suo indirizzo, i pugni contro il muro, gli oggetti buttati a terra, fino a quando giungeva un esausto silenzio. Non era forse la prova, quel folle squilibrio, che Alan era molto più in là nel cammino della tossicodipendenza di quanto lui stesso volesse ammettere? Probabilmente lo aveva fermato appena in tempo, prima che la sua vita, la sua bellezza, la sua stessa identità, svanissero in un cumulo di polvere bianca.

 In realtà non gli importava molto di ciò che Alan voleva fare di sé, ma gli piaceva osservare la sua battaglia, tormentare il suo orgoglio; erano poche le cose che tenevano vivo a lungo il suo interesse, ma quel ragazzo dal cuore circondato dai rovi….. sembrava essere un’eccezione.  

 

Ora Alan si muoveva sensualmente su di lui; quelle mani, la bocca, la lingua, conoscevano tutto del suo corpo, sapevano come compiacerlo e come esasperarlo. Dietrich ricordava molto bene come era stato, la prima volta, il sesso insieme. Molto diverso, ma non meno piacevole, anzi. La sensazione di totale, violento dominio che aveva provato….. bastava solo il pensiero ad eccitarlo, a fargli desiderare di sentirla ancora, e ancora. Questo lo spingeva ad essere quasi sempre violento ed aggressivo con Alan, ma la sua sottomissione non aveva più lo stesso dolce sapore, perché quel ragazzo spezzato, completamente sperduto, aveva cessato di esistere, almeno ai suoi occhi.

 

L’Alan di allora era esausto e inerme. La difficile fase di rabbia e violenza si era esaurita di colpo, lasciandolo consumato e depresso, debole nel corpo e nell’anima, ma ricco di una bellezza sofferente ed esangue che aveva bruciato il suo autocontrollo. Una bellezza che molti avrebbero trovato morbosa e disturbante, ma non lui.

 

 “Sei stato bravo.”

 

Gli aveva sussurrato un giorno, e l’aveva spinto bruscamente sul letto. Aveva aspettato anche troppo a lungo, giocando con lui e con i suoi stessi limiti, per poter indugiare in provocazioni, o in qualunque tipo di preliminari, per quanto potessero essere eccitanti. Gli aveva praticamente strappato di dosso gli abiti, si era spogliato in fretta, e frugando nel cassetto del comodino aveva trovato un tubetto quasi finito di lubrificante. Alan lo fissava immobile, gli occhi dilatati e il respiro accelerato; la sua pelle era pallidissima, ma si stava in fretta accendendo di rossore. Si mordeva le labbra, eccitato fino a tremare, e aveva immediatamente aperto le gambe, offrendosi. Lui non aveva perso un attimo, né detto una parola. L’aveva penetrato con forza, senza preparazione, strappandogli un grido rauco. Non aveva usato preservativo, perché conosceva le sue recenti analisi e sapeva che era sano, e perché voleva sentire quella carne stringere la sua, senza barriere, per quanto sottili. 

Alan aveva gli occhi appannati, il respiro ansimante; completamente passivo, smarrito nel piacere e nel dolore che gli stava offrendo in abbondanza; sentiva le sue dita aggrappate alla schiena, le unghie graffiarlo, e il proprio cuore rimbombare nelle orecchie.

 

 Sembrava un’altra persona il giovane che ora era sceso con la bocca tra le sue gambe; somigliava molto di più al ragazzo sfrontato che si sarebbe volentieri fatto scopare nel parcheggio. Quando Alan si staccò dalla sua erezione, istintivamente lo spinse subito verso essa, ma lui scostò la testa dalla sua mano. Diede una lenta, lasciva, leccata al glande, e si raddrizzò, carezzandogli i fianchi e guardandolo con un vago sorriso.

 

 “Ti dispiacerebbe finire ciò che stavi facendo?”

 “Voglio chiederti una cosa, prima.”

 “Ti sembra il momento?”

 “Sì; ho pensato che saresti stato più malleabile.”

 “Forse lo sarei, ma mi indispone il ghigno che hai sulla faccia.”

 “La faccia che hai tu ora, invece, mi diverte moltissimo. Oh, non arrabbiarti! Ti ho detto che voglio farmi perdonare il pessimo comportamento dell’ultima volta, no? Se venerdì sera verrai al Diadokon ci sarà una sorpresa per te.”

 “Perché proprio lì?”

 “Non lo immagineresti mai….. quindi non fare domande, tanto non risponderò. O che sorpresa sarebbe?”

 “Venerdì sera, eh? Dopodomani.”

 “Puoi uscire, o il quattrocchi ti tiene il guinzaglio corto?”

 

 Aveva indovinato le parole giuste, glielo lesse nello sguardo: Dietrich si accigliò, un breve istante, dal significato molto chiaro. Mai mettere in dubbio il suo predominio e la sua libertà, eh?

 

 “Sarò lì alle nove, ma non potrò fermarmi troppo a lungo, per ovvi motivi. Spero capirai.”

 “Ma certo che capisco. Guinzaglio corto, come temevo.”

 

Disse, sarcasticamente. Ma sapeva dove fermarsi: non voleva irritarlo, e fargli cambiare idea. Abbandonò le provocazioni, e alzandosi sulle ginocchia si posizionò sopra la sua erezione, impalandosi lentamente, guardandolo fisso negli occhi. Qualsiasi parola, qualsiasi protesta Dietrich avesse voluto porre alla sua presa in giro, affogarono nel piacere, mentre Alan cominciava a muoversi sopra di lui.

 

***

 

 Si era raggomitolato al centro del letto e stava lì, immobile.

Era fatta, ormai. Quasi fatta. Fermarsi ora….. non voleva farlo, e forse nemmeno poteva. In fondo, quando stai precipitando, non è possibile frenarti a metà strada, sospeso. Ma quei pensieri sussurravano solo in un angolo della sua mente, soffocati dal fragore di altre emozioni, di sentimenti che gli stringevano la gola. Sentiva addosso una cupa ansia, un vuoto pesantissimo, un malessere indefinito e inesorabile, che riconobbe immediatamente. Non lo provava da ANNI, né mai lo aveva provato in quelle condizioni, eppure era lui.

 

  Un tempo lo assaliva dopo gli orgasmi solitari della masturbazione.

Il lampo di piacere, poi gli franavano addosso freddo e solitudine, angoscia, amarezza e disgusto. Il desiderio di avere qualcuno accanto, e la paura che quel qualcuno non ci sarebbe mai stato. Era un terremoto emotivo che non riusciva mai a contrastare, e si odiava per quei sentimenti vigliacchi. Si odiava anche per essersi masturbato….. gli sembrava così patetico.

 Era un adolescente, allora, e gli anni e i compagni di letto aveva cancellato quei turbamenti. O almeno così credeva: ora erano tornati, tutti insieme,  forti come se volessero prendersi una rivincita, recuperando il tempo perduto, strangolando. Quel male amaro lo aveva investito mentre ancora era scosso dall’orgasmo, mentre ancora Dietrich era dentro di lui, e in un istante tutto il piacere si era trasformato in ansia. Se ciò aveva un significato, lui non voleva pensare a quale fosse.

 

Adesso era di nuovo solo, e il giorno era ancora alto; non poteva lasciar svanire nel sonno le sue inquietudini, perché poi la notte sarebbe stata insonne e infinita,  troppo pesante da sopportare, con il suo silenzio. Si costrinse ad alzarsi, a farsi una lunga doccia e a uscire, sperando che un lungo giro in moto, fuori città, potesse anestetizzargli il cuore.

 

 

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…..Saturday wait

And sunday always comes too late

But friday never hesitate.….

 

 

 Ci vollero solo due squilli perché Julian rispondesse al telefono, e lo investisse con parole e un tono del tutto inaspettati.

 

 “TI HO DETTO CHE NON NE VOGLIO SAPERE, LASCIAMI IN PACE!”

 

Rimase qualche istante in interdetto silenzio, prima di tentare timidamente:

 

 “….. Julian?”

 “……Alan?”

 “Sì. Ehm….. Chiamo in un brutto momento?”

 “No, no, scusami! Fino a trenta secondi fa stavo parlando con mio padre, e visto che gli ho appena attaccato il telefono in faccia ho dato per scontato che fosse lui. Non ho nemmeno fatto caso al nome sul display.”

 “Certo che fa impressione sentirti gridare….. non sembri il tipo capace di arrabbiarsi.”

  “Di solito non mi capita, ma quell’uomo spingerebbe all’omicidio persino Buddha.”

 

 Sospirò afflitto, suscitando una risata morbida in Alan.

 

 “Ascolta – riprese poi il musicista – hai da fare in questo momento?”

 

 [No, non ce l’hai. Perché Dietrich sarà qui a momenti, e sei da solo in casa, non è vero? Lui è uscito, e ti ha detto che starà via per un po’, ma che non farà tardi,e tu lo stai aspettando….. ma hai almeno un’ora da dedicarmi.]

 

Sentì Julian esitare, probabilmente chiedendosi cosa fosse il caso di rispondere; decise di dargli un piccolo aiuto.

 

 “Scusa la mancanza di preavviso, ma c’è una cosa che vorrei tu vedessi…. Potresti passare al Diadokon, diciamo tra una mezz’ora?….. Non ti porterò via molto tempo.”

 

[Ed ora devi solo rispondere di sì. Solo questo, e facciamola finita.]

 

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 Julian non notò la modesta Ford color argento parcheggiata a poca distanza da dove lui posteggiò la sua scandalosamente lussuosa Carrera. Male, perché se l’avesse fatto avrebbe riconosciuto la targa, ormai ben memorizzata, e avrebbe capito che apparteneva a Dietrich, e si sarebbe chiesto cosa mai ci facesse da quelle parti. Ma non era poi strano che non vi avesse badato: perdersi facilmente sulle nuvole era sempre stata una sua caratteristica, e l’inaspettata chiamata di Alan aveva avuto il potere di spedirlo a farsi una passeggiata tra di esse.

Amava Dietrich, non aveva dubbi, però quell’altro ragazzo stava diventando importante, anche se forse era ancora troppo presto per chiamarlo amico.

 

 Era presto e c’era ancora poca gente nel locale. Alan e il suo gruppo si sarebbero esibiti solo più tardi; le prime note di “Wormwood” suonavano nell’aria, cupe e magnetiche. Notò ad uno dei tavoli due musicisti della band, il bassista orientale e l’alto chitarrista dai capelli rossi; sul momento non ricordava i loro nomi, ma si avvicinò per salutarli. Quando disse loro che stava andando da Alan, nel camerino, lo avvisarono:

 

 “…..c’è il suo ragazzo con lui…..”

 

Julian non seppe dirsi il perché, ma la delusione gli punse improvvisa il petto, minando per un momento il suo sorriso. Alan aveva un ragazzo. Ovvio che fosse così: era bello, interessante, attraente, per forza doveva avere qualcuno, anche se lui non aveva mai preso in considerazione la cosa. E poi che mai poteva cambiare, questo fatto? Anche lui aveva un compagno, e lo amava. Amava Dietrich, si disse ancora, sentendosi in colpa per le  cose che gli aveva tenuto nascoste (chissà perché, poi…. Non c’era niente di male, giusto?), e perché già sapeva che gli avrebbe taciuto anche quella piccola uscita.

 

Quando arrivò al camerino sentì le voci provenire dall’interno; arrossì d’un tratto, perché sembrava fosse arrivato in un momento piuttosto ‘intimo’. Si preparò a bussare, la porta era socchiusa, ma la mano gli si fermò a metà strada. La voce di Alan la conosceva bene, ma l’altra….. l’altra ancora meglio.

 O così gli sembrava.

 No, certamente sbagliava, stupido che era. Però quell’accento era noto, quella bassa risata di gola era così familiare, anche se c’era in essa una nota spiacevole, più fredda, maligna, che gli era sconosciuta.

 La bocca gli si seccò, e il cuore premeva contro il petto a grandi tonfi; non si calmava, per quanto lui continuasse a ripetergli che era un errore, una semplice somiglianza.  Restò in ascolto, mentre sempre di più la terra gli sfuggiva da sotto i piedi; il pugno che aveva stretto per bussare si sciolse, e lentamente spinse, con la punta delle dita, la porta.

 

[Non è un errore.]

 

Fu la prima cosa che pensò. Dietrich era addosso ad Alan, contro il muro; a torso nudo entrambi, pantaloni aperti, mani che toccavano, stringevano, corpi che si strofinavano, si aggredivano con passione. Erano ferocemente belli, e Dietrich era diverso, così completamente diverso da come lui lo conosceva. Fu Alan e voltare per primo la testa nella sua direzione; c’erano emozioni nel suo sguardo che non riuscì a decifrare.

 

 “Ecco - gli disse - vedi? Abbiamo più cose in comune di quante tu credessi.”

 

 Allora anche Dietrich si accorse di lui. Fu quasi buffa l’espressione che gli passò sul volto, e il modo in cui il colore passò dall’accaldato rossore del sesso, al bianco della sgradita sorpresa, e ancora al rosso, ma carico di rabbia. Lo fissò con ostilità, qualcosa di cui non lo credeva capace, ma non gli disse nulla. Tornò a voltarsi verso Alan, e lo strinse per le braccia

 

 “Che cosa…..”

 

Ma Alan non gli diede tempo di finire: scoppiò a ridere. Una risata priva d’ilarità, secca, alta, isterica, nel cui squilibrio si coglievano pari soddisfazione e disgusto. Sconforto e compiacimento….. Vittoria e irreparabile sconfitta. Rimpianto sì, ma per chi e per cosa?

 

Era irreale, privo di logica e di perché. Era uno scherzo, una visione, un incubo? Fece un passo indietro, per allontanarsi da quella scena e da ciò che essa significava.

 L’aria era poca e rovente, così sembrava a Julian. Non riusciva a respirare, non riusciva nemmeno a pensare; la scossa di terremoto era stata così tremenda, così distruttiva da lasciarlo frastornato, incapace di provare una reazione immediata. Dipanare i pensieri, i sentimenti, decifrarli, capirli, rendersi conto di ciò che era successo, erano azioni al di fuori della sua capacità, in quel momento. Dietrich parlava, ma con Alan, non con lui….. lui non era stato degnato di parola.

 

 Ancora un passo indietro, e ancora un altro. Voltò le spalle, infine, uscendo a passi veloci, tirando fuori dalla tasca le chiavi della macchina, che quasi gli caddero, per il tremore. Si ritrovò nel locale dove, a differenza della sua vita, nulla era cambiato; era quasi offensiva, quella normalità. Non rispose al saluto di Sen e Terrence (ecco come si chiamavo, gli amici di Alan), e uscì. Fuori l’aria era fresca e leggera, ma il fiato ancora gli mancava.