IL PRINCIPE AZZURRO 7

di Unmei


 

Per tutto quel pomeriggio, dopo aver lasciato il negozio di Aidan, Julian aveva sentito una sorta di agitazione, uno strano ma piacevole rimescolamento allo stomaco. Non aveva dubbi che tutto fosse da attribuire all'uscita di quella sera: gente nuova, e un posto nuovo, come molte altre volte portavano con sé una leggera, elettrizzante inquietudine, anticipazione appena velata di preoccupazione. Quella volta in particolare provava anche un certo retrogusto di senso di colpa per aver mentito a Dietrich, al telefono. Più che una menzogna in realtà si era trattato di un'omissione, avendo evitato di accennargli dell'appuntamento. Era stato indeciso sul raccontarglielo o meno; la sincerità era una sua caratteristica, ma aveva infine concluso che non c'era bisogno che sapesse, e magari si preoccupasse o avesse dei dubbi….. comunicare al proprio ragazzo che mentre lui è assente hai intenzione di uscire con un altro è una cosa che può avere controindicazioni anche quando i tuoi propositi sono del tutto privi di malizia.

 

Alan arrivò puntuale sotto casa sua. Julian si era aspettato che venisse a prenderlo in macchina, ma quando scese per unirsi a lui lo trovò in sella a una moto. Una moto nera, dalle cromature lucide, lo stemma argentato Virago sul serbatoio e il motore che ringhiava sommessamente, in attesa. Il centauro lo vide e fece un cenno di saluto; non portava il casco né ne aveva uno con sé, da prestare a lui, se non altro.

 

 "Ciao."

 "Ciao. Ehi, bella moto!"

 

Alan sorrise come se avessero fatto un complimento all'amato figlioletto, e come se essa fosse davvero tale le fece una carezza orgogliosa.

 "Non dirmi che ne hai una uguale."

 Disse, alludendo ai loro gusti musicali, che inaspettatamente si erano rivelati così simili da avere in comune almeno metà collezione. Ma Julian scosse la testa.

 "No. No, purtroppo; ho provato solo una volta a guidare una moto, a sedici anni."

Lo disse lasciando il tono in sospeso e dopo pochi secondi aggiunse, divertito e imbarazzato:

 "Ho ancora le cicatrici."

 "Brutta botta?"

 "Un mese di ospedale."

L'altro inarcò le sopracciglia, forse impressionato da quel disastroso battesimo motociclistico, e Julian quasi arrossì, pensando che non era stato molto coraggioso da parte sua rinunciare tanto facilmente alle due ruote, ma il fatto di ritrovarsi vivo dopo l'incidente lo aveva portato a desiderare di mantenere quella condizione il più a lungo possibile.

 

 "Con me non cadrai - disse Alan, spavaldamente rassicurante - Avanti, sali."

 

E il ragazzo quella moto la sapeva portare dannatamente bene, constatò Julian. Forse anche troppo, pensò, tra azzardati slalom tra le auto, sorpassi e semafori bruciati, ad una velocità che andava sicuramente oltre il limite. Alan guidava sempre in modo spericolato, ma per l’occasione si stava comportando più temerariamente del solito, con lo scopo di spaventarlo, e magari di farlo scendere dalla moto terreo e con le gambe tremanti.

Julian questo non lo poteva sapere; si costrinse a reggersi solo allo schienale, teso, anche se volentieri si sarebbe aggrappato alla vita di Alan, che gli sembrava decisamente più sicura. Ma lo conosceva appena e non voleva invadere così il suo spazio privato, prendersi troppa confidenza, o fare semplicemente una figura da femminuccia spaventata da un po’ di velocità;        non con quel ragazzo specialmente, che somigliava tanto alla persona libera e padrona della propria esistenza che avrebbe voluto essere. Desiderava essere alla sua altezza come desiderava essere a quella di Dietrich; i due erano completamente diversi tra loro, ma percepiva in entrambi la stessa solida determinazione, la stessa forza interiore. E si sentiva ai loro antipodi.

Si propose per l’ennesima volta di acquistare maggior confidenza in sé, e rimpianse scelte passate, figlie della sfiducia e della paura del fallimento. Poi, ad un certo punto del tragitto, nonostante il brivido e la tensione, o probabilmente proprio a causa loro, si rese conto che la corsa era piacevolmente eccitante, oltre che terrificante. Si disse che aveva fatto male, anni prima, a lasciar perdere la moto dopo l’incidente. Forse avrebbe potuto riprovarci. Protetto da casco e tuta ultra corazzata, ma per la prima volta si sentiva davvero determinato a un altro tentativo. Tra tutti i risultati possibili, quello era uno che Alan non avrebbe mai immaginato.

 

 

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 Quando Julian scese dalla moto non era per nulla terreo, e neanche lontanamente tremante, notò Alan con una certa delusione. Un po’ pallido forse, ma con un gran sorriso e gli occhi accesi. O lui non era stato incosciente come credeva, o il riccastro era meno mammola di quanto apparisse. Non diede a vedere il proprio disappunto e invitò Julian a seguirlo; normalmente per le prove sarebbe passato dal retro, ma essendo la prima volta del suo ospite decise per l’ingresso principale.

Ecco il Diadokon, dunque. Julian lo vide immerso in piena luce, una cosa possibile solo quando il locale era chiuso. Perché quando apriva i battenti, quando si riempiva di gente, musica e fumo, tutto diveniva penombra, luci livide, azzurrognole, o il rosso palpitante del fuoco, quando l’alcol veniva incendiato. Se ora quell’ambiente gli piaceva, da lì a qualche ora ne sarebbe stato stregato, sedotto da un’atmosfera decadentemente funerea.

Lungo quasi un’intera parete correva il bancone del bar, alle cui spalle stava una varietà di bottiglie tale che Julian credeva di non aver mai visto nulla di simile. C’erano divani in velluto e raso, avvolgenti, in cupi viola o porpora, tavolini di marmo nero e ferro battuto, sedie d’ebano dagli alti schienali scolpiti. Alle pareti: tendaggi pesanti, immagini oniriche, figure spezzate. In fondo alla vasta sala, là dove essa si restringeva, c’era il territorio di quelli che cercavano se stessi o la fuga; piccole alcove dove perdersi, grembi in cui rifugiarsi, nascondersi; consumare la propria dannazione. Alan lo condusse anche laggiù, ma non gli spiegò cosa vi avveniva, chi erano i fantasmi che lo abitavano, né che lui era stato uno di loro: non aveva bisogno di sapere, lui che non avrebbe mai fatto parte di quelle anime smarrite. Lo portò più volentieri fin sotto il palco, al centro della sala, innalzato e dominante come un altare.

 

 "E' di tuo gusto?"

Domandò a Julian.

 "Magnifico."

 Rispose quello, continuando a guardarsi in giro. Alzò gli occhi e vide che le pareti si innalzavano verso un solenne e scuro soffitto a volta. Là in alto una balconata correva lungo il perimetro del locale; la balaustra sembrava scolpita come un cespuglio di rose e rovi.

 "Davvero fantastico."

Confermò, sorridendo al compagno.

 "Bene. Ma vedrai che tra qualche ora sarà molto meglio. Adesso vieni di là, abbiamo una specie di….. stanza, chiamarlo camerino sarebbe un‘esagerazione; ti presento quelli del gruppo e ci facciamo una birra prima di iniziare le prove."

 

Julian avrebbe voluto dire che detestava la birra, che il suo sapore amaro lo disgustava, ma non parlò; una in compagnia avrebbe anche potuto tollerarla. D’altra parte non unirsi alla bevuta sarebbe stato scortese, e chiedere piuttosto un breezer all’ananas gli sembrava poco virile.

In effetti, poi, di birre ne mandò giù un paio, chiacchierando con quei ragazzi; forse non partecipò molto alla discussione (c’era sempre un velo di inguaribile timidezza in lui, benché miracolosamente non si fosse fatta viva al suo primo incontro con Alan), ma gli piaceva ascoltare ciò che gli altri avevano da dire, e guardarsi attorno in quella piccola stanza caotica che odorava di sigarette e caffè; uno stereo in posizione di riguardo, posacenere stracolmi, un divano invaso da vestiti, libri, compact disc e spartiti; su un tavolino c’era un bonsai, uno di quelli da pochi dollari, che qualcuno aveva pensato bene di decorare impiccando piccole bamboline ai suoi rami e piazzando qualche minuscola lapide tra le radici. Le pareti erano tappezzate di poster di glorie musicali, ma in uno spazio lasciato libero qualcuno aveva ritratto, lunghi e sottili come ombre, ma riconoscibilissimi, con i toni del nero e del grigio e pochi, efficaci cenni di colore, i componenti della band con cui stava in quel momento chiacchierando. Non ebbe dubbi che l’artista fosse Alan.

 

In quanto alla band, i componenti erano quattro: il batterista, un tipo schivo, dal cranio perfettamente rasato e il collo lungo, dall‘estremo pallore e l‘aria enigmatica. Il bassista era un bel ragazzo orientale dal viso femmineo, la cui armonia era interrotta solo da una sottile cicatrice su uno zigomo. Un giovane altissimo, con lunghi capelli lisci tinti di un rosso sfacciatamente artificiale e gli occhi bistrati, era uno dei chitarristi; l’altra chitarra, ma anche le tastiere, e la voce, naturalmente, era Alan. Il nome del gruppo era Hollow.

 “Un nome del cazzo - dichiarò il rosso, pizzicando casualmente le corde della chitarra - Scelto a caso pescando dal dizionario.”

  “Che c’è di male - protestò l’orientale - Lo fecero anche i dadaisti.”

 “Mi fanno schifo, i dadaisti.”

 “Oh, il maestro ha espresso il suo giudizio.”

 

I due già stavano battibeccando quando Julian e Alan erano entrati, e non avevano smesso un attimo, monopolizzando la discussione con le loro diatribe. Julian ne era divertito, il leader del gruppo molto meno, tanto che sbottò.  

 

 “Finitela! Sempre così, di continuo….. Piantatela di flirtare e trovatevi una stanza, sfogatevi, scopate! L‘attrazione repressa è dannosa.”

 

I due contendenti avvamparono e si zittirono e, dopo essersi guardati brevemente in faccia, si voltarono ostentatamente in direzioni opposte, borbottando. Alan sorrise soddisfatto e sussurrò a Julian.

 “Non credevo avrebbe funzionato così facilmente.”

 “Magari hai fatto centro.”

 “No, per dio: se avessero una relazione inizierebbero subito a comportarsi come una coppia di vecchi coniugi litigiosi e rincoglioniti.”

 “Ehi, ti ho sentito, stronzo! Vecchi coniugi litigiosi a chi?”

 “Interessante che tu non abbia da obiettare sul rincoglioniti. - sogghignò Alan, alzandosi - Avanti, possiamo iniziare.”

 

 

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 Il locale si era riempito, le luci si erano abbassate, la musica era alta. Non era ancora tempo per il gruppo di salire sul palco e i ragazzi erano in giro per il locale, in attesa dell’esibizione; il batterista rasato appartato da qualche parte con la sua ragazza e i coniugi se ne stavano al banco del bar, sugli alti sgabelli, a bere vodka e continuare le loro schermaglie. Julian sedeva a uno dei tavoli con Alan e Aidan, indossando un’elaborata giacca di pelle prestatagli dal musicista e ascoltando divertito il suo tragicomico racconto della volta in cui, tentando un effetto scenico, avevano invaso di denso e pestilenziale fumo rosso tutto il locale. Non il Diadokon, per fortuna, ma un posto più piccolo e meno famoso da cui erano stati poi messi al bando, con tanto di foto segnaletiche appese sopra la cassa. Alan si diceva dispiaciuto che non fosse anche stata messa una taglia sulle loro teste.

 Aidan ascoltò con pazienza la storia, anche se la conosceva già fin troppo bene, essendo stato anche lui tra il pubblico in quella famosa serata.

“Spero che non ti disturbi sopportare questi eccessi di socievolezza di Alan - disse, quando l’altro ebbe concluso - sai, è strano che si comporti gentilmente.”

 “Sarà per via della luna piena.”

 

Una voce suadente, benché canzonatoria, rubò la risposta all‘interpellato. Damien sorrise, unendosi al piccolo gruppo, e sedendosi accanto a Julian si presentò, fissandolo amichevolmente, ma in modo così diretto da metterlo in soggezione.

 La soggezione era un sentimento che era abituato a suscitare, e in cosa poi essa sfociasse non gli interessava molto; fosse simpatia, come odio o attrazione, tutto andava bene: l’importante era non essere mai indifferente a nessuno, perché il suo narcisismo potesse essere soddisfatto.

 “Sei in ritardo.”

Gli fece notare Aidan, tentando inutilmente di ottenere una richiesta di scuse.

 “A differenza dei presenti, io ho un lavoro vero.

Rispose il biondo; prese la bottiglia di birra di Aidan, si lamentò della marca ma la finì ugualmente. Poi si rivolse a Julian, apparentemente contrito.

 “Scusami, forse tu non appartieni alla loro genia di sfaccendati.”

 

  Gli sfaccendati lo mandarono a quel paese, e Julian ridacchiò ma non seppe che dire, preso in contropiede un po’ dalla (affettuosa?) presa in giro indirizzata ad Alan e Aidan e un po’ dalla consapevolezza di essere l’unico del gruppo a rientrare effettivamente nella categoria dei nullafacenti. Non aveva mai lavorato, e l’università non contava, visto che studiava poco e di malavoglia solo quanto gli serviva per stare a galla e non inquietare eccessivamente suo padre. E, se contraddetto, suo padre si irritava alquanto facilmente.

 Avrebbe voluto abbandonare legge, la detestava con tutta l’anima, ma l’augusto genitore non avrebbe mai tollerato una simile decisione. Gli avrebbe permesso di farlo, ma gli avrebbe anche tagliato i viveri, lasciandolo a cavarsela da solo, certo di vederlo fallire per poi tornare a ubbidire agli ordini paterni, più umile e rassegnato che mai. 

 Julian era certo che un tentativo di ribellione sarebbe finito così, se non peggio….. suo padre avrebbe anche potuto obbligarlo a fare i bagagli e tornare a Washington, e lui per nulla al mondo desiderava abbandonare Seattle.

 

Dopo poco tempo qualcun altro si unì alla loro compagnia, anche se sembrò dedicare la propria attenzione ad uno soltanto di loro, praticamente ignorando gli altri.

 Senza neanche dire una parola una ragazza si era avvicinata al loro tavolo; era formosa e molto truccata, fasciata da una lunga gonna  dallo spacco vertiginoso, e strizzata in un corsetto tutto lacci dalla scollatura abissale, che strizzava fuori molto più di quanto tenesse dentro. Andò a sedere in braccio a Damien come se ne avesse ogni diritto, e lui in effetti non obiettò, nemmeno quando lei bevve dal suo bicchiere.

La sua ragazza, forse? Julian non sapeva perché, ma aveva la sensazione che non lo fosse, nonostante l’estrema confidenza; la mano di lei, dai lunghi artigli smaltati di rosso cupo che gli accarezzava pigramente la nuca, che scendeva sul collo e poi sul petto a insinuargli le dita tra i bottoni della camicia, e il braccio di lui che le cingeva la vita, accarezzandola come soprappensiero. Damien ascoltava divertito ciò che lei gli stava raccontando, sussurrandogli all’orecchio; un sorriso malizioso gli piegò le labbra quando lei finì di parlare e gli affondò la testa nel collo, ridacchiando.

 

 “Se continuerai a venire qui, e a frequentare questo particolare circolo di disadattati, assisterai spesso a spettacoli simili….. con attrici diverse - commentò Alan, in modo solo lui potesse sentirlo - io comunque in questi momenti trovo più interessante tenere d’occhio lui.”

 Aggiunse, e con un cenno della testa lo invitò a guardare in direzione di Aidan.

 

 “Vedi, apparentemente è tranquillo, ma ti assicuro che si sta rodendo a morte; se la fanciulla non se ne andrà in fretta, lui finirà con l‘alzarsi dicendo che va a prendersi da bere e sparirà per più di mezz‘ora.”

 Julian non era sicuro di aver inteso bene quello che Alan gli stava dicendo.

 “È….. geloso?”

  “Geloso e stupido. Dovrebbe sapere, anzi, sa benissimo, che non è certo di ragazze come queste che dovrebbe preoccuparsi. Prede troppo facili perché Damien se ne interessi seriamente. Per lui sono una collezione di belle bamboline, ecco tutto. Nemmeno se le porta a letto.”

 “Ma la gelosia spesso non obbedisce alla razionalità.”

 

 Alan annuì, ma non rispose. Razionalità e gelosia, certo.

Lui probabilmente era l’ultimo ad avere il diritto di criticare Aidan e i suoi patemi. Dietrich non amava Julian, e prima o poi lo avrebbe lasciato, ma questo non lo aiutava a sopportare la doppia vita di lui.  Forse perché si rendeva conto che con la stessa facilità Die avrebbe potuto lasciare anche lui. In fondo, pur negandolo a se stesso, sapeva che non avrebbe dovuto essere l’ignaro Julian l’oggetto del suo astio, ma ormai non poteva, o non voleva, tirarsi indietro.

 Osservò Julian, che sembrava assorto nel suo bicchiere, a far ondeggiare quel mezzo dito di rhum che vi era rimasto; quel ragazzo era diverso da come l’aveva pensato. Da come ne aveva sentito parlare da Die,  e da come aveva potuto osservarlo da lontano, l’aveva immaginato viziato, noioso e probabilmente presuntuoso; si era invece trovato davanti una persona affabile, cordiale e un po’ goffa. Era pieno di entusiasmo, e anche di sincerità, sembrava: l’interesse che aveva mostrato, l’apprezzamento e la curiosità per la sua musica, e per lui, non erano forzati, e nemmeno di semplice cortesia.

Era una persona luminosa e limpida, e Alan non lo sopportava. Alan desiderava non sopportarlo; per questo calcava dentro di sé i sentimenti negativi e si ripeteva le bugie cui gli piaceva credere. Doveva farlo, perchè gli bastava distrarsi un poco per trovarsi più a suo agio con lui di quanto avrebbe dovuto essere. Julian era la causa della sua infelicità. Julian non meritava nessuna simpatia.

 “È venuto il momento di cantare.”

Annunciò, abbandonando la compagnia.

 

 

Poco dopo Julian guardava il suo nuovo amico sul palco; Alan diventava una cosa sola con la musica, se ne era accorto già assistendo alle prove, ma ora, durante l’esibizione, ciò veniva moltiplicato fino a rendere impossibile distogliere gli occhi. La sua voce intensa, profonda, era ipnotizzante; era ghiaccio, luna, fuoco e nebbia, era tutto ciò che si accorda con l’oscurità e le passioni totalizzanti. Ma era musica anche il suo modo di muoversi, l’espressione sul suo volto, i gesti e gli sguardi, i mezzi sorrisi seducenti; sul palco lui era libero, poteva mostrarsi completamente, con rabbia, malinconia, sensualità, tormento e gelosia, ammaliando tutti, intoccabile.

 Pochi se ne rendevano conto, solo quelli che lo conoscevano meglio, il che si riduceva a Damien e Aidan (e Dietrich, naturalmente), ma nonostante le apparenze, Alan era insicuro, ed era l’insicurezza a renderlo scontroso e aggressivo, perennemente sulla difensiva, sempre il primo ad attaccare. Lui stesso sapeva che quel lato ombroso del suo carattere non era altro che fragilità, ma ciò serviva solo a irruvidirlo ancora di più.

Ma quando cantava….. quando cantava era come se si liberasse di un’armatura, e diventasse più forte proprio mettendosi a nudo. Era stato così, su quel palco, che Alan aveva attirato la bramosia di Dietrich, cambiando la propria vita, e lì ora incantava un ragazzo che di Dietrich era l’opposto.

Mentre cantava incrociò lo sguardo con quello di Julian; un incontrarsi  che si prolungò senza che se ne rendesse conto.

< La mia vita sta per cambiare ancora.>

 Si disse, ed aveva ragione.  

 

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   Aidan si sentiva leggermente stordito dal fumo dolciastro delle narcotiche sigarette all’oppio di Damien. Già la terza quella sera: due fumate al locale, una accesa appena salito in macchina. Troppe, qualcosa non andava. Fermo al semaforo tolse gli occhi dalla strada e guardò l’amico, in attesa. Sperava che  capisse la domanda non espressa, e gli dicesse cosa lo preoccupava; non fu così. Sicuramente Damien comprese il suo silenzio, ma invece di parlare gli offrì la sigaretta per condividere qualche tiro.

 

“Sai che non fumo quella roba. Non dovresti farlo nemmeno tu.”

 L’altro si strinse nelle spalle e aspirò una lenta boccata; fece passare il fumo caldo nei polmoni, lo soffiò dalle narici. Guardava davanti a sé, assente, o assorto, come se i suoi occhi stessero fissando qualcosa di molto lontano, nel buio.

 

 “Una bella notte, non credi?”

 

Bella? Aidan non capì da dove arrivasse la considerazione, o il suo perché: una leggera nebbiolina umida, così tipica di quella città, velava ogni cosa. Damien finì la sigaretta e gettò il mozzicone dal finestrino.

 

 “Proprio bella.”

 

Ripeté con un sorriso strano. Allora Aidan ricordò, e si rese conto che quella notte era un anniversario. Due anni prima, il fratello di Damien…..

 

 “Cazzo.”

Mormorò, mentre una morsa fredda gli stringeva lo stomaco. Il sorriso di Damien si aprì ancor di più.

 

 “Non ho voglia di tornare a casa - disse - Andiamo al solito posto.”

 

E anche se significava dire addio alle ultime ore di sonno che gli restavano, obbedì; quando il semaforo diede via libera si diresse verso il mare.

 

***

 

 

Il lungomare era quasi deserto; facevano loro da sottofondo il rumore della risacca, la musica proveniente dall’autoradio, qualche auto che passava. Nel silenzio che condivisero per alcuni minuti Aidan si chiese cosa stesse provando Damien. Cosa avesse provato due anni prima, quando fu chiamato a riconoscere il cadavere di Noel.

 Noel, che era il maggiore dei due fratelli, anche se solo di poco più di un anno, e che era fragile, arrendevole, così diverso da Damien. Insicuro, vulnerabile e troppo dolce e fiducioso per stare al mondo senza riempirsi di lividi. A Damien si aggrappava, e tutto ciò che Damien voleva era proteggerlo, vederlo felice. Erano legati intimamente come fossero gemelli, e per gemelli molto spesso li scambiavano, vista la profonda somiglianza.

Per questo alla morte di Noel Aidan aveva temuto di vedere il suo amico, l’amico che amava già da anni, andare in pezzi. Ma Damien non aveva nemmeno vacillato. Non allora, non in quei due anni, ed anche se quando <l’incidente> era successo i rapporti tra i due fratelli si erano fatti difficili, lui non aveva trovato né sana né normale quella freddezza, quell’autocontrollo disumano.

 

 “L’ho sognato, ieri notte. Non era mai capitato. - annunciò Damien, senza guardarlo. - E avrei preferito che continuasse a non capitare.”

 “Vuoi raccontare?”

 “No.”

 

Damien alzò il viso al cielo e sulle sue labbra tornò quello strano, spiacevole sorriso.

 “Gli avevo voltato le spalle.”

Una manciata di parole che a parer suo  spiegavano tutto; aveva lasciato Noel ad annegare in problemi e dolori troppo vasti per lui, e lo aveva fatto per qualcosa di stupido come la ripicca e la gelosia. La mano andò ancora una volta alla tasca, a trarre la borsa del tabacco; ma sentì un’altra mano chiudersi sul suo polso.

 “Ehi. Basta.”

 

Aidan sotto le dita sentì i muscoli di Damien tendersi, e poi rilassarsi; gli lasciò lentamente andare il polso e si sentì sollevato quando il biondo incrociò le braccia sul petto, rivolgendogli un’occhiata tediata.

 

 “Il tuo buonsenso è noioso.”

 “Lascia stare il mio buonsenso; prima di tutto non credo affatto alla sua esistenza. Allora, un sogno non è certo sufficiente a scuoterti i nervi; davvero non vuoi parlarmene?….. No, la risposta te la leggo già in faccia.”

 “Il sogno non c’entra: so benissimo da dove arrivava e che significava. E se mi ha fatto passare il resto della notte insonne è perché riguardava anche Fabian. No, è che per la prima volta mi sono chiesto se avrei potuto fare qualcosa per evitare che succedesse tutto. Per impedire che Noel riuscisse così brillantemente a farsi ammazzare. Ho pensato a come potrebbe essere se lui fosse ancora vivo.”

 “Damien, lui aveva un esaurimento nervoso. Quello che gli serviva era uno psichiatra.”

 “Vero, ma sarei stato io a dovercelo portare. Heh. Quando morì ero irritato con lui, lo presi come un dispetto nei miei confronti. Oh sì, mi aveva fatto un gran piacere facendo saltare la testa a Christine, ma mi aveva anche buttato addosso un cumulo di beghe e responsabilità che non desideravo affatto. Pensai a lui come a un idiota. Non è stato molto fraterno da parte mia….. Mi chiedo come sia stato possibile che i miei sentimenti per lui si deteriorassero a un tal livello di marciume. Non mi ero mai fermato a rifletterci, ma ora…..”

 “Non ti devi sentire in colpa.”

 

 Lo interruppe Aidan, notando l’accigliarsi pensieroso dell’altro e temendo di vederlo sprofondare nella melanconia; un dolore lasciato invecchiare senza sfogo per due anni diventava molto più amaro e penoso del normale. Era pronto ad offrire un abbraccio caldo e sicuro, e a ripetere quelle parole di rassicurazione fino alla nausea, ma Damien si girò verso di lui, e sul suo viso non c’era sofferenza, ma stupore. E infine divertimento, quando scoppiò in una breve, incredula risata.

 

 “Sentirmi in colpa? Non potresti essere più lontano dal vero! Fammi finire. Riflettendo mi sono reso conto che la mia vita attuale….. questa condizione di pienezza che rende la mia esistenza quasi perfetta, quasi serena, almeno per i miei canoni….. è diretta conseguenza della dipartita di Noel. Se lui fosse vivo, non avrei ciò che ho. Dunque volevo chiedere a te, che incarni così tante ottime virtù, e che ci tieni a essere il custode della mia vita e della mia anima….. “

 

Aidan rabbrividì nel sentire la mano fredda di Damien insinuarsi sotto i suoi capelli lunghi, ad accarezzargli il collo, e nello scorgere  totale sincerità nei suoi occhi e nella sua voce:

 

 “……è particolarmente immorale essere felici della morte del proprio fratello?”

 

 

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