IL PRINCIPE AZZURRO -  5  

 

Di Unmei




Detestava le notti in cui si sentiva così: inquieto, fragile, rabbioso. E perso.

Aveva solo voglia di silenzio e buio, mentre a occhi sbarrati attendeva il sonno. Sentiva il bisogno di scaricare i sensi, di annullarsi quietamente in un limbo che gli permettesse di dimenticare se stesso, gli altri, tutto il mondo che continuava ad esserci dietro la porta e che ancora lo avrebbe fagocitato il giorno successivo. Intanto si augurava di addormentarsi presto, e non provare più il tagliente senso di delusione che l'amareggiava. Non si era aspettato che Dietrich andasse ad ascoltarlo, due giorni prima, anche se in fondo aveva continuato testardamente (stupidamente) a sperarlo. D'altra parte non si faceva vivo da più di quarantotto ore nemmeno con una telefonata….. si fosse limitato a disertare il locale sarebbe stato un atto di grazia.

<Non mi piace il genere di musica che suoni.>

Ecco, glielo aveva detto senza mezzi termini. In realtà lui aveva l'impressione che Die non amasse la musica in generale, o almeno che fosse del tutto indifferente ad essa, ma ciò non toglieva che almeno per fargli piacere avrebbe potuto presentarsi, qualche volta, e dimostrare un minimo di interesse, anche fasullo. Alan aveva del talento, e scriveva belle canzoni a quanto gli dicevano. Una voce particolare ed avvolgente, che spesso al primo impatto spiazzava, confondendo le idee….. era piacevole, o dava i brividi? Era un cantare da angelo caduto, o meglio, da angelo che stava volontariamente e dolorosamente abbandonando i cieli ed era così ammaliante che seguirlo sembrava l'unica scelta possibile.
Suonare era per lui come respirare, forse ancor più fondamentale. Era un bisogno viscerale. Una capacità innata, sviluppata all'inizio quasi esclusivamente da autodidatta, da quella volta che, bambino, aveva preso la chitarra di suo padre e dopo averne sperimentato i suoni aveva cercato di riprodurre ciò che egli strimpellava, o che sentiva alla radio. E ci era riuscito pressoché del tutto, senza l'aiuto di nessuno; era stato invece suo padre a insegnargli a leggere le note e comporre musica, e poi la scuola a perfezionarlo, ma ogni volta lui aveva bruciato le tappe, superando in fretta i maestri.
Aveva talento, molto, e quasi nessuno capiva perché non cercasse di sfruttarlo come meritava: anche se era accompagnato da un gruppo, era lui solo quello che spiccava come una fiamma nel buio, era lui che la gente andava a sentire. Gli altri membri erano musicisti in gamba, ma ordinari, senza molto carisma; lui era l'anima.
Perché limitarsi a suonare solo in qualche locale, e non cercare di farsi strada? Perché, per dio, aveva rinunciato all'offerta di un talent scout, prendendolo addirittura a pugni quando quello si era fatto troppo insistente nel cercar di fargli cambiare idea? Beh, in parte non ne era certo nemmeno lui. Forse il desiderio di essere lasciato in pace, tranquillo nel suo niente, con la sicurezza di essere il migliore al Diadokon piuttosto che uno qualsiasi sulla scena musicale. O magari era la paura di fallire clamorosamente….. o, ed era l’ipotesi peggiore, temeva di stancarsi della musica e delle canzoni, di perdere così il suo rifugio. Ma in fondo ad ogni giustificazione che si dava c'era sempre della banalissima sfiducia in se stesso.

Si rigirò nel letto e tornò con il pensiero a Dietrich. Un tipo così doveva certo esserci arrivato per sbaglio, al Diadokon, perché non riusciva a pensare ad un posto meno adatto a lui. Alla ricerca di un locale dove bere qualcosa era casualmente entrato nell'atmosfera gotica, sotterranea e fumosa di quella che per lui era praticamente una seconda casa, ma di certo non ne sarebbe mai diventato frequentatore abituale. La ricordava bene, la sera in cui si erano incontrati; anche allora aveva cantato, e dal palco non aveva notato quel ragazzo alto e nordico, solo al bancone. Ma Dietrich evidentemente aveva notato lui.
Più tardi, nella pausa tra un'esibizione e l'altra, anche lui si era avvicinato al banco del bar e aveva buttato giù in fretta del metzcal. Ne aveva versato il fondo nello scolatoio, ormai pieno, che correva lungo il bancone. Sorridendo, aveva dato fuoco a tutti quei rimasugli alcolici; le fiamme erano divampate subito, gettandogli bagliori rossastri sulle mani, e calore sul viso.
Allora si era accorto che Dietrich lo stava osservando, e così illuminato dal fuoco avrebbe potuto essere un emissario dell'inferno: superbo, bello, pronto a tentarti, e a portarsi via la tua anima. Era rimasto a fissarlo di rimando, stranito, curioso, immobilizzato, e quello aveva sostenuto il suo sguardo con tanta forza ed intensità che alla fine era stato lui a distogliere gli occhi. E non gli era mai successo prima, con nessun altro. Beh, a parte Damien, ma lui era un caso particolare.

Ma non si erano parlati, in quel momento, a mala pena s'erano avvicinati. Lui allora aveva un bisogno più forte del fascino di qualsiasi uomo. Un mostro che lo stava divorando, su cui non aveva alcun controllo, anche se ancora cercava di illudersi di essere il più forte; un mostro al quale ormai ogni giorno si offriva in sacrificio. Già le sue mani tremavano e la bocca gli bruciava, in una sete soverchiante, che a volte tentava di contenere ma che sempre finiva con il vincerlo. Un'aspettativa che lo rendeva irrequieto e aggressivo, che riusciva ad annullare la sua volontà.

Abbandonò lo sgabello su cui sedeva e andò ad uno dei tavoli più isolati del locale, lontano dal palco e dalla pista, poca luce e nessuno che badava a cosa stesse facendo il vicino, in un tacito accordo di non ficcare il naso. Un foglio di stagnola, un accendino e la bustina di neve, e poteva iniziare la caccia al dragone. Inspirare profondamente i fumi sottili e abbandonarsi nella poltrona, sentendo il cuore battere più veloce, e il respiro andargli dietro, e ogni più piccola connessione del suo cervello farsi più ricettiva, eccitarsi, elettrizzarsi allo spasmo. Un sorriso esaltato nasceva e si fissava sul suo volto, mentre l'adrenalina saliva a picco, la dopamina iniziava a fare il suo lavoro e l'eccitazione arrivava a passare dal mentale al fisico, gonfiandogli i pantaloni in un'erezione. Si sentiva frenetico e capace di qualunque cosa, invincibile ed immortale….. si sentiva pronto per tornare sul palco e conquistare tutto il mondo….. si sentiva bene. Non c'era niente, assolutamente nulla, che avrebbe scambiato con quelle sensazioni: così pensava a quei tempi, che non erano nemmeno molto lontani. Poteva facilmente fare a meno alle allucinazioni folli che regalavano gli acidi: bei sogni scintillanti di colori inimmaginabili, o incubi terrifici nati dalle pieghe più remote del suo cuore.
Poteva rinunciare al denso oblio senza tempo e luogo del sonno indotto dall'alcool, ma non alla coca. e alla forza che gli infondeva.

E poi Dietrich gli aveva fatto cambiare idea. Con il disprezzo.
"Un altro vigliacco in fuga da se stesso."
Gli aveva detto, con un sogghigno di scherno, passandogli accanto quella sera. Ed era andato da lui apposta, con tutta l'intenzione di provocarlo, perché non aveva motivo di passare di lì, dove non c'era nulla se non quei bui rifugi. Aveva sentito quelle parole, ma non vi aveva dato peso; mai lo faceva, quando qualcuno criticava il suo comportamento. Non era importante cosa ne pensasse Aidan….. uno che non si era nemmeno mai sbronzato che ne poteva sapere di certe sensazioni? In quanto a Damien, era l'ultimo a poter parlare, in fatto di comportamenti autolesionisti. Ciò che quello sconosciuto pensava di lui gli scorreva addosso senza lasciare segno.

Chi avrebbe potuto immaginare che invece, poi, sarebbero diventati così importanti il suo giudizio e la sua approvazione? E anche solo la sua semplice vicinanza.
Ricordò ancora, nella notte sempre più silenziosa, quando quell'altra notte ormai lontana due anni, finito l'effetto eccitante della droga, era uscito dal Diadokon. Stordito e privo d'energie, stava velocemente precipitando verso l'abisso, verso la depressione e la stanchezza che si facevano mille volte peggiori, dopo aver toccato il cielo ed essersi seduto più in alto di dio. Non aveva più soldi né roba, l'unica cosa che poteva fare era tornare velocemente a casa e chiudersi in un tremante bozzolo di lenzuola e coperte, raggomitolato come un feto….. addormentarsi, mettere fine al dolore e all'angoscia che già stavano allungando gli artigli su di lui. Quei mostri che riusciva ad allontanare da sé erano sempre lì ad aspettarlo, più forti che mai, una volta uscito dal suo velenoso paradiso.
Ma quella volta un altro mostro lo attendeva….. un mostro affascinante che lo seguì fuori dal locale, fin dove lui aveva lasciato la sua moto, che lo aveva afferrato per un braccio stringendolo così forte da far sbocciare neri fiori di lividi, ore dopo. Lo aveva fatto voltare verso di sé bruscamente, tanto da rischiare di fargli perdere l'equilibrio, infliggendo una dolorosa sferzata al suo già penoso mal di testa.

"Ci sarai anche domani."
Aveva detto, e non era una domanda. Lui aveva risposto con uno stanco cenno di diniego, perché in quel momento desiderava solo seppellirsi da qualche parte e il domani gli sembrava qualcosa di più irraggiungibile del sole.
Ma Dietrich da subito aveva dimostrato di non accettare rifiuti; ripeté il suo ordine, stringendogli il mento in una mano e scandendo inflessibilmente le parole, a un fiato dalle sue labbra, aggiungendo:
"E non prenderai quella merda."
Se ne era andato, senza aggiungere altro, senza presentarsi, senza spiegazioni. E lui senza sapere perché gli aveva obbedito, per la prima di tante altre volte. Gli aveva obbedito, anche se si era sentito impazzire dal bisogno di un po' di coca….. gli aveva obbedito, quando l'aveva obbligato ad attraversare l'inferno a piedi nudi, facendolo quasi morire, per disintossicarsi.
Ora che aveva preso la decisione di ribellarsi preferiva non pensare al prezzo che rischiava di dover pagare.

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Stessa notte, altro letto. Erano le due passate e Damien non aveva sonno, nonostante la stanchezza. Passava il tempo leggendo, ma era distratto; faceva correre gli occhi sulle parole senza badare al senso, in modo meccanico e superficiale. Quando si accorse di aver finito una dozzina di pagine, senza quasi ricordare cosa in esse fosse accaduto e perché, si sentì molto seccato con se stesso. Non era da lui perdere la concentrazione in quel modo, ma sapeva benissimo che quando il suo cervello non voleva collaborare era inutile insistere.
Ripose Chatwin sul comodino e smorzò la luce della lampada da lettura, riducendolo a un lume fioco, infine si abbandonò sui cuscini con gli occhi socchiusi.

Gli piaceva ascoltare il respiro tranquillo di Fabian, che gli dormiva accanto; quel suono vicino sapeva riempire un grande vuoto, e gli era così familiare, rassicurante, che ormai dubitava di poterne fare a meno. Il bambino aveva una camera e un letto suo, colmo di pupazzi, cuscini e morbide trapunte colorate, ma ci saliva solo per saltarci, giocare e creare il suo piccolo caos personale. Al momento di andare a dormire non c'era verso di fargli passare la notte da solo: le volte che aveva provato a metterlo a letto nella sua stanza infantile se l'era ritrovato accanto al mattino, con suo grande stupore. Visto che pareva non esserci altra soluzione aveva deciso infine di tenerlo con sé tutte le notti, dandogli proprietà ufficiale di metà del letto e del relativo comodino. Il cucciolo sconfinava quasi ogni volta dal suo lato del materasso, gli si raggomitolava contro il petto o gli stringeva il braccio, o almeno la mano, rendendolo prigioniero di una schiavitù che a lui non dispiaceva….. non era poi male fare le veci di un orsacchiotto di peluche.

Eppure quel bambino non era stato ben accolto, al suo venire al mondo…… da una madre che non lo desiderava, e da un padre che non era pronto ad esser tale. Ringraziava che Fabian non serbasse ricordi di una donna che nemmeno voleva prenderlo in braccio, e che rabbiosa gli urlava di stare zitto, insultandolo, quando piangeva, nonostante fosse uno scricciolo di una manciata di mesi. Ma ancor più benediceva il fatto che non sapeva, né mai avrebbe saputo, che lui all'inizio lo aveva considerato un invasore nella sua vita, una seccatura, un intralcio. Il primo sguardo a quel bambino, neonato, era stato d'indifferenza……e poi, dopo, d’insofferenza. Ora che per lui non aveva altro che amore, un sentimento così profondo e totale che non riusciva a tracciarne i confini….. ora si vergognava violentemente di se stesso, del suo egoismo cieco.
Si girò su un fianco, cingendo con un braccio il suo cucciolo, d'istinto, avvicinandosi a lui, e chiuse gli occhi anche se continuava a non sentirsi assonnato. Dopo un po' sentì Fabian muoversi, poi sedersi, accendere la luce e chiamarlo, sussurrando. Non diede risposta, facendo finta di dormire, fin quando il bambino prese a scuoterlo, proclamando di avere fame.

"Dai, dai! Lo so che sei sveglio! Stai sorridendo!"
"Sorrido nel sonno."
Rispose, con una voce monotona.
"Ma parli anche!"
Mise tutta la sua infantile energia nel voltare Damien sulla schiena, e lui divertito lo lasciò fare anche quando gli sedette a cavalcioni sul petto e gli aprì a forza gli occhi, guardandolo naso contro naso.

"Voglio qualcosa! Senti, ho la pancia che fa rumore!"
"Se tu avessi mangiato a cena non lo farebbe."
"Ma allora non avevo fame."
La giustificazione venne espressa con tono serissimo, e quella logica bambinesca era in fondo ineccepibile. Con un movimento veloce e fluido Damien si alzò, e con Fabian sotto braccio come un pacco si avviò alla cucina.

Come cuoco valeva poco, ed era troppo pigro per imparare a cucinare. Costituiva il cliente ideale dei take-away e delle ditte di cibi pronti, surgelati e liofilizzati, ed essendo un tipo senza troppe pretese, dal punto di vista alimentare, trovava ugualmente attraenti e di pari dignità le ali di pollo fritte e l’aragosta in bellavista. Si mise a preparare un paio di hotdog, mentre il bambino gli stava attaccato alle ginocchia, chiedendogli di aggiungerne almeno ancora uno, caso mai avessero avuto ancora fame. Sentiva di non avere abbastanza energie per obiettare e fece come gli veniva chiesto, optò anzi per aggiungerne un quarto all’olio sfrigolante. Si accorse della mancanza di un ingrediente fondamentale solo quando ormai il pasto era pronto.

"Ah, maledizione! E' finita la senape! E come si fa, ora?"
Disse con tono esageratamente drammatico, emergendo afflitto dai meandri del frigorifero.
"Li mangiamo senza."
"Certo che no, senza non sono commestibili. Scendi un po' da Aidan a fattela dare da lui: dovrà pur rendersi utile, una volta nella vita."

Fabian obbedì, e uscì dall'appartamento, scendendo le scale a saltelli, canticchiando. Aidan gli piaceva; era sempre gentile con lui. A volte lo faceva giocare, la sera, quando Damien si concentrava sulla scrittura e sembrava vivere in un altro mondo.
Capitava anche che lo tenesse con sé in negozio quando Damien era a scuola e la ‘nonna adottiva’ non poteva occuparsi di lui. Lui adorava stare lì: gli faceva ascoltare le canzoni che preferiva, e a pranzo gli comprava sempre quello che voleva….. gli permetteva anche di rimpinzarsi di Mars, ed era il loro piccolo segreto, perché in realtà gli era vietato mangiarne più di uno la settimana.
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Ma ancora di più gli piaceva quando erano tutti e tre insieme. Quando lo portavano al cinema, al parco o a fare la spesa, e lui riusciva sempre a farsi fare qualche regalo. Adorava anche stare semplicemente a casa con loro, sul divano a guardare insieme vecchi film dell’orrore. In effetti lui passava più di metà del tempo a coprirsi il viso, sbirciando un po' fra le dita e saltando in braccio all'uno o all'altro nei momenti peggiori; però non c'era modo di convincerlo a vedere qualcosa di più adatto a un bambino.
"Sono grande, io!"
Esclamava indignato se gli proponevano di lasciar stare la tv e andarsene a nanna.
Pensò che sarebbe stato bello vivere tutti e tre insieme….. ne sarebbe stato felicissimo, e lo aveva anche detto a Damien, una volta, ma lui aveva solo esclamato 'Oh Krishna misericordioso!' senza smettere di scrivere e senza dare altra risposta.

Poi, con un salto fece tre gradini, e scampanellò alla porta del suo amico.

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"Fabian! Ti avevo detto di portare qui la sua senape, non lui tutto intero!"
Esclamò il biondo quando davanti gli comparve il piccolo per mano ad Aidan, che aveva un’espressione non del tutto presente, e al contempo vagamente assassina. Egli barcollò, gli consegnò bruscamente il vasetto e grugnì qualcosa di non molto comprensibile, in cui si riuscì a malapena a distinguere un riferimento all'ora tarda e all'alzarsi presto. A Damien sembrò di cogliere anche un qualche pittoresco insulto rivolto alla sua squisita persona, cosa quanto mai seccante, tuttavia non dimenticò le regole dell'ospitalità.

"Visto che ormai sei qui, se vuoi favorire accomodati. Ho anche la tua birra preferita."
Lo invitò, e Aidan, nonostante stesse dormendo in piedi, gli scoccò un'ultima occhiata che riuscì a esser al contempo annebbiata e fulminante. Fece meccanicamente dietro front, sbatté contro lo stipite, ritentò, riuscì a prendere l'uscita della stanza e chiuse la porta della cucina dietro di sé, senza dire una parola. Damien scosse le spalle e posò la senape sul tavolo.

"Quel tipo diventa sempre più strano."
Commentò, mentre il cucciolo attaccava entusiasta lo spuntino notturno; mise un po' di musica, a volume basso. Non tanto rispetto all'ora tarda: non aveva pensieri da soffocare o da esaltare, voleva solo una compagnia lieve, un gentile sussurrare che calmasse la vivacità di Fabian e magari aiutasse lui a sciogliere il grumo di pensieri indefiniti che quella sera lo tenevano sveglio. Gli adagi di Bach erano da sempre un balsamo per la sua inquietudine, anche se talvolta finivano col destare emozioni più forti e destabilizzanti di quelle che avrebbero dovuto placare. Le note morbide lo carezzarono, e le ascoltò ad occhi socchiusi e con un sorriso che sebbene sulle sue labbra non poteva esser colto, c'era. Sedette a tavola anche lui, versandosi da bere, mentre Fabian, ispirato dalla musica, gli raccontava che da grande sarebbe diventato un direttore d'orchestra….. anche se lui lo aveva definito 'uno di quelli che agitano la bacchetta e fanno suonare gli altri.' Tale carriera musicale andava ad aggiungersi a quelle in precedenza prospettate di poliziotto in motocicletta, venditore di giocattoli e 'Indiana Jones'.
Notò che il pargolo, a metà del secondo hotdog, stava cominciando a sbadigliare e decise che era il momento di rimetterlo a dormire. Lo fece desistere dell'idea di guardare uno dei suoi svariati dvd di cartoni animati, fecero tappa in bagno a lavarsi i denti e lo riportò in camera.
Dove trovò Aidan profondamente addormentato. Dalla sua parte di letto, per di più. Fabian ridacchiò e si avvicinò per osservare meglio il suo viso, pacifico nel sonno.

"Non era tornato a casa sua!"
"Già, e questa è praticamente invasione di domicilio. Lo sveglierei con un bicchiere d'acqua fredda in faccia, ma non mi va di allagare il letto. Cosa dici, rovescio il materasso e lo faccio cadere? O prima lo soffoco con un cuscino?"
"Ma no, poverino! Non possiamo lasciarlo dormire qui?"
"Qui? Così finisce che pensa di poter fare tutto quello che vuole. Poi è difficile riaddestrarli, se prendono delle cattive abitudini."
"Oh, per favore! Io posso stare in mezzo."
Damien si strinse nelle spalle, dichiarando sconfitta; la lotta era impari, contro il musetto di Fabian non c'era battaglia.
"Giù a dormire adesso. E subito."
Si infilò anche lui sotto le lenzuola e lanciò un'occhiata sardonica all'amico beatamente addormentato.
"Che sfortuna, per te - si sporse a sussurrargli all'orecchio - prima e unica volta riesci ad infilarti nel mio letto, e non avrai nulla da ricordare."

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Aidan sapeva che sarebbe stata una lunga giornata, per colpa del suo pessimo inizio, che era stato addirittura doppio. Aveva il vago ricordo di essere stato svegliato una prima volta in piena notte da una spaventosa cacofonia di suoni, che poi si era rivelata essere semplicemente il suo campanello suonato allegramente al ritmo di yankee doodle.
Poi solo qualche immagine annebbiata fino all'altro risveglio, ancora peggiore, al mattino: un'assordante tromba da stadio che lo aveva fatto sobbalzare terrorizzato con il respiro mozzo, il cuore in gola e la convinzione di un imminente bombardamento aereo, o del giudizio universale alle porte. Stava per buttarsi giù dal letto alla ricerca di un rifugio sotterraneo quando la mente gli si snebbiò e si rese conto di non essere nella propria camera. Dalla porta Damien lo guardava; aveva in mano quell'allucinante sveglia da psicopatico e un adeguato sorriso sulle labbra. Era già pronto per uscire: un completo di velluto nero, una camicia di seta viola funereo, i capelli legati e al lobo sinistro un orecchino d'argento che altro non era se non un piccolo, perfetto scheletro accuratamente articolato, dono di una delle pudiche fanciulle che al locale ronzavano intorno al bel biondo e solevano mostrargli la loro simpatia saltandogli in braccio o sbattendogli le tette in faccia. O tutte e due le cose assieme.

"Sei pregato di rifare il letto - gli aveva detto in tono annoiato - di lavare i piatti e di portare il bambino dalla signora Steine. Per il resto fai come se fossi a casa tua, ma tieni le mani lontane dal cassetto della biancheria intima e dai miei vestiti in generale; con voi pervertiti non si sa mai. Ti ho lasciato un accappatoio pulito in bagno; la colazione è già pronta e in caldo. Buona giornata."

E se ne era andato senza attendere risposta, come al solito un perfetto ibrido di stronzaggine molesta e ospitalità. In ogni caso, per lui che aveva bisogno di almeno un quarto d'ora per rigirarsi pigramente in stato comatoso tra le coperte, prima di ritrovare la lucidità e alzarsi, essere svegliato a quel modo era dir poco traumatico . Beh, a pensarci bene lo sarebbe stato per chiunque.

Ora, mentre sballava e sistemava i nuovi arrivi, tendeva l'orecchio alla conversazione che Alan stava avendo con quel tipo, come si chiamava?….. Julian. Il ragazzo era passato a ritirare i dischi che aveva fatto mettere da parte e poi i due avevano iniziato a discutere con crescente entusiasmo di musica e artisti, specialmente vecchie glorie. Era da un pezzo che andavano avanti quando colse la voce del cliente pronunciare il termine Bauhaus e sospirò: la parola magica era stata pronunciata, ora davvero Alan avrebbe parlato a ruota libera senza più fermarsi, a meno che qualcuno non gli fosse giunto alle spalle con una mazza da baseball. Ciò che era peggio, in questo caso particolare, era che sembrava aver trovato un suo simile….. però facevano quasi tenerezza, con quel loro entusiasmo.

"E il loro concerto del '98? Cazzo, non avrei mai creduto che in vita mia sarei mai riuscito a vederli suonare dal vivo, si erano sciolti nell'83, e allora a malapena camminavo…."
"Il concerto a Hollywood, dici?"
"Sì, precisamente la serata all'Athletic Club."
"C'ero anch'io!"
"Davvero?"
"Certo! Scappai di casa per andarci, e pensa che abitavo dall'altra parte degli Stati Uniti, allora. Mio padre mi aveva negato permesso e soldi, così una notte gli ripulii il portafoglio e salii sul primo aereo. Mi costò quasi l'esilio in accademia militare, ma ne valse la pena….. fu un concerto pazzesco, indimenticabile!"
"Un'esperienza mistica, leggendaria….."
"Al di sopra di ogni aspettativa! Quando iniziarono ancora non credevo di esserci veramente….."
“Se ci ripenso di emoziono ancora…..”
"Attaccarono con Double Dear, me lo ricordo benissimo. Potrei ripeterti tutta la scaletta."
“Lo hai il live, vero?”
“Ma cer-“

A-ehm.”
Si schiarì la voce Aidan, prima che i due cominciassero a somigliare troppo ad un paio di ragazzine alle prese con una boy band; gli ci vollero altre tre o quattro schiarite sempre più rumorose prima di riuscire a guadagnare la loro attenzione.

“Alan, tu non dovevi andare in carrozzeria per finire quell’aerografia, stamattina?”
"Oh. Certo, sì. Me lo ricordavo benissimo."
Affermò quello disinvoltamente, sbattendo un paio di volte le palpebre, e se dicesse il vero o mentisse non era dato sapere.
"E non sarebbe meglio se ci andassi, magari?"
"Si direbbe quasi che tu voglia sbattermi fuori."
"Sarà una tua impressione.”
“Me ne vado, me ne vado – accondiscese, e guardò Julian – Se ti va di accompagnarmi continuiamo il discorso, il posto è qui vicino, possiamo andare a piedi.”

E Julian che poteva fare, se non accettare? Era rimasto affascinato da quel ragazzo. Lo aveva appena conosciuto, vero, però parlare con lui gli piaceva; gli piaceva il suo modo di far ruotare l’anello d’argento che portava al pollice, e l’entusiasmo per la musica che gli accendeva gli occhi.

***

“È il tuo lavoro?”
“L’aerografia, dici? No. Non proprio, non ho un vero lavoro: è per mettere insieme un po’ di soldi…..ora sto facendo il furgone di un tizio, uno che ha voluto questa specie di harem di procaci donnine nude, con ghepardi e cobra a dare un tocco esotico. Una cosa di un pessimo gusto quasi sovrannaturale, ma nonostante la ribellione del mio senso estetico ho accettato, sai com’è….. con l'amor proprio non si mangia.”
Julian sorrise; in realtà non lo sapeva affatto, com’era. Lui non si era mai trovato nella necessità di guadagnare, di cercarsi un lavoro o solo di arrabattarsi alla buona: era sempre stato suo padre a mantenerlo, comodamente e abbondantemente. In momenti come quello, di fronte alla capacità degli altri di vivere con le proprie forze, si sentiva davvero male con se stesso, debole e viziato. Ciononostante rispose:
“Sì, ti capisco.”
“Non mi lamento, comunque. Ce n’è abbastanza di gente che viene a chiedermi di decorargli la macchina, la moto, o quel che è; a quanto pare mi sto facendo un nome. Poi a volte do una mano ad Aidan in negozio, anche se lui sostiene che lo faccia solo per ascoltare gratis le nuove uscite. Non mi paga, e nemmeno lo vorrei; con lui guadagno solo qualche pasto e le corde per la chitarra. Infine ci sono i compensi per le serate in cui suono….. vita instabile, insomma.”
"Sei un musicista! - esclamò l'altro con entusiasmo - mi piacerebbe sentirti!"
Poi, vedendo l'aria stupita di Alan, Julian pensò di essere stato troppo invadente e cercò di giustificarsi.
"Beh, io….. visto che abbiamo dei gusti simili pensavo che la tua musica molto probabilmente mi piacerebbe, e così…..ovviamente se non hai nulla in contrario….. vorrei ascoltare qualche tua canzone."

Alan era meravigliato e compiaciuto in egual misura. Conquistare la simpatia di Julian era il suo obiettivo, ma non immaginava che ciò sarebbe avvenuto così in fretta, con tanta facilità e senza nemmeno doversi sforzare a recitare. Strano accorgersene così, ma le parole gli erano uscite di bocca senza sforzo e con vero interesse; la conversazione era stata piacevole, per quanto fosse restio ad ammetterlo, tanto che per un momento quasi s'era dimenticato del suo vero proposito.
D'accordo, il ragazzo poteva anche avere qualche vago, insignificante pregio, sforzandosi di cercare bene, ma non sarebbero stati un paio di miti musicali in comune e qualche chiacchiera divertente a fargli abbandonare i suoi piani.
Già, i suoi piani….. quali, di preciso? Benché fosse ben deciso a separare l'essere inutile da Dietrich in realtà non aveva elaborato un schema vero e proprio. Avvicinarlo, certo, ma poi che fare? L'eliminazione fisica era fuori discussione, per ovvi motivi….. a meno che non sembrasse un incidente. No, no! In fondo uno straccio di moralità la possedeva pure lui, e ci teneva a preservarla.
Spiegargli senza mezzi termini qual era il gioco di Dietrich, invitandolo a levarsi dai piedi? Non poteva funzionare: Dietrich ci avrebbe messo meno di cinque minuti a convincere il riccastro di essere l'innocente vittima di uno psicopatico egomaniaco emulo di Glenn Close in Attrazione Fatale. Così prima sarebbe passato per pazzo visionario, dopodichè sarebbe probabilmente stato scaricato da Die. No, per ottenere la loro rottura Julian andava messo davanti ai fatti, davanti al vero Dietrich e alla sua freddezza. Davanti a lui e Die insieme, ed ogni giustificazione sarebbe stata vana, ogni menzogna sarebbe caduta.
Anche così, naturalmente, rischiava di provocare l'ira di Dietrich e d'ottenere un effetto opposto a quello sperato, ma voleva illudersi che sarebbe servito a dimostrargli quanto fosse disposto a fare per averlo solo per sé. E qualunque fosse stato l'esito, almeno avrebbe portato a un cambiamento.
E lui ne aveva davvero bisogno.

 

…continua…..