Il prezzo del sangue

di Afsaneh

 

Il cortile è molto piccolo. Molto più piccolo di quanto pensassi, di quanto non sembri guardando i film americani. Ma qui non siamo in America ed è forse anche giusto che la mia idea sia stata distrutta dalla realtà.

Ho corrotto il direttore per poterlo vedere. Sarà la prima volta che potrò guardarlo in faccia.

Sento parlare di lui, da tutta la mia famiglia, da quanto avevo otto anni. Mi hanno riempito la testa con i loro giudizi per più di dieci anni, senza mai darmi la possibilità di vederlo. Ma se davvero sono solo io che devo fare o meno questa scelta, allora voglio conoscerlo.

Voglio conoscere l’uomo che ha ucciso mio padre e che devo o meno condannare a morte.

La guardia mi indica un ragazzo di ventisei anni - ma ne dimostra molti di più, i capelli tagliati cortissimi, la pelle già naturalmente scura annerita ancor di più dal Sole e dalla polvere. Gioca a carte assieme ad altri carcerati; il sorriso sulle labbra è quello di una persona che non ha un solo pensiero al mondo.

“Lo faccia venire qui, per favore” non lo sto guardando, ma immagino lo sguardo stupito del secondino che però fa come gli ho chiesto. Richiama l’attenzione di un’altra guardia, ed è questa che si avvicina al ragazzo, il quale malvolentieri abbandona la partita che stava evidentemente vincendo.

Si dirige verso di me, dopo l’indicazione della guardia, e alla fine solo una rete metallica ci separerà. Cammina guardandomi negli occhi e man mano che si avvicina il suo sguardo si fa sempre più stupito. Si ferma a poco meno di un passo dalla rete, le mani in tasca, un vago sorriso sulle labbra mentre la vita della prigione continua incurante intorno a noi.

In questi giorni ha sempre fatto molto caldo, quasi non si respirava, ma oggi si è alzato un leggero vento che rende più sopportabile questa calura.

“Sai chi sono?”

Ho vissuto questo momento nella mia testa migliaia, milioni di volte. Ho sognato di prenderlo a pugni; di sputargli in faccia; di chiedergli il perché del suo atto; di sorridergli e annunciargli che non avrebbe mai avuto salva la vita. Invece sono qui, davanti l’assassino di mio padre, e tutto ciò che sono riuscito a chiedergli è se sa chi io sia.

Annuisce e il sorriso scopre dei denti stranamente candidi “Gli somigli. Hai i suoi stessi occhi”

Da quando mio padre è morto la gente non fa che ripetermi di come io sembri la sua copia da giovane - chissà, forse per creare una sorta di legame con lui in modo tale da far nascere in me il desiderio di vendetta? - eppure è solo oggi per la prima volta che credo a queste parole.

Restiamo a guardarci per quelli che a me sembrano minuti eterni. Non riesco a trovare nulla da dire, e lui, nonostante la sua palese curiosità, asseconda il mio silenzio.

Una sirena suona nella prigione, e gli uomini si dirigono verso l’interno. L’ora d’aria a quanto pare è terminata. Anch’io me ne dovrei andare, ma come dovrei comportarmi? Lui è l’assassino di mio padre, cosa dovrei dirgli? E’ stato un piacere? Ci vediamo? E mentre io sono qui ad arrovellarmi su come o meno salutarlo, lui mi sorride e con un cenno della mano a mo’ di saluto si volta per tornare dentro.

In cella. Ad aspettare la mia condanna.

Che vita può mai essere la sua? Me lo chiedo mentre sono sull’autobus che mi riporterà a casa, da mia madre e mia sorella.
Che cosa ha provato quando mi ha visto?
Vorrei tanto saperlo.

Sono il figlio dell’uomo che ha ucciso; sono colui che la corte ha disposto si doveva aspettare la maggiore età perché potesse decidere della sua morte. Come può essersi sentito quando ha capito, ha compreso, il tempo che era trascorso? E, nonostante lo stupore che ha mostrato, era davvero sorpreso? Si sarà chiesto se sarei mai stato in grado di andare da lui?

Mai come in questo momento vorrei saper leggere nella mente di un’altra persona. Ho la sua vita nelle mie mani, un potere che solo Allah dovrebbe avere.

Non so se mi sarebbe realmente utile, ma vorrei conoscere i suoi pensieri. Sapere se è pentito di ciò che ha fatto; il perché del suo gesto; vorrei sapere se pensa di meritare la morte.

“Habibi? Stai bene?”

Mia madre è sulla soglia della porta, chissà da quanto sta guardando, con quell’espressione stupita in faccia, il suo figlio fanatico dello studio con un libro aperto davanti e lo sguardo perso fuori dalla finestra.

Annuisco “Sì, sto bene...” mi sorride e fa per voltarsi “Mamma!” la richiamo bruscamente, lei si gira ed entra nella mia stanza sedendosi sulla poltrona accanto alla porta finestra.

“Io non so...” non riesco a trovare le parole adatte per iniziare il discorso, così, dopo un profondo respiro, le pongo la mia domanda “Qual è la scelta giusta?”

“Solo quella che tu ritieni tale” mi risponde lei con la sua dannata saggezza orientale.

Mi alzo e m’inginocchio ai suoi piedi “Ma se fossi tu al mio posto, quale sarebbe la tua scelta?”

Mi guarda con occhi vuoti, persi nel ricordo di tempi lontani in cui suo marito era vivo, di una vita più agiata e felice “Se avessi dovuto scegliere allora... l’avrei condannato immediatamente e senza alcun pentimento. Erano così forti la rabbia e il dolore dentro di me da non lasciare spazio ad altri sentimenti. La stessa decisione dei giudici aveva aumentato la mia rabbia. Non solo mio marito era morto, ma volevano anche togliermi la... soddisfazione... di vedere il suo assassino ucciso, di avere giustizia” si guarda un po’ attorno, sempre persa dietro ai suoi ricordi “Però, se me lo chiedessero adesso... non so cosa farei. Ad essere onesti una parte di me chiede ancora giustizia per quel ragazzo che ha distrutto la nostra famiglia, ma ce n’è un’altra che si chiede se quella sarebbe davvero giustizia. Io non so perché quel ragazzo abbia ucciso Tishtar e forse se lo sapessi... chissà, forse saprei prendere una decisione più serenamente” ora è come se si risvegliasse, i suoi occhi guardano di nuovo me e il presente “Ma non sono io a dover decidere, habibi. Sei tu a doverlo fare e purtroppo nessuno può aiutarti” si alza chiudendosi la porta alle spalle, mentre dalla finestra aperta mi arriva il rombo delle onde dell’oceano.


“Bentornato Kevan” mi sorride dalla soglia della porta aspettando che la guardia la chiuda, poi, ammanettato, si avvicina e si siede di fronte a me, dall’altra parte del tavolo.

“Come fai a sapere il mio nome?” mi sono irrigidito istintivamente quando lo ha pronunciato. Non dovrebbe conoscerlo.

Posa le mani sul tavolo, il metallo delle manette sul ripiano emette un suono stridulo che mi fa rabbrividire “Come, Kevan?” sembra provare piacere nel pronunciare il mio nome e il suo sorriso si fa più largo “Nello stesso modo in cui tu puoi vedermi. Pagando”

Vorrei saperlo, tutto il mio corpo grida di voler sapere, ma non ho il coraggio di chiedergli quale potrebbe mai essere la moneta di scambio qui dentro. Ho troppa paura della risposta. Abbasso lo sguardo e poi mi guardo intorno. Solo adesso noto la guardia che da un vetro ci osserva.

“Allora? Cosa sei venuto a fare oggi?”

Lo odio.
Odio i suoi modi strafottenti, la sua arroganza, il suo sorriso tranquillo e felice come di una persona che si gode il Sole sul bordo di una piscina in un Club Mediterranée.

Lo odio.
Odio il suo non preoccuparsi della persona che ha di fronte, colui che deciderà della sua vita o della sua morte.

“Perché lo hai fatto?”

Il suo sorriso per un momento vacilla. Si raddrizza sulla sedia e fa cadere le mani in grembo. Rimane in silenzio per un paio di minuti ad occhi chiusi, e quando riporta lo sguardo su di me è pieno di rabbia e... disprezzo?

“Sarebbe molto più semplice per te, non è vero? Se ti raccontassi di una vita triste e miserabile, dove magari io, mia madre e i miei fratelli venivamo picchiati da mio padre. Magari ti sentiresti meglio se ti raccontassi che non mangiavo da giorni quando ho incontrato tuo padre; che gli ho chiesto dei soldi per comprarmi del cibo, e magari me li aveva anche dati, ma a me non bastavano, ne volevo di più, e per il suo rifiuto mi sono infuriato e l’ho ucciso”

I suoi occhi si fanno brillanti, quel maledetto sorriso torna a piegargli le labbra e si sporge verso di me, poggiando le braccia sul ripiano del tavolo.

“Oppure...” la sua voce si fa morbida, quasi fanciullesca “...ero solo un bimbo innocente e tuo padre mi ha offerto dei soldi per passare del tempo con lui, ma quando mi sono reso conto di ciò che voleva ho tentato di scappare, lui si è arrabbiato, ha tentato di violentarmi ed io, per la paura, l’ho ucciso...”

“Smettila!!” urlo e gli tiro un pugno che lo fa cadere dalla sedia, il labbro è spaccato, cola sangue eppure non smette di sorridere “Sei solo un maledetto!!” aggiro il tavolo, avvicinandomi. Lo prendo a calci e il suo corpo si raggomitola in posizione fetale “Sei un lurido bastardo, uno schifoso assassino...”

Una guardia mi afferra sotto le ascelle ed io cerco di divincolarmi “Assassino... meriti la morte... hai capito? Io ti condanno! Io ti condanno a morte!” sono queste le parole che urlo mentre la guardia tenta di portarmi via; mentre lo vedo rialzarsi e nei suoi occhi c’è una luce di cui non riesco a capire il significato.


Lancio un sasso nell’acqua, ma non ne vedo gli effetti perché le onde sono troppo alte. L’oceano è in tempesta e questa notte io sono in spiaggia a pensare.

Ma a cosa dovrei pensare?

La decisione l’ho presa. La decisione che gravava su di me da tutta la vita. L’ho condannato a morte e non posso più tornare indietro. Sono le due di notte e tra meno di dieci ore sarà giustiziato per aver ucciso mio padre.

Ho fatto la scelta più giusta, ne sono sicuro. Per mia madre, per mia sorella, per la mia famiglia. Tutti loro hanno subìto la perdita di mio padre avendone più dolore di quanto io potrò mai comprendere, ed è giusto che finalmente possano voltare pagina e continuare la loro vita.

Io non mi sento sporco, le mie mani non saranno mai macchiate di sangue, assolutamente no! E’ stato lui il primo a sbagliare uccidendo mio padre, io sto solo riportando equilibrio in queste nostre vite. Nulla di più. Nulla di meno.

Ma allora, se sono così sicuro, perché le sue parole continuano a vorticarmi per la mente?

Sarebbe molto più semplice per te... se ti raccontassi...

No, non è vero! Io non volevo alcun racconto, io volevo solo la verità. La verità di quella notte, la verità che ha portato mio padre alla morte.

Come diamine pensava di poter avere il mio perdono con quelle ridicole storie? E’ stato solo capace di farmi infuriare e... ed io per la rabbia l’ho condannato. Io volevo... volevo solo che mi aiutasse, che mi desse qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutarmi a perdonarlo, perché... in fondo...

Mi alzo e scrollo via la sabbia dai pantaloni. E’ tardi, a quest’ora dovrei star dormendo o studiando per l’esame che avrò tra una settimana. Cammino, le mani in tasca e nonostante l’ora incontro un paio di vicini che portano a passeggio i cani. A quest’ora si sta bene, c’è un piacevole venticello e fa quasi freddo. Mi fermo sotto un lampione e prendo il mio portafogli. Lo apro e ne tiro fuori la foto di mio padre.

“Chi sei tu..?” il mio è un sussurro che si perde nel vento, ma la domanda rimane nella mia testa. Io non conosco quest’uomo che tutti dicono essere mio padre. Non conosco la sua voce, il suo modo di comportarsi con gli altri, non so che tipo di padre sarebbe stato; io non so nulla di lui, come faccio a provare un sentimento di giustizia?

Non lo provo.
Non provo nulla per mio padre.
Se fosse stato qualcun altro ad essere stato ucciso per me sarebbe stato uguale. Per me è come se lui avesse ucciso un estraneo.

Guardo la mia casa a meno di centro metri da me. Quando ho detto a mia madre della mia scelta è scoppiata a piangere, penso, felice. Nonostante le sue parole credo che il sentimento di vendetta sia ancora forte in lei. Allora è per mia madre che l’ho fatto? Ho condannato un uomo solo per renderla felice?

Ripongo la foto nel portafogli e riprendo a camminare verso casa.


La piazza è gremita, come ogni volta che si esegue una condanna a morte. Mia madre e mia sorella sono uscite molto presto questa mattina per andare a pregare alla moschea, prima di venire qui. Io non sono davanti il patibolo, non ne ho il coraggio sufficiente. Il boia è lì, in attesa del condannato.

Attorno a me sento mormorii eccitati; donne le cui labbra immagino piegate dal sorriso nascoste dietro il velo dello chador, uomini che parlano tra di loro e ne sento alcuni ridere sguaiatamente, bambini che giocano in gruppo con un cane che gironzola qui intorno - questa è la scena più stridente se penso a ciò che tra poco qui accadrà. Poi, in mezzo a tutta questa confusione, un rumore diverso attira la mia attenzione: un singhiozzo. Il singhiozzo di un pianto disperato, trattenuto.

Mi guardo attorno freneticamente, cercando di capire da dove venga questo dolore, e alla fine la trovo. E’ una donna giovane, non deve avere più di quarantacinque anni, il volto è scoperto - come quello delle due ragazze che le sono di fianco, ugualmente cogli occhi colmi di lacrime, che cercano di confortarla e sostenerla. Dietro di loro, leggermente defilato ma col viso ugualmente bagnato, un uomo che deve essere di poco più grande della donna.

E non serva che chieda. E’ palese chi essi siano.

Sento la donna implorare perdono per suo figlio, chiedere che la sua vita sia risparmiata... lo preferirebbe in prigione a vita, pagando per la sua colpa, purché non venisse ucciso. Le due donne cercano di calmarla, di non farle dire quelle cose: sta attirando l’attenzione di coloro che sono loro attorno e guardandosi in giro, per un momento, lo sguardo di una delle ragazze incrocia il mio.

Cerco di allontanarmi in fretta fra tutta questa gente, di allontanarmi dalla sua famiglia e da quegli occhi. Io conosco quello sguardo, l’ho visto ogni giorno della mia vita da quando sono in grado di ricordare. Quello è lo sguardo di chi non smetterà mai di soffrire perché il dolore che si porta nel cuore non diminuirà mai. Quegli occhi sono quelli di mia madre.

Mi siedo sul bordo del marciapiedi, la testa fra le mani e finalmente capisco dove ho sbagliato nel mio ragionamento. Io ho pensato di poter riportare nelle vite di tutti noi quell’equilibrio e quella stabilità che da quando è morto mio padre non abbiamo più; ma non ho mai pensato che assieme a lui avrei condannato anche la sua famiglia a soffrire come ha sofferto la mia. A dire il vero... non ho neanche mai riflettuto sul fatto che lui potesse averne una. Lui, per me, era un’entità slegata da tutto questo, dal mondo reale. Per me lui esisteva solo in quanto carcerato colpevole dell’omicidio di mio padre.

Sento il vociare della folla farsi più eccitato e capisco che è arrivato. Sento volare insulti e maledizioni. Cerco di farmi strada per tentare di raggiungere il patibolo. Passo accanto alla sua famiglia, sua madre mi guarda e senza sapere chi io sia mi prega cogli occhi di salvare suo figlio.

Come un’insegna al neon mi brillano nella testa alcune parole della Sharia. Parole che potrebbero significare la sua salvezza, ma non so se sono pronto a pronunciarle.

Per me la sua morte non vuol dire nulla, ma per la mia famiglia significa liberarsi dei fantasmi del passato. Ma c’è un’altra cosa... sono pronto ad avere il peso della morte di un uomo solo per fare... un favore?

Raggiungo a fatica mia madre e mia sorella che nonostante le lacrime mi accolgono col sorriso. Accanto a loro ci sono anche mio cognato e mio zio che mi sorride dandomi una pacca sulla spalla “Hai preso la decisione più giusta, quel cane merita di morire. Sono orgoglioso di te!”

Lo guardo disgustato, senza riuscire a comprendere. Come può essere orgoglioso di me che sto per commettere lo stesso delitto?

Mi volto verso il palco e lo vedo salire le scale, le mani legate dietro la schiena così che non possa portarle al collo quando la corda lo soffocherà. Si guarda attorno e per la prima volta vedo un’espressione sincera sul suo volto: è spaventato; però poi lo vedo sorridere e seguendo il suo sguardo vedo sua madre che gli sorride a sua volta. Ma ben preso quell’espressione di dolcezza materna si trasforma, divenendo terrore. Mi giro di scatto e vedo che gli hanno coperto il volto: il boia gli sta mettendo il cappio attorno al collo e tra poco lui sarà morto.

Osservo mia madre e i suoi occhi sono vacui, come se non fosse qui ma in un altro posto, lontano nel tempo. Ricordo il modo in cui mi ha cresciuto: con amore, insegnandomi il valore della vita e del perdono. Davvero io l’ho condannato a morte per lei? Per la donna che mi ha insegnato che tutti sbagliano e che a tutti deve essere concessa una seconda opportunità?

“FERMATEVI!!!”

Il boia stava per aprire la botola. Sento la mia famiglia sussultare al mio urlo e all’improvviso la piazza diventa silenziosa; quelli più lontani cercano di capire chi abbia interrotto l’esecuzione, mentre quelli più vicini mi fissano senza capire le mie intenzioni.

Il giudice si fa avanti, fissandomi severamente negli occhi “Chi siete?”

Le mie mani tremano, tutto il mio corpo è scosso dai brividi “Sono il figlio dell’uomo che lui ha ucciso e… RICHIEDO IL PREZZO DEL SANGUE!” attorno a me la folla esplode in un boato.


Sono solo in questa stanza, in attesa di lui.

Mi sono allontanato dalla mia famiglia pochi minuti fa. Mio cognato e mio zio erano i più infuriati, la guancia mi fa ancora male per lo schiaffo che ho ricevuto. Alle loro domande di spiegazioni non sono riuscito a dare risposta, me ne sono stato in silenzio a subire la loro ira.

Mia sorella se n'è stata seduta, in lacrime, a ripetere come in una litania: papà... papà... come se potesse tornare da noi mentre suo marito, accanto a lei, cingendole le spalle con un braccio, tentava di confortarla. Mio zio camminava su e già per il corridoio, dando pugni ai muri, suppongo per non sfogarsi ulteriormente su di me. Mia madre era invece silenziosamente seduta, le mani strette in grembo.

Mi sono inginocchiato di fronte a lei, stringendo quelle dita, sempre calde, fa le mie "Mamma..?" la sua era la reazione che più mi spaventava. D'altronde era stata lei a dover vivere una vita da sola, con due bambini da crescere e senza un uomo accanto che potesse aiutarla. L'unica speranza che era riuscita a farla andare avanti in tutti questi anni era stata quella di, un giorno, poter avere giustizia... ed io gliel'ho tolta "Mi dispiace..."

Ma lei ha scosso la testa e mi ha sorriso. Non ha detto nulla, non una sola parola, ma per me quel sorriso ha significato più di mille frasi. Quel sorriso diceva che non ce l'aveva con me, che capiva perché l'avessi fatto e, soprattutto, che era orgogliosa di me.


La porta si apre e poggiandosi contro di essa la guardia lo fa entrare per poi seguirlo, togliendogli le manette e facendolo sedere. Se avessi bisogno del suo aiuto, sarà qui fuori pronto ad intervenire. Esce dalla stanza e noi rimaniamo dentro.

Si massaggia i polsi dove vi sono i segni rossi delle manette, chiuse troppo strettamente. Ha perso l'atteggiamento strafottente dei nostri precedenti incontri, limitandosi ora a fissarmi interrogativo, in attesa. Ma io non parlo e lui inizia ad innervosirsi, si agita sulla sedia e alla fine sbotta "Allora? Qual è il prezzo?!"

Mi siedo e gli sorrido.

Il prezzo del sangue.

Posso chiedere ciò che voglio e se lo avrò lui non verrà ucciso, avrà salva la vita; è una cosa che può essere richiesta solo dalla famiglia della vittima. Scuoto la testa "Non voglio nulla"

I suoi occhi si spalancano, vorrebbe dire qualcosa ma non ha parole "All'inizio volevo chiederti la verità di quella notte, poi mi sono reso conto che non mi servirebbe a nulla sapere" abbasso lo sguardo "Avevi ragione quella volta... se sin dall'inizio avessi saputo la verità per me sarebbe stato molto più facile. Se mio padre non ti aveva fatto nulla e tu l'avevi ucciso meritavi di morire, ma se fosse stato il contrario..." lascio la frase in sospeso "Ma il mondo non si può dividere solo fra buoni e cattivi, vero? La realtà è che se ti volevo salvare, lo dovevo fare a prescindere da ciò che è successo" a fatica riesco ad alzare il viso, guardandolo negli occhi "Era questo che volevi, esatto?"

Lui annuisce.

Io mi alzo e lui fa altrettanto. Vedo la guardia lanciare un'occhiata all'interno e gli faccio segno che va tutto bene, così che torni a voltarsi.

"Io sono soddisfatto. Per me tu sei libero" lo supero e sto per bussare per farmi aprire e uscire quando la sua voce mi richiama.

"Lui... tuo padre..." mi giro e mi dà ancora le spalle "...quando stava per... per morire... dio, non lo so perché, ma... mi ha guardato e mi ha pregato..." posa qualcosa sul tavolo, sembra una catenina, poi si avvicina alla finestra per guardare fuori "...mi ha pregato, se un giorno ti avessi mai incontrato, di darti quella, Kevan" scuote le spalle "Non so perché l'ho tenuta... non avevo di certo la sicurezza che ti avrei mai visto e in prigione con una cosa come quella avrei potuto comprarci un sacco di roba, però..." abbassa la testa, si passa una mano fra i capelli "Sta lì, ed è tua..."

Non si è voltato, non può vedere il mio cenno di ringraziamento e tanto meno quest'unica lacrima bagnarmi il viso. Al mio collo ora luccica una catenina d'argento con una piccola placca con sopra inciso il mio nome in antico pharsi. La sola cosa che mi unirà mai a mio padre me l'ha data il suo assassino.

Esco dalla stanza e torno dalla mia famiglia.
Non lo incontrerò mai più.