Titolo: Il posto
delle bambole
Autore: Cauchemar
Serie: Original (sebbene legato a personaggi e situazioni della mailing list
di GDR Hogwarts Hot)
Rating: R
Storia: One shot che ha come protagnista uno dei miei personaggi di Hogwarts
Hot, lo sgargiante Sagan Kastageer. Per chi non sopporta Harry Potter mi
sento di poter pronunciare tranquillizzanti parole: in questo racconto, come
nella mailing list stessa, i riferimenti al maghetto saccente sono davvero
inesistenti, e anche la cornice della scuola è presa come mero pretesto
per...fare letteralmente di tutto!!...
buona lettura
Cauchemar
Il posto
delle bambole
di Cauchemar
Avevo seguito le tracce lasciate per me, inequivocabili,
mirate.
Ho sempre ammirato le donne che sapevano esattamente ciò che desideravano,
scevre di quella pudicizia fasulla, di quel moralismo ipocrita che tanto
poco dona al loro sesso.
Con ciò non voglio affermare che non esistano donne virtuose e pudiche, ma
francamente esualano dal mio campo.
Così come certe presunte virtù esulavano da quello di Imogen Marlen.
Dal momento stesso in cui avevo posato gli occhi su di lei avevo saputo che
quella donna era uguale a me, una degna avversaria con un ingaggiare un
duello di seduzione, abbastanza maschile, nell'indole e per forza d'animo,
da tenermi testa, ma gloriosamente, completamente donna, per rispondere
battuta su battuta alle mie schermaglie. Mi aveva scelto nel momento in cui
l'avevo scelta, o forse giusto un istante prima, perchè le donne ci
precedono sempre di un passo, anche quando ci lasciano l'illusione del
contrario.
La mia fama l'aveva portata a me, o forse aveva portato me al suo cospetto,
complice la mia amicizia col marito, e un altro degli inestimabili talenti
in cui le donne eccellono massimamente: creare l'occasione.
Così, un po'per mia volontà, ma soprattutto per la sua, nell'illusione
indolente in cui amavo crogiolarmi di essere ancora padrone delle mie
azioni, e tuttavia consapevole che il solo arbitro del gioco era lei, mi ero
ritrovato nel giro di pochi incontri a quell'udienza privata, precisamente
nella casa disertata dal mio buon amico, Timotheus Kastageer. Il quale, reso
complice suo malgrado, o, se ben lo conoscevo, vittima e carnefice
consapevole di se stesso, di ogni colpo inferto e ricevuto, mi invitò
personalmente a vegliare sulla sua giovane moglie, mentre egli si recava
all'estero per alcune conferenze.
E così mi apprestavo a fare, a vegliare sulla signora Kastageer, a riempirmi
gli occhi, le mani, la bocca della sua bellezza rigogliosa e sfacciata, di
fiore sgargiante e velenoso.
Mi aveva accolto nella casa del marito con lo sguardo di chi dà il benvenuto
a un amante abituale, incurante degli sguardi dei pochi domestici, e mi
aveva guidato nel cuore stesso della casa, lasciando che ne svelassi le
forme, ne esplorassi le pieghe, violandone l'intimità, in un preludio
amoroso carico di squisita aspettativa.
Avevo seguito i suoi passi ondeggianti, appigliandomi agli sguardi che mi
lanciava da sopra la spalla, di quando in quando, alla sua voce roca e
velata, suadente, senza perderla di vista, mentre mi inoltravo tra le ombre
di quella casa grande, rimbombante di silenzio e solitudine.
La sua bellezza contrastava con l'austerità dell'edifico come il petto
palpitante del pettirosso con l'incolore paesaggio invernale. Non aveva
nulla della molle bellezza delle donne del nostro paese, eppure i suoi
tratti non potevano dirsi neppure mediterranei. Il suo corpo aveva il vigore
e la fluidità tipiche del sud, ma il tutto rivestito di burrosità e
splendore nordici, un idolo egizio impallidito alla luce dell'aurora
boreale, i colori sanguigni stemperati nelle tinte madreperlacee e vibranti
del lungo inverno. I suoi occhi erano lagune baciate dalla luna, liquidi,
agitati perpetuamente da desideri segreti. Potevano apparire molto sensuali,
quegli occhi, attraverso il velo misterioso dell ciglia, o freddi e duri
come pietre preziose. Muoveva le mani lunghe, grandi, quando parlava, e mai
senza cognizione di causa, come se intrecciasse una danza solitaria: ora le
passava sull'ampia gonna di satin, spianando invisibili pieghe, ora le
alzava in volo come uccelli a raccogliere una ciocca di capelli che le era
sfuggita dall'acconciatura, un arabesco d'oro-rosso sull'avorio e il velluto
della pelle. Sulla porta dello studio mi aveva concesso un unico, casto
bacio, e io mi sentivo già ebbro, stordito dalla fragranza del suo respiro
aromatico, dal calore sprigionato dal suo corpo che trabordava dalla veste
sontuosa, nella quale sembrava costretto contro voglia.
Percorrendo l'ampia scalinata che saliva attorcigliandosi su se stessa in
un'ampia curva di marmo, simile al ventre di una conchiglia, avevamo
raggiunto il piano superiore. Tappeti soffici gettati sul marmo e il legno,
pannelli massicci e arazzi, un dedalo di corridoi e stanze ricchi di uno
sfarzo austero, di un'opulenza velata di modestia. La scia del suo profumo
si snodava ad aprirmi il cammino, rendendomi più arrogante di quanto la
prudenza e l'amicizia consentissero. Avevo sempre avuto un certo stile, nel
perseguire la mia vocazione, e stavo contravvenendo a molte, troppe regole.
Se non mi fossi conosciuto bene come mi conoscevo, avrei potuto credere di
aver perduto la testa per quella donna. Ma in certi frangenti la testa non
c'entra nulla, e ancora meno c'entra il cuore... Aprì una porta di legno
chiaro, arricchita di intarsi floreali, una nota vezzosa e femminile, in
quell'ambiente severo, e mi guidò in quelli che indovinai subito essere i
suoi appartamenti.
"Ora devi aspettare" mi sussurrò, voltandosi a scoccarmi un'occhiata da
sopra la spalla, e in quello sguardo lessi una promessa e una dichiarazione
di guerra.
Annuì, docile, ostentando un'arrendevolezza che non era mia. Avevo voluto
afferrarla per la vita e trascinarla su quel soffice tappeto bianco che si
allargava sul pavimento del salotto, ma era esattamente ciò che ci si
aspettava da me, e amavo deludere le aspettative, soprattutto se
riguardavano miei eventuali passi falsi. Invece rimasi fermo, mentre lei
spariva dietro un arco coperto da pesanti tende di broccato rosa antico.
Altre due porte si aprivano sul salotto, inondato dalla luce dorata di molti
candelabri di cristallo, che riempivano l'aria di barbagli splendenti.
Poltrone rivestite di velluto invitavano all'abbandono e al riposo, mensole
e tavolini dalle gambe flessuose reggevano ninnoli preziosi e fragili e
grandi vasi di rose e tuberose che emanavano un profumo dolce e sensuale. Il
soffitto di vetro lasciava scorgere il cielo in cui si stemperavano i colori
del crepuscolo e le prime stelle si accendevano, acuminate. Mi sedetti su
una poltrona, che mi accolse, nel suo abbraccio fin troppo morbido. Mi
rialzai subito, inquieto. Il profumo dei fiori era fin troppo intenso,
ubriacava, dava alla testa. Nella stanza non c'erano però finestre visibili,
così mi avvicinai a una delle porte, sperando di trovare, aprendola,
sollievo. La porta si aprì lentamente, su un ambiente in penombra. Trasalì,
credendo di aver interrotto una riunione. Infatti ad una prima occhiata la
stanza sembrava gremita di persone sedute in silenzio. Ma nonostante la luce
fioca, che proveniva da alcune lampade di alabastro fissate alle parete da
supporti di ferro battuto che li rendeva simili a grappoli di luce, mi resi
subito conto che ad occupare ogni sedia, poltrona, divano, mensola, tavolo,
panca di quella stanza non erano presenze umane, ma bambole.
Storsi le labbra in un sorriso, rivolto alla mia stupidità, e mossi qualche
passo nella stanza. Era un ambiente vasto, circolare, interamente occupato
solo da quelle figure silenti. Mi avvicinai per osservarle meglio,
mormorando un incantesimo per aumentare la luce. Erano tutte di splendida
fattura, ed evidentemente accudite con cura, ogni giorno. I capelli
trattenuti in elaborate acconciature da gioelli sfarzosi avevano una
lucentezza vibrante, e le vesti, ricche di ricami, pizzi, passamanerie,
gemme, perle avrebbero risvegliato il desiderio di più di una delle nostre
belle dame. Sollevai tra le braccia una di quelle piccole signore dagli
occhi di cristallo. In alcune zone della stanza le bambole erano così
ravvicinate tra loro che solo i visi emergevano, bianchi e perfetti, dal
trionfo di velluto e taffetà. Per quanto mi muovessi nella stanza, avevo
l'impressione che i loro occhi mi seguissero, e non era una sensazione
gradevole. Ma non ero certo lì per farmi spaventare da delle bambole,
oltretutto così belle! Alcune di loro erano così grandi da sembrare
effettivamente degli esseri umani, delle bambine vestite a festa, in attesa
del debutto in società. Mi avvicinai ad uno di quei gruppi assiepati,
saggiando con le dita la consistenza della seta, scrutando qui visetti
immoti e seri. No, non erano tutti seri. Strinsi gli occhi. C'era una
bambola che sorrideva, una singola bambola in mezzo a quel gruppo di sorelle
immusonite. La tesa del cappello di velluto valorizzava, anzichè celarlo, il
volto di porcellana, in cui la piccola bocca vermiglia s'incurvava in una
virgola piacevole. Mi colpirono di quella bambola l'insolito colore degli
occhi, di un cremisi intenso, e dei capelli, bianchi come la neve e luminosi
come l'argento. Distolsi lo sguardo, lasciandolo vagare sulle altre bambole,
su quelle bambine di gesso che mi circondavano, incantevoli, ma con l'angolo
dell'occhio colsi un movimento furtivo. Certo di essermi sbagliato, fissai
il volto della bambola sorridente, e un brivido mi corse lungo la schiena
quando mi resi conto che la sua espressione era mutata. Impercettibilmente,
me inequivocabilmente. Le labbra si erano dischiuse in quel volto come un
bocciolo turgido, rivelando piccoli denti di perla, e gli occhi si erano
ristretti, generando due pieghe sottili agli angoli esterni. Chiusi gli
occhi e li riapri. Mi sono sempre vantato di essere un fine osservatore,
oltre che un uomo di spirito e ingegno, e come tale mi sono sempre posto
verso gli altri. E così misi il mio ingegno al servizio del mio irrazionale
turbamento, e mi avvicinai alla bambola, allungando una mano per sfiorarle
il viso. E fu allora che lei mi morse. All'avvicinarsi della mia mano, il
visetto scattò in avanti, addentando, seppur senza intenzione di far male,
la punta del mio dito. Feci un salto indietro, incespicando nelle mie stesse
gambe, fino a ritrovarmi lungo disteso sulla schiena. La "bambola" frattanto
era uscita dal gruppo delle sue sorelle, e mi guardava, un girotondo di
espressioni nel volto mobile, dapprima divertito, poi preoccupato, e di
nuovo ilare, quando le risultò evidente che la mia caduta non aveva avuto
conseguenze gravi. Allora scoppiò in una risata roca, insolita per una
bambina (poichè ormai ero certo che si trattasse di una bambina in carne ed
ossa, di forse cinque, sei anni) e mi porse la manina sottile e bianca per
aiutarmi ad alzarmi. Allungai la mano confuso. I boccoli candidi come la
neve sfuggivano dal cappello, ondeggiando sulle spalle esili, mentre l'abito
da bambola si gonfiava in una nuvola di satin color porpora e pizzi neri. Il
sorriso simile a un fiore aleggiava ancora su quella bocca, con una punta di
irriverenza e malizia che lo rendeva ancora più seducente. Sorrisi a mia
volta, afferrando quelle dita minute e pallide.
"Cosa sta succedendo qui?!" Imogene era apparsa sulla porta, avvolta in una
lunga vestaglia di veli color pesca, e dell'aureola fiammeggiante dei suoi
capelli, e ci guardava sconvolta. Feci per risponderle, mentre mi alzavo con
noncuranza, ma la "bambola" si scavalcò agilmente una poltroncina e facendo
quasi cadere Imogen stessa, guadagnò l'altra stanza e proseguì la fuga. Una
fuga ben poco elegante, la veste raccolta perchè non intralciasse le gambe
snelle che procedevano a lunghe falcate e balzi. Udimmo la porta chiudersi
con uno schianto. Vidi che Imogen stava sorridendo, e la raggiunsi. Le sue
dita mi sfiorarono il volto, mentre i suoi occhi indugiavano sui miei
lineamenti come una carezza. "Vedo che hai conosciuto mio figlio Sagan..."
mormorò, lasciando che le mie labbra catturassero le punte delle sue dita.
Sgranai gli occhi, e lei parve trarre un piacere segreto dalla mia sorpresa.
Scossi il capo, incredulo e seccato per il mio fallace spirito di
osservazione, e lei parve gongolare ancora di più. Decisi che tanta
impertinenza meritava una lezione.
"Non prendertela... a volte riesce ad imbrogliare anche me" sospirò lei,
consolatoria, facendosi più vicina. Il suo profumo inebriante riaccese in un
momento il mio desiderio. In un attimo dimenticai il ragazzino vestito da
bambola e il mio disappunto. Ma quando i dentini appuntiti di Imogen
Kastageer si chiusero giocosamente sulle mie dita, furono gli occhi cremisi
di suo figlio Sagan che vidi balenare ancora una volta davanti a me, ridenti
e magnetici.
La pioggia scrosciava su di noi, senza toccarci, oltre l'effimero riparo
dell'abbaino.
Ma non potevamo ignorarne il canto, la sua nenia suadente, che ci spingeva
un po' più vicini, un po'più stretti, nel tepore delle coperte e dei nostri
corpi nudi. Il desiderio appagato è uno stato di grazia che personalmente ho
sempre apprezzato, senza nulla togliere all'entusiasmo della conquista, alla
voluttà del corteggiamento, all'intrigante duello della seduzione. Per
quanto mi riguarda, veder saziata la propria fame non è l'inizio della fine
per un idilio, ma semmai il naturale evolversi del medesimo ad un livello
ulteriore. Questo anche perchè difficilmente ho saputo trovare sazietà al
primo assaggio...
Inoltre, forse col passare degli anni e l'avvicendarsi delle stagioni,
mentre le rughe iniziavano a solcarmi il volto con arabeschi che pure erano
ancora dichiarati assolutamente seducenti, ma che in certi giorni mi
facevano dubitare della mia stessa identità, quando mi guardavo allo
specchio, anche i miei appetiti stavano cambiando, e avevo iniziato a
crogiolarmi più a lungo nel piacere della conquista, senza lasciarmi
bruciare troppo presto dalla febbre di una nuova caccia. O forse,
semplicemente, essere in quella soffitta visitata dalla luce argentea del
meriggio, cullato dalla pioggia battente e dalla morbidezza del velluto, in
quel letto gigantesco in cui le lenzuola si agitavano come spuma di mare,
era tutto ciò che al momento desideravo, e non avrei voluto essere altrove.
Lui mi guardava, in silenzio. Avvertivo il magnetismo di quegli occhi, era
sempre stato così, fin dalla prima volta. Anche se mi trovavo dall'altra
parte di una sala gremita di persone, sapevo che i suoi occhi erano su di
me, e me ne sentivo attratto, irretito, come se un richiamo di sirena
scaturisse dal fondo di quelle iridi e mi raggiungesse, rendendo vana ed
effimera ogni resistenza.
Erano passati dieci anni dal nostro primo incontro, ed eravamo così cambiati
entrambi. Eppure un privilegio degli amanti è la capacità di annullare lo
scorrere del tempo, di lasciarlo sospeso fuori dalle pareti dell'alcova,
lasciandolo fluire per tutti gli altri, ma non per loro. Tutto ciò che è
stato e sarà non ha più importanza, ma il momento, diluito e infinite volte
bevuto da coppe gemelle, solo quello ha valore. Un lusso speciale, che
permette ad ogni incontro amoroso di rinnovarsi, alla passione di divampare
come se fosse la prima volta, o l'ultima, sempre. Eravamo cambiati, io ero
invecchiato, e quel corpo bianco steso e allacciato al mio si era allungato,
era cresciuto, come un albero sulla riva di un ruscello, snello, flessuoso,
delicato e forte a un tempo, eppure non era passato un giorno da quando lo
avevo scorto in un girotondo di bambole.
Il pallore quasi luminoso della sua carnagione trasmetteva un'illusione di
fragilità, come di qualcosa troppo facile da sgualcire, eppure il vigore
dell'adolescenza scorreva in quelle membra, che cercavano le mie, bramose,
audaci, lasciandomi spesso ansante, sfinito, ma ancora ardente di desiderio.
Era una danza senza artifizi la nostra, un duello alla pari che non
conosceva menzogna, sebbene ci separasse un'intera vita, o forse solo la
mia, con le mie infinite esperienze consumate e perdute, così diversa e
distante dal suo mondo di brezze e pomeriggi quieti.
La freschezza di quel corpo si trasmetteva al mio, donandomi una seconda
giovinezza, come un balsamo distillato da un generoso alchimista, e io non
potevo, non volevo rinunciare a quella tardiva primavera.
Allungai la mano e l'affondai tra i suoi capelli, fini, curiosamente freddi
al tatto, come se dell'argento non avessero avuto solo il colore, ma anche
la sostanza. Emise un sospiro simile a una risata, una delle sue risate
sbuffanti, con le quali ostentava la sua ferma decisione di non prendere
nulla sul serio. Forse tuttosommato non eravamo così diversi, lui ed io,
nonostante la differenza di età ed esperienza, ed era solo quell'indole
malinconica che andavo sviluppando con l'età a voler dipingere per il mio
giovane amante un'infanzia edenica e senza ombre. Un'infanzia vissuta tra le
bambole, come una bambola... Era inevitabile che succedesse. Avrei dovuto
saperlo fin da quella sera di primavera, quando ebbe inizio la mia relazione
con Imogen Kastageer. Una relazione portata avanti per anni, anni in cui
avevo frequentato quella casa come ospite sempre gradito, dividendomi tra il
mio povero amico Timotheus e la sua vasta biblioteca, e la sua insaziabile
moglie.
Era cresciuto sotto i miei occhi, eppure non me ne ero reso conto, il
piccolo Sagan, il bambino-bambola. Come certe piante che crescono in una
sola notte, si era trasformato, e non avrei mai saputo dire come fosse
diventato ciò che era, l'adolescente inquieto che divideva il mio letto,
arguto, sagace, fin troppo intelligente. Cresciuto da solo, proprio come
quelle piante rare, o accudito dalle cure a volte fin troppo opprimenti di
una madre, così infatuata del figlio da divenirne ossessionata, poi
invidiosa, gelosa, rivale...
Se Imogen avesse saputo... Eppure a volte avevo avuto l'impressione che
Sagan non facesse nulla per nascondere alla madre la nostra frequentazione,
e questo, oltre a discorsi lasciati cadere tanto dall'uno quanto dall'altra,
mi avevano fatto intuire che il rapporto che li legava era tanto profondo e
indissolubile quanto contorto. Una madre bambina che giocava con gli uomini,
un figlio cresciuto troppo in fretta, geloso delle bambole che gli rubavano
le attenzioni materne tanto da divenire una di loro, geloso degli uomini che
gliela portavano via al punto di sedurli... o forse era una sorta di tacita
guerra quella in corso tra madre e figlio, una guerra scaturita da un
eccessivo amore, come a volte sono le guerre, e dall'egoismo, e combattuta
sulla nostra carne, sui nostri letti di amanti contesi, ignari mercenari.
Ero scivolato inconsapevolmente dalle braccia di Imogen a quelle del figlio,
sorprendendo perfino me stesso, poichè la frequentazione dei fanciulli aveva
trovato poco spazio nelle mie seppur variegate preferenze. Per un po'mi ero
diviso tra loro, tra la voluttà domestica e ormai domata di Imogene, ancora
bellissima, ancora ardente, troppo per la tepidezza che ormai ci avvolgeva,
come fratello e sorella, e la travolgente novità. Era stato lui a guidarmi,
come un tempo sua madre, era stato lui a volermi, facendo in modo che fossi
io a volerlo. Se avessi dovuto tentare un'apologia per il mio comportamento,
non avrei avuto scampo: ero colpevole, senza possibilità di appello. Nei
suoi occhi color del sangue era già allestito per me il tribunale e il
patibolo, lui era vittima, giudice e carnefice, e tutto questo senza che
alcuna macchia contaminasse la purezza dei suoi quindici anni. Ma
francamente non me curavo. Se avessi dovuto preoccuparmi di essere giudicato
per la mia moralità, avrei avuto un'esistenza dannatamente noiosa. Nessun
rimpianto, nessuna scusa. Da tempo ero consapevole di una sola, grande,
inellutabile verità, che curiosamente si adattava a quella storia, come se
un destino beffardo avesse scelto di portarmi a comprendere scegliendo
proprio la sola via che da sempre avevo intrapreso. Quello stesso destino
nelle cui alterne vicissitudini mi dibattevo, come una bambola, nè più nè
meno, un balocco affidato a amni incaute e indifferenti, inconsapevoli di
tutto fuorchè del loro insensato gioco. Nemmeno sapere questo mi elevava al
di sopra dei miei errori. Non sono mai stato uomo abituato a scaricare sugli
altri le proprie colpe. Ma in fondo la consapevolezza dell'inevitabilità fa
comodo a tutti. E anche in questo non faccio eccezione rispetto a qualsiasi
altro uomo..
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