Il patto I

di Naika

 

Il vento mulinava piano sollevando la neve leggera in trasparenti danzatrici di ghiaccio candido.

Hanamichi abbassò il capo, cercando di sottrarre il volto alla carezza ammaliatrice delle loro mani pallide, rannicchiandosi un po’ di più nella pesante pelliccia di montone mentre tentava di avanzare, passo dopo passo, nel silenzioso sottobosco.

La neve si piegava sotto i suoi passi con accondiscendente cattiveria solo per rivelare, sotto il suo manto bianco, sassi appuntiti o radici sporgenti che sembravano tendersi per afferrare i suoi piedi e farlo cadere tra le braccia fredde della loro candida complice.

Sapeva che se fosse caduto il gelo lo avrebbe ghermito con le sue scintillanti ragnatele bianche, ipnotizzandolo con i suoi avvenenti scintillii, cullandolo, in un falsamente benevolo sonno ristoratore, da cui non si sarebbe più svegliato.

Arrancò ancora per qualche passo prima di appoggiarsi stancamente contro il tronco ruvido e freddo di un grosso pino.

Gli aghi verde grigio, gelati, gli graffiarono le mani arrossate, ormai insensibili, punzecchiandolo con i loro appuntiti stiletti ghiacciati a ricordagli che lui, lì, non era il benvenuto e non aveva nessun diritto di appoggiarsi al loro tronco.

Hanamichi socchiuse esausto gli occhi osservando il suo respiro affannoso condensarsi in veloci nuvolette impalpabili con cui il vento giocava, facendole danzare pigramente con i fiocchi pallidi che scivolavano dolcemente nell’aria cristallina.

Continuava a nevicare senza sosta.

Se sollevava il volto verso il cielo faticava quasi a distinguere l’azzurro acciaio dal bianco candido dei molteplici fiocchi che, piroettando, andavano ad aggiungersi alla, già cospicua, massa bianca, che gli aveva più volte fatto perdere la via e che rendeva il suo passo sempre più faticoso.

 

Ma non poteva arrendersi.

 

Avrebbe trovato la caverna della volpe e l’avrebbe costretta ad ascoltarlo.

 

Sempre che esistesse davvero.

 

Scosse il capo, scacciando con le mani qualche fiocco candido che si stava sciogliendo tra i suoi capelli rossi ormai umidi.

Le ciocche ribelli gli ricadevano sulla fronte, cristallizzate in immobili stalattiti bianche, sotto le quali, a malapena si poteva ancora scorgere la fiamma rossa del loro colore originale.

Strofinò con forza le mani una contro l’altra cercando di trarre da quel gesto un po’ di calore che venne rapito fin troppo presto dal gelo circostante.

 

La sua era una follia, lo sapeva.

Ma era l’unica speranza che aveva e non poteva rinnegarla, come avevano fatto gli altri, soltanto per paura.

 

Quando aveva lasciato il villaggio, notte tempo, diretto verso il bosco nessuno aveva cercato di fermarlo.

Gli uomini di Krag nemmeno controllavano la palizzata a nord.

Solo un pazzo si sarebbe inoltrato, di notte, nel bosco, con quella temperatura polare.

Tanto valeva rimanersene nella casa principale a bere, ridendo delle lacrime represse e dello sguardo afflitto di quel popolo che avevano soggiogato con tanta facilità.

 

Erano ormai diversi mesi che quell’incubo continuava.

 

Un gruppo di forestieri, un giorno in cui il sole alto sembrava presagire solo calore e gioia, erano sbucati dal valico che portava alla grande valle e da lì poi alla strada maestra che conduceva alla lontana capitale.

L’anziano capo villaggio aveva accolto la loro richiesta di ospitalità con un sorriso leggermente corrucciato alla vista delle loro armi e dei cani dai molari affilati che li accompagnavano.

Tuttavia il loro era un villaggio, sperduto, pacifico, che non conosceva che l’agricoltura e l’allevamento.

Avevano persino smesso di cacciare da tempo preferendo non violare la pace dei grandi alberi secolari.

 

Non c’erano muri a difendere le loro case.

 

I bambini correvano liberi, inseguendosi per la piazza, e ognuno di loro era considerato figlio di tutta la comunità, non solo della sua naturale famiglia.

I campi e gli allevamenti erano comuni.

Il cibo veniva diviso dal capo villaggio che era un uomo un po’ più giusto ma, per il resto, uguale a tutti gli altri.

Hanamichi aveva perso i suoi genitori naturali in tenera età ma non aveva mai sentito la mancanza di una famiglia.

Tutto il villaggio era la sua famiglia senza nessuna distinzione e lui si era sempre prodigato per loro senza sentire il peso della fatica.

Erano gente semplice e pura.

 

E non appena quegli uomini avevano capito la situazione avevano ben pensato di approfittarne.

 

Non erano nemmeno riusciti a difendersi.

I soli che ci avevano provato erano stati uccisi.

Lui stesso probabilmente sarebbe morto cercando di fermarli se non fosse stato ai campi di mais nel momento in cui quegli animali avevano deciso che l’ospitalità era una buona cosa ma la schiavitù li avrebbe divertiti di più.

Quando era tornato al villaggio aveva trovato un rudimentale scranno al centro della piazza, le ragazze più avvenenti, singhiozzanti, ai piedi di quel mostro che si era autoproclamato re, e la testa di suo fratello infilzata su una lunga alabarda sporca di sangue, in bella mostra accanto a lui, a fargli da scettro.

Se non fosse stato che quei bastardi avevano in ostaggio le ragazze li avrebbe attaccati, a mani nude.

 

Ma non aveva potuto fare nulla.

 

Era forte.

Lavorava nei campi tutti i giorni e aveva sviluppato una muscolatura potente e scattante.

Probabilmente in un incontro regolare avrebbe potuto stendere più di uno di quei mercenari.

Ma nessuno di quegli uomini conosceva il significato di parole come ‘regolare’.

Loro avevano spade, archi, alabarde, lance e balestre.

Avevano usato le loro galline per fare il tiro al bersaglio, così per gioco, e quando il capo villaggio aveva tentato di fermarli ricordando loro che l’inverno era alle porte e che avevano bisogno che gli animali restassero in vita Krag aveva scosso le spalle e aveva candidamente proposto ai suoi uomini di sostituire i polli con i bambini, scoppiando a ridere divertito quando aveva visto il terrore sui loro volti.

 

Quegli uomini avevano preteso il loro raccolto.

 

Avevano mangiato e bevuto a sazietà sprecando e distruggendo per il semplice gusto di divertirsi senza tener conto di nulla se non del loro piacere personale.

Avevano violato le donne obbligando gli uomini a ritmi massacranti di lavoro per erigere un’enorme, quanto inutile, palizzata attorno a tutto il villaggio.

I campi erano stati abbandonati proprio nel periodo del raccolto con il risultato che si erano ritrovati con l’inverno alle porte e senza scorte di cibo.

Quando la neve aveva preso a scivolare languida, accasciandosi fiocco su fiocco sui campi, i loro ‘signori’ avevano preso a gridare a gran voce per avere altro cibo e divertimento.

Li avevano mandati a cacciare nella foresta munendoli di qualche arco e un paio di coltelli con il risultato che pochi di loro erano tornati, lui stesso doveva ringraziare solo la sua forza e la sua prontezza di riflessi se aveva ancora il braccio destro.

Solo pochi giorni prima mentre tentava di catturare un cervo infatti, un orso bruno disturbato nel suo letargo probabilmente, l’aveva aggredito.

Fortunatamente lui era stato veloce a sfuggirgli e il grizly non aveva intenzioni veramente bellicose, così se l’era cavata, ma a tanti altri non era andata altrettanto bene.

 

Sospirò riprendendo faticosamente il cammino.

 

Ormai anche gli animali si erano nascosti o erano fuggiti e la cacciagione, già difficile da catturare, era diventata introvabile.

L’insofferenza dei loro aguzzini si sfogava sempre più in violenze che Hanamichi non poteva continuare a sopportare come facevano gli altri, per paura, a testa china.

 

Sperare che qualche altro villaggio corresse in loro aiuto era utopia, il primo centro abitato era a giorni di distanza.

Provare a organizzare una rivolta era inutile.

I pochi che gli avevano dato retta erano finiti male.

Lui stesso era stato torturato a lungo quando era stato trovato ad organizzare la ribellione.

Se non fosse stato che Krag aveva disperatamente bisogno di uomini che cacciassero per lui, probabilmente ora sarebbe stato ancora appeso, nella gabbia al centro del villaggio, a patire la fame e a morire di freddo, il corpo a malapena coperto da uno straccio lurido, in modo che tutti potessero vedere le bruciature e i lividi che venivano inferte ai traditori.

 

Strinse i pugni mordendosi le labbra con rabbia.

Avevano commesso l’errore di non ucciderlo e lo avrebbero pagato.

Molto caro.

 

Lui non si era arreso.

 

Aveva chinato il capo in silenzio come avevano fatto gli altri ma non aveva lasciato che il suo sguardo si spegnesse.

Aveva incarcerato la sua anima e aveva piantato le unghie nei palmi fino a scorticarsi le mani, obbligandosi a sopportare ciò che accadeva attorno a lui finchè il suo corpo non si era rimesso abbastanza in forze da consentirgli di tentare l’ultima, disperata, mossa.

 

Chiedere aiuto a lui...

 

La volpe a nove code.

 

Il demone che si diceva dimorasse su quell’alta montagna dalla cima sempre imbiancata di neve.

La leggenda raccontava che i suoi poteri erano stupefacenti quasi quanto la sua bellezza.

Bastava una sua parola per invertire le stagioni.

Un suo sguardo per far fuggire il più temerario dei nemici.

 

Sempre che esistesse.

 

Perchè come ogni leggenda che si rispettasse nessuno aveva mai visto il demone.

Nessuno era mai stato così pazzo da andarlo a cercare.

 

Ma ad Hanamichi non restavano poi molte alternative.

 

Da solo non poteva fare nulla se non finire ad adornare la lancia del loro aguzzino.

Aveva bisogno di alleati.

Ma al villaggio, ormai, nessuno gli avrebbe dato una mano.

Avevano troppa paura delle ripercussioni.

Dunque se non poteva avere alleati aveva bisogno di potere.

Un grande potere che gli permettesse di liberare il suo villaggio da quegli uomini.

E c’era una creatura sola che glielo poteva dare.

 

La volpe.

 

Restava da considerare che il demone avrebbe voluto qualcosa in cambio.

Quello era l’unico punto incerto della sua strategia.

Scosse il capo avanzando tra la neve alta che si aggrappava ai suoi pantaloni laceri, trasformandosi in pesanti zavorre di ghiaccio, appoggiandosi ai tronchi degli alberi che gli ferivano i palmi della mani rovinate, stringendo gli occhi nel cercare di scorgere qualcosa oltre il muro di fiocchi candidi che danzavano ipnotici intrecciandosi in miriadi di direzioni diverse, giusto per confonderlo meglio.

Sembrava quasi che la neve lo facesse a posta.

Che tutto il bosco fosse alleato contro di lui per non farlo arrivare mai a destinazione.

 

Ma lui poteva essere testardo.

Molto testardo.

Soprattutto quando era disperato.

 

“Baka kitsune fatti trovare!!” gridò con rabbia, lo sguardo furente, lucido della febbre che gli stava corrodendo le carni, ma deciso, fiero.

 

Il suo corpo era gelato ma il suo spirito fiammeggiava ancora.

 

Stava per inveire contro il demone per l’ennesima volta quando il vorticare del vento spazzò la neve aprendola in due lembi di bianchi fiocchi danzanti, rivelando di fronte a lui un enorme antro oscuro.

 

Una grotta.

 

L’aveva trovata.

La prudenza gli ricordò che quella poteva essere la dimora di un orso e che comunque, niente poteva dargli la certezza che si trattasse della casa della volpe.

Tuttavia Hanamichi fece un passo avanti deciso.

 

Lo sentiva.

 

Sapeva che era quello il luogo che stava cercando.

La sua pelle formicolò mentre un ulteriore passo in avanti gli faceva varcare la soglia di quel buco oscuro all’interno del quale la tenebra sembrava innaturalmente densa.

Alle sue spalle il vento ululò riprendendo a vorticare velocemente lasciando cadere il sipario che aveva sollevato per farlo passare, tramutando il paesaggio alle sue spalle in un muro indistinto di neve e slanciate sagome scure.

Hanamichi scosse la pelliccia che indossava notando solo allora che, all’interno della grotta, non c’era un solo fiocco di neve.

Persino la candida signora era così spaventata dal demone che non osava nemmeno varcare la soglia della sua dimora?

 

“Vo..volpe...” il suo tono non era più così sicuro ora.

Scosse le spalle respirando a pieni polmoni mentre la sua voce incerta veniva inghiottita dall’oscurità troppo densa.

Attese a lungo ma non ottenne risposta.

 

“C’è nessuno?” chiese di nuovo sentendosi uno stupido.

Stava parlando con il buio senza il coraggio di fare un altro passo avanti.

Un fruscio leggero gli fece rizzare le orecchie mentre il suo corpo si rannicchiava, assumendo istintivamente una posizione di difesa.

Nel buio assoluto, poco più avanti, in quelle tenebre fitte, qualcosa si mosse piano.

Nel nero assoluto due pozzi blu, enormi, si socchiusero lentamente.

 

E Hanamichi impallidì paurosamente.

 

Quanto era grande?

Doveva essere alta almeno tre volte lui.

Le leggende narravano che il demone, nella sua forma animale somigliasse ad un’enorme volpe candida con nove lunghissime code.

Ma si era aspettato che le sue dimensioni fossero state ingigantite per intimorire l’ascoltatore.

 

Gli occhi del demone lo fissarono gelidi, due laghi di ghiaccio oscuro che lo vivisezionarono silenziosamente, da quelle tenebre oltre le quali non riusciva a scorgere nulla.

 

“Che cosa vuoi mortale...?”

 

Hanamichi sussultò violentemente.

 

Quella voce.

Profonda, antica.

Vibrò sulle pareti della caverna rifrangendosi attorno a lui, ingigantendosi, sovrastandolo fino a schiacciarlo con il potere che custodiva.

 

Avvertì sulla sua pelle arrossata lo sfrigolio del suo sguardo e rabbrividì stringendosi le braccia intorno al ventre in un abbraccio inutilmente protettivo, sentendosi improvvisamente minuscolo ed indifeso.

 

Folle.

 

Assolutamente folle!

Come aveva solo potuto pensare di andare da lui?

Di chiedergli addirittura aiuto?

 

Strinse i pugni con forza imponendosi di mantenere la calma.

Doveva salvare il villaggio.

A qualsiasi costo.

Non poteva arrendersi ora.

Non dopo tutto quello che aveva passato.

 

Sollevò lo sguardo e fissò i propri occhi, direttamente, in quelli del demone.

Lo sfidò con lo sguardo, stringendo i pugni e la mascella mentre sentiva la rabbia e la disperazione ruggire in lui accendendolo di una forza e un coraggio ai limiti dell’avventatezza.

 

“Sono venuto a chiedere il tuo aiuto...” disse piano.

Ma non vi era nessuna esitazione nella sua voce.

Il suo sguardo fiammeggiante non si staccò da quello del demone per un solo istante.

 

L’oscurità densa lo avvolse con il suo silenzio pesante mentre quegli occhi blu, unico suo punto di riferimento, si socchiudevano pensierosi.

 

“E che cosa mi daresti in cambio?” sussurrò quella voce antica, ponendo l’unica domanda per cui Hanamichi non aveva risposta.

 

Si era aspettato che gli chiedesse almeno per che cosa gli serviva il suo aiuto.

Forse sarebbe riuscito a ‘toccarlo’ con il racconto di ciò che quegli uomini avevano fatto al suo villaggio.

Invece la volpe non voleva sapere perchè.

Le sue vicende la disinteressavano totalmente.

Che lui fosse un assassino, un re o un semplice contadino, qual’era, non contava.

Che le chiedesse di uccidere o salvare non aveva importanza.

 

Voleva solo sapere che cosa ne avrebbe ricevuto in cambio.

 

Hanamichi strinse i pugni con rabbia.

D’altronde che cosa si era aspettato?

La volpe a nove code era un demone.

 

Un demone molto potente, gli ricordò la sua mente.

La sua unica, ultima, speranza.

 

 

“Non possiedo nulla se non me stesso..” sussurrò mestamente, sconfitto.

 

 

Era stato tutto inutile.

Che cosa se ne faceva la volpe di lui?

Probabilmente non era buono nemmeno per le sue fauci aguzze.

Sarebbe stato disposto anche a quello.

A fargli da cena, pur di salvare il villaggio.

 

Le tenebre si spezzarono fuggendo impazzite, rannicchiandosi contro le alte pareti della caverna mentre una luminosità candida e innaturale permetteva ai suoi occhi di scorgere l’enorme sagoma del demone.

E per un momento la vide in tutta la sua magnifica figura.

 

Le leggende narravano il vero.

Una volpe.

 

Una grande volpe argentata, dal lungo pelo candido come neve, scintillante come ghiaccio.

Un muso affilato, sottile in cui dominavano due pozzi blu, senza fondo.

Orecchie appuntite screziate di nero e nove, lunghissime, code, morbide come volute di vapore impalpabile.

 

Bellissima.

Oltre ogni dire.

 

Gli occhi blu brillarono mentre quella luce ancestrale avvolgeva il demone, abbagliando Hanamichi per un momento, prima di spegnersi gradatamente lasciando al suo posto un giovane dalla pelle lunare e dalla capigliatura corvina.

 

E sia...” sussurrò quella creatura magnifica avvicinandondoglisi con movenze tanto eleganti da risultare ipnotiche.

 

“Co.. come...?” balbettò Hanamichi trattenendo il fiato quando il giovane si fermò a pochi centimetri da lui.

La volpe piegò le labbra in un lieve, indefinito, sorriso mentre il rossino rimaneva immobile, paralizzato, dalla sua sovrannaturale avvenenza.

Dai suoi occhi blu, profondi, insondabili, illuminati di scintille argentee nel candore della pelle nivea, sfiorati dalle languide tenebre che in ciocche fluide cadevano su quel volto aristocratico.

 

La volpe a nove code era a pochi centimetri da lui, in forma umana.

E in quel momento, si ritrovò inspiegabilmente a pensare il rossino, in quel momento il demone... sembrava un angelo.

 

E sia... mortale...” ripetè suadente la volpe, allungando una mano candida per sfiorargli il volto arrossato in una lenta, gelida, carezza.

 

 

“... accetto il patto...”

 

 

continua....

 


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