Serie: Original
Parte: one shot
Rating: R
Avvertenze: incesto, drag
Ringraziamenti: Alle mie donne. Loro
sanno chi sono. Un bacio, sciocchine *sventaglia* ^.^
Illuminati
di
Mercedes Blackswan
*fic scritta per il progetto
letterario "Morceaux"
Alle
dieci del mattino il sole sospinge un breve sguardo nella stanza al
ventesimo piano, prima di tuffarsi e sparire dietro il grattacielo di
fronte. E’ come se la vista che l’accoglie lì dentro sia sufficiente a
distoglierlo da ulteriore osservazione.
Accarezza brevemente la figura distesa tra le lenzuola sfatte e sparisce
dietro una torre di vetro e cemento.
Nel letto, nessun movimento, se non il sorgere e calare del respiro faticoso
di un incubo.
Cresce in intensità, sempre più tumultuoso, finché non si risolve in un
grido.
Occhi spalancati all’improvviso, vuoti.
Poi il celeste si tinge del terrore del ricordo, della cupa tinta
dell’incredulità.
Quasi allo stesso tempo la segreteria – il cui occhio rosso lampeggia
irrequieto da un po’ – entra in funzione da sola.
“Sono Vivi… rispondimi. So che sei lì. Rispondimi, sono preoccupata.”
Fissa la segreteria con aria stolida.
Non ha la forza di alzarsi per andare a bere, non sprecherà energie per
rispondere al telefono.
Se anche lo facesse ha la gola talmente riarsa dallo zucchero e dal pianto
che non sarebbe in grado di parlare.
Sono due giorni che non dice una sola parola.
Dalla segreteria ancora in funzione proviene un sospiro: Vivi sta ancora
parlando.
“… e non mangiare tutto quello zucchero, ti fa male e non serve a niente.
Non pensare che io non sappia come ti senti, eh. E’ di
mio fratello che stiamo parlando…”
Smette di prestare attenzione, mentre rimesta con le dita sul comodino, gli
occhi socchiusi e già annebbiati da lacrime senza ragione – è come se
l’accaduto fosse un livido appena formatosi, che sprigiona un dolore
malvagio e sordo, costante ma ancora poco avvertibile in un primo momento.
È lo shock.
Le dita si chiudono sull’ennesima zolletta, che si porta alla bocca e inizia
a frantumare con gli incisivi.
Il sapore che si libera dai granelli ormai brucia quasi sulle labbra aride,
permane sulla lingua e nella gola, non scende.
Di tanto in tanto, si fonde al salato di una lacrima.
Sfrega il viso nel cuscino, la mossa felina che
gli era tanto familiare, usuale.
Quante volte nel farlo i suoi riccioli biondi gli sono ricaduti sul viso,
solleticandogli la pelle?
Permane ancora il suo profumo.
Sensuale, sfacciato, al confine estremo con la volgarità ma da questa parte
del confine.
Poi pensa all’odore metallico e dolciastro del sangue – che non ha
effettivamente sentito, no – e a
quello asettico, sterile, coronato da una luce verdastra e fredda,
dell’obitorio.
Rabbrividisce.
Ha perfettamente senso dimenticare che quanto è accaduto fluttuava da
settimane nei suoi pensieri con la luce di una crisi mistica.
Aveva deciso tutto, progettato ogni cosa, placcato di nobile argento il vile
marciume che covava sotto la patina di morale.
Ahimè, è stato preceduto, e il castello di carte ora si sfalda, crolla con
la non-consequenzialità propria di una struttura tanto fragile.
Tra le zollette - alle quali si è attaccato come ad un'ancora di salvezza
(dopotutto a lui piaceva il dolce,
una rivelazione impensabile per una personalità incline piuttosto al gusto
acre del sarcasmo) - c'è l'arma, ferma e fredda come un rettile
addormentato.
Sonnecchia il sonno di morte di ogni arma a riposo, il sonno con un solo
occhio del felino pronto a scattare.
Eppure, è come se il pensiero altezzoso, disperato di farla finita, non
l'avesse mai sfiorato.
Ora lui è il caro estinto, ora è la
vittima innocente; lo sconsiderato che ha detto una parola di troppo e ne ha
pagato le conseguenze.
Una fresca ondata di lacrime scivola lungo i solchi lasciati da quelle già
piante.
Il telefono riprende a suonare, ma è nuovamente ignorato.
"... rispondimi, per favore..." è ancora Vivi, progressivamente più
frenetica.
Ma è troppo occupato ad aggrapparsi al cuscino, mentre uno spasimo di dolore
gli squassa il petto. Ansima, in cerca del respiro smarrito da qualche
parte, che trattiene senza volere da molti secondi.
Non essere ipocrita, mormora la sua
coscienza.
Con gli occhi chiusi, trae un lento respiro tremulo, a fatica dalle labbra
schiuse.
Non essere ipocrita, mormora ancora
la fastidiosa vocina, è comodo cancellare
con un colpo di spugna la propria colpa, pascersi del dolore. A questo non
avevi pensato, non l’avevi messo in conto. Vero?
Strizza gli occhi sulle lacrime pungenti, la bocca costretta in una smorfia,
mentre una mano artigliata gli stringe il cuore con crudele voluttà.
La sua coscienza ha ragione.
*
Tutto iniziò quel giorno, quello che poi
divenne quel giorno, e che in
origine era sorto come tanti altri prima, non un indizio della rovina
imminente.
Avevano dormito insieme, come capitava spesso da quando gli ultimi residui
della sua riluttanza si erano dissolti, e non soltanto.
Poi Cecil si era alzato, indolente, languido, e si era rinchiuso nel bagno.
L’aveva sentito trafficare con boccette e flaconi, aprire e chiudere i
rubinetti della doccia, canterellare svagato, fino a quando il suono della
sua voce non era stato soffocato dallo schermo del soffietto ora appiattito
e steso lungo il binario, e il vapore aveva iniziato a filtrare dalla
fessura della porta aperta.
Un invito.
Inebriato, sospinto dalla lussuria e dal desiderio insano – e lo sapeva, lo
sapeva fin dall’inizio che sarebbe stato pericoloso – Astolfus si era alzato
dal letto sfatto e aveva inseguito la traccia del vapore, gli accenti
carezzevoli della voce che cantava.
L’aveva sorpreso nella doccia – una sorpresa calcolata persino nell’ampiezza
dello spiraglio lasciato aperto, nella disposizione degli indumenti sul
pavimento – l’aveva spinto contro le mattonelle ancora fresche, ma già
imperlate di gocce bollenti, spostandogli con gesto possessivo i riccioli
intrisi d’acqua dal viso.
L’aveva posseduto con saporosa violenza, quella che Cecil prediligeva, al
punto da strappargli un gemito o due; poco sapeva ancora scuoterlo al punto
di farlo gridare.
Tornati insieme nella stanza da letto, aveva suggerito con chiara
premeditazione l’opportunità di un secondo giro, che Cecil aveva deflesso
con la scusa di doversi vestire per la serata – e aveva fatto oscillare tra
le dita una maschera affollata di piume e trine, degna compagna di un abito
concepito dal folle genio di uno stilista precipitato nell’Ottocento sotto
effetto di un allucinogeno.
Ed era stato a quel punto – mentre Astolfus tentava di distogliere Cecil dai
preparativi e dalla prolungata seduta di trucco – che tutto era cambiato.
Un attimo prima Cecil si osservava nello specchio bordato di lucine da diva
di Hollywood, sprimacciando il piumino della cipria prima di cospargersi il
musetto malizioso; chino su di lui, Astolfus sussurrava al suo orecchio
quelle che riteneva fossero frasi di irripetibile oscenità.
Un attimo dopo Cecil, senza cambiare espressione né smettere di incipriarsi
il naso, aveva estratto dalla borsetta appoggiata sul tavolino del trucco
una foto e una lettera, e le aveva porte all’altro con un unico fluido
gesto.
*
Il sole è alto, lo si intuisce dallo scorcio di cielo più che azzurro che si
intravede tra i palazzi. Per un brevissimo attimo, si è incantato a
guardarlo.
Poi il ricordo di quel giorno è
giunto inaspettato e cattivo a instillare nuova energia nella rabbia
mascherata da dolore.
O è forse il contrario, ed è la sofferenza a prendere le sembianze di una
rabbia nutrita e coccolata, più facile da suscitare di un coraggio
inesistente?
Con gli occhi aridi e spalancati sul nulla, la palpebra inferiore del
sinistro catturata da un tic improvviso – si contrae e si rilassa, e poi
ancora e poi ancora, ed è snervante; gli vien voglia di strapparlo via,
quell’occhio – ripiomba nell’orrore di quel
giorno, l’orrore che pensava, sperava, desiderava aver dimenticato.
*
“Cos’è?” aveva detto Astolfus, accettando
incauto i due fogli, ancora sospeso nel riso e nella malizia che riversava
copiosa all’orecchio di Cecil. Del tutto ignaro della miseria che invece
incombeva più vicina di quanto potesse immaginare.
Ah, quante volte avrebbe rimpianto quel gesto nei giorni a venire.
Cecil non aveva risposto, le palpebre socchiuse sugli occhi gloriosi mentre
tracciava una sottile, altera riga nera sulla pelle finissima.
Né aveva risposto quando l’occhio di Astolfus era finalmente caduto sulle
prime righe della lettera – la trasmissione a Cecil di un atto di nascita e
di uno stato di famiglia ufficiale, con tanto di marca da bollo e timbro
dell’autorità competente – per poi spostarsi incredulo sulla foto allegata.
Niente più di una polaroid, uno scatto casalingo al quale il suo sguardo da
fotografo si ribellò ancor prima che il cervello potesse processare
l’efferata verità.
Una donna sui trentacinque, di una bellezza sfacciata che tuttavia riusciva
a mantenere tracce di virginea ingenuità, circondata dai tre figli bambini;
un ragazzino biondo di una decina d’anni, sorpreso nell’atto di mostrare la
lingua alla sorella minore; un bimbo di tre anni, estremamente assorto nel
pasticciare con le dita paffutelle nella scodella che gli era di fronte; una
bimba di pochi mesi, protetta e sicura nell’abbraccio della madre, col dito
in bocca e gli occhi curiosissimi spalancati sul mondo.
Qualcosa dello sfondo poteva sfatare l’aura di domestica consuetudine: il
tavolo su cui poggiava la scodella infrangibile del bambino era cosparso di
cosmetici, pennelli, persino una parrucca bianca e lunga sul suo supporto.
Dietro la scenetta familiare s’intuivano almeno altre due persone, lo
spigolo di un armadio con abiti appesi all’anta, un letto coperto di abiti
scelti e poi scartati, luccicanti fin dal profondo dello scatto sottoesposto
nei loro filari di lustrini.
In un solo attimo, con la velocità impetuosa e distruttiva di un fulmine,
un’epifania illuminò la mente di Astolfus, sovvertendo l’ordine degli strati
sedimentari dei suoi ricordi, riportando alla luce – con la stessa efficacia
di un pezzetto di madeleine intinta
nel tè – l’odore, il calore, la sensazione di quella scena.
Non era che un lieve e tenue acquerello, alla luce di ricordi molto più
recenti e incisivi – una scena vaga che andava sviluppandosi, mentre i
colori prendevano tinte più vibranti – neanche si trattasse di una stampa
appena emersa dal liquido rivelatore.
Sentire di nuovo il profumo un po’ opprimente di quella stanza, satura della
presenza di troppe persone, oggetti, abiti; sentire di nuovo la consistenza
della mela grattugiata in cui aveva affondato le dita, per puro spirito
d’esplorazione; la voce carezzevole della madre, i suoi splendidi riccioli
biondi, il suo sorriso; gli scherzi del fratello, che ai suoi occhi era già
un grande, un adulto, una persona a cui tributare stima, un eroe.
“… come… come fai ad avere questa foto?” mormorò, poche parole, per niente
degne delle sensazioni che avrebbero voluto descrivere.
Ancora Cecil non rispose, simile all’attore teatrale nel dosare le parole,
mischiandole con silenzi che, spesso, sembravano avere più significato di
interi discorsi.
Confuso, Astolfus spiegò il foglio bollato e iniziò a leggerlo con maggiore
attenzione. Un gelo tenace e appiccicoso gli era sceso addosso, irradiandosi
con ferocia dal fondo dello stomaco.
Terminato di leggere, depose sul tavolino del trucco i due documenti.
In quello stesso momento, Cecil depose l’ultimo pennellino e si alzò in
piedi, voltandosi verso di lui.
Gli sorrise, gli occhi ben truccati colmi di malizioso divertimento.
“Tutto ok?” trillò, una nota di godimento serpentina nel suo tono
scanzonato. “Sei così pallido…”
Astolfus sbatté le palpebre, aprì la bocca per dire qualcosa, poi la
richiuse.
Osservò come in trance Cecil spalancare le ante del suo armadio monumentale,
estrarre la toilette che l’avrebbe
condotto in gran pompa all’evento della serata – far da scorta a un certo
qual politico ad una certa qual festa ricolma di certe quali celebrità -
spogliarsi senza alcun ritegno per poi valutare pensosamente nello specchio
la propria figura.
Era troppo.
Mentre la luce della comprensione si spandeva da un solitario puntino a un
fascio accecante, un sapore acre iniziò a sprigionarsi nella sua bocca e gli
troncò il respiro.
Miseramente si precipitò nel bagno – laddove aveva sensualmente consumato
l’amplesso poco prima, poco prima,
quando tutto era diverso – si accasciò sul pavimento, arrendendosi alla
violenza dei conati.
Dalla stanza accanto la voce di Cecil fluttuò soave – il balsamo sulle
ferite. Almeno fino a quando una riflessione più accurata non trasformò quel
‘Astolfus, tutto bene…?’ nell’acida canzonatura che era in realtà.
Astolfus recuperò un minimo di respiro, ormai costretto a sputar via la
bile. Si alzò in piedi a fatica, aggrappandosi al lavandino, dove un minuto
dopo si ripuliva la faccia – momentaneamente rivitalizzato dalle gocce
fredde.
Come può andare tutto bene? Il mormorio
della sua coscienza si fuse al rumore dell’acqua corrente.
L’uomo – l’uomo! – di cui ti sei innamorato è tuo fratello, come può andare
tutto bene?
Pallido, sconvolto, si trascinò ancora
nella stanza adiacente, dove Cecil era quasi pronto, una visione in porpora
e pesante argento.
“…tu lo sapevi.”
“Mh” l’assenso di Cecil giunse cantilenato dalle sue morbide labbra,
socchiuse sullo spillone destinato a infilzare un cappellino sulla crocchia
lucente dei capelli biondi. Lunghi riccioli sfuggivano dal fermaglio
allentato, incorniciando il viso sbarazzino.
“Lo sapevi?” L’affermazione provocatoria – che attendeva un ridente ‘no’ in
risposta – mutò in una domanda incredula e convulsa, intrisa di paura.
“Lo sapevi?” disperazione, finanche.
“Oh sì” enunciò tranquillo Cecil, scrutandosi da ogni angolo, aggiustando
qualche ciocca sfuggita all’attività censoria delle abili dita.
“… noi siamo fratelli…?” era ancora scettico, ancora in attesa della parola
che sciogliesse lo scherzo crudele. Ma no.
Cecil si voltò lento – un capolavoro, un quadro – il viso atteggiato a quel
mezzo sorriso enigmatico che diceva tutto e nulla.
“Sì Astolfus, siamo fratelli. Cambia forse qualcosa?”
Le parole fluttuavano nella dolcezza estrema del suo tono, carezzevoli come
piume, ferivano più di schegge di vetro.
“Non sembravi tanto contrario all’idea di avermi, poco fa.”
Astolfus fu sul punto di ribattere, ma Cecil – ormai in piedi – gli si
avvicinò, zittendolo con un dito guantato sulla bocca.
“Non ha importanza. Ne parliamo dopo, se proprio vuoi.” Concluse
raccogliendo la borsetta e la stola e preparandosi ad uscire.
“… ma Cecil…”
“Niente ma, ho l’auto che mi aspetta. E niente ma.
Sei di mia proprietà, lo sai.”
E con queste minacciose parole disparve sulle scale, tra il fruscio della
seta e il profumo che si sprigionava dai suoi capelli.
*
Si sveglia di soprassalto dall’ennesimo incubo. Il pianto l’aveva
comodamente portato al sonno, un sonno pesantissimo e malsano; ora il sonno
stesso lo riporta alla veglia infinita e solitaria, luogo ideale del pianto.
Devono essere le due, le tre del pomeriggio. Difficile dirlo dai rumori
esterni – il traffico lungo la strada infuria con intensità costante durante
il giorno, e scema soltanto per un’ora o due di notte – né lo spicchio di
immutabile cielo azzurro svela l’arcano.
Il rumore ovattato dell’ascensore che arresta la sua corsa penetra a stento
nei suoi pensieri.
Passi sul pianerottolo, un breve silenzio in attesa, il silenzio di chi non
sa cosa fare e come farlo, ma che – ed è evidente – decide piuttosto in
fretta poiché una chiave gira rumorosa nella serratura e la porta d’ingresso
si apre e si richiude intorno al rumore di ulteriori passi.
Per un solo attimo sospeso pensa di essersi angustiato inutilmente per un
incubo troppo violento: quei passi, il profumo del mondo esterno misto al
profumo prezioso che gli era proprio, e infine la sua figura esile,
elegante, coronata dall’oro filato delle chiome.
Per un solo attimo.
Poi l’intrusa parla con voce cristallina di donna – no, di
bambina – e l’inganno frantuma lo
specchio che la disperazione ha sovrapposto alla realtà.
Guarda, è più bassa e piena. No, non meno
adorabile, ma diversa. Non è lui
ovviamente.
“Sapevo che ti avrei trovato qui” dice Vivi, poiché è proprio lei la
responsabile di quell’attimo di folle speranza.
Non le risponde, a stento costringe le palpebre a chiudersi e riaprirsi nel
duplice scopo di inumidire gli occhi bruciati dal pianto e di offrirle la
parvenza di un saluto.
Ma è un gesto istintivo, ed è come se non fosse mai entrata.
Vivi parla fin troppo. Argomenta in modo limpido concetti che non ha
intenzione di capire o di seguire. Vorrebbe che tacesse.
Se fosse in grado di parlare, le direbbe – in una pallida imitazione di quel
sarcasmo di cui lui era maestro
insuperato – che non sembra proprio una
persona che abbia appena avuto un lutto, mh?
“… so cosa pensi, sai? Che ho fin troppa energia nelle condizioni in cui mi
trovo.”
Touché.
“… questo non vuol dire che io soffra di meno, te lo posso assicurare. Era
anche mio fratello, sai? E’ stato lui a crescermi.”
Stai zitta.
Vorrebbe urlarglielo in faccia, ma non ha forza né voce. E fino ad un certo
punto la parte ancora coerente del suo pensiero riconosce quanto abbia
ragione. E’ irritante, ma ha ragione.
Non avevi pensato a lei quando hai
congegnato il tuo piano malefico, non è vero? E ora ti chiedi con colpevole
stupore cosa ne avresti fatto, della graziosa sorellastra, una volta
eliminata la causa del tuo estremo disagio.
No, non credi che avresti avuto la forza di... no, non sei neanche in grado
di far stare il pensiero tutto intero nello spazio angusto rimasto nella tua
memoria, invasa dai suoi ricordi.
E che lei sieda sul bordo del tuo letto, incoronata dell’angelica aureola
dei boccoli biondi, con quel visino fresco e giovane così simile al suo,
simile al punto da poter essere la sua gemella, e ti scruti con l’azzurro
vellutato degli occhi – e sì, ci sono ombre scure sotto i suoi occhi così
giovani, e che pure hanno visto tanto, forse persino troppo – e che lei
sieda sul bordo del letto, dunque, il ritratto della virtù sconfitta, non
aiuta neanche un poco.
“… dimmi cosa posso fare per te, te ne prego. Mi si spezza il cuore a
vederti così.” Mormora, e per quanto lui sappia di non trovarsi di fronte a
frasi vuote e di circostanza – Vivi è in pratica l’unica parente che gli
resti al mondo – non può che costringersi a pronunciare una sola breve
frase, che esce rauca e stenta dalla gola irritata.
“Vai via.”
Vivi è una ragazza intelligente, seppure un po’ frivola e ancora molto
ingenua – nonostante sia anche molto più saggia di una persona col doppio
della sua età.
Dunque si alza in piedi, lo saluta con l’invito a chiamarla per qualsiasi
cosa gli possa servire, e sparisce.
Di nuovo solo, riprende a fissare il soffitto, la striscia di cielo che
lentamente vira nei vari gradi dell’azzurro, incapace di trovare il bandolo
del sottile filo rosso aggrovigliato dei suoi pensieri.
*
Era già trascorso del tempo dal giorno
della rivelazione. E nonostante gli antichi detti abbiano in sé qualcosa di
estremamente poco originale e spesso neanche tanto veritiero, in questo caso
lo scorrere del tempo aveva curato in minima parte la ferita nell’orgoglio
di Astolfus; quella ferita che bucava il pallone rigonfio della sua presunta
morale, e ne faceva defluire la boria con il suono osceno di una pernacchia.
In minima parte, appunto.
Per quanto adamantino nella sua decisione
di ignorare i richiami insistenti della sua
coscienza, Astolfus trovava spesso difficile venirvi a patti. A volte, in
una pausa dalle turbinose attività orizzontali in cui spesso si trovava
coinvolto, tuttavia, gli risultava impossibile ignorarli.
"No."
Astolfus si ritrasse, spingendo Cecil lontano da sé, le labbra ancora
scottate dall'ardore dei suoi baci.
Per un attimo smarrito, lo sguardo di Cecil tornò subito lontano e glaciale,
l'angolo delle labbra scarlatte si arricciò in un sorriso pieno di sarcasmo.
"No?" cantilenò, scuotendo la testa e con essa la lunga chioma bionda, "ho
sentito bene? Hai detto… no?"
Astolfus sbattè le palpebre, il ronzio del sangue nel cervello sempre più
veloce, più assordante.
"Ho detto no. Cecil… io non posso."
Da quando aveva casualmente scoperto il terribile segreto, da quella singola
foto che aveva infranto l'ultimo riluttante residuo del suo equilibrio
mentale, Astolfus aveva iniziato una feroce battaglia con e contro se
stesso.
Al momento, il lato che egli si ostinava a voler considerare 'buono' aveva
preso il sopravvento, spingendolo ad allontanare Cecil.
Cecil inarcò un sottile sopracciglio, con fare dubbioso.
Estrasse uno specchietto dalla minuscola borsetta di materiale nero lucente,
e si controllò il trucco con affettazione, cancellando le minime tracce di
rossetto sbavato.
"Sei sicuro di poter resistere, mh?"
Astolfus annuì, ben lontano dal provare la sicurezza di cui si professava in
possesso.
"È tutto sbagliato Cecil, è tutto..." si interruppe, cercando le parole
giuste, "è tutto troppo."
Rialzò lo sguardo sull'altro, cercando di
conciliare gli impulsi contrastanti dell'istinto - che lo sospingeva beato
verso l'altro, verso la sua apparenza di estrema bellezza, gli faceva
anelare il suo tocco, la sensazione della sua vicinanza; e della ragione -
che gli sussurrava maligna e stridula la verità all’orecchio.
È tuo fratello sai, ha il tuo stesso sangue. E vedi il suo bel corpo in quel
vestitino stretto e corto? È il corpo di un uomo quello che tu desideri. Un
uomo bello come una donna, e peccaminoso...
Astolfus scosse la testa, ancora
combattuto, ancora in bilico.
"No, Cecil. Io non posso amarti come tu vuoi. Tu sei... tu sei..." Deglutì.
"Tu sei un uomo, e sei mio fratello. Io non posso."
L'aveva detto.
Trascorse un minuto, o forse un'ora, o forse pochi secondi.
Difficile a dirsi: il tempo aveva rallentato fino ad assumere il suono
distorto e grottesco di un disco suonato a velocità ridotta.
Astolfus - che pure si era aspettato parole di scherno da parte di Cecil, e
aveva cercato di evitarne i bordi sporgenti, fuggendo al contempo il suo
sguardo - rialzò lo sguardo, cercando sul volto dell'altro la chiave di
lettura di quel silenzio.
Quale non fu la sua meraviglia, temperata dallo stupore, nel vedere il fiero
azzurro degli occhi di Cecil inondato di lacrime pesanti, che gli rigavano
le guance, portando con sè tracce scure di mascara.
"Tu..." singhiozzò Cecil con suprema arte, "... tu non mi vuoi... è vero?"
Quando il silenzio di Astolfus si fu protratto troppo a lungo, Cecil si
sedette sul bordo del letto, prendendosi il viso tra le mani, la schiena e
le spalle scosse dai tremiti del pianto.
"Cecil, ascolta..."
"No" ribattè questi, scrutando Astolfus attraverso le dita, gli occhi
sottolineati dai rivoletti di lacrime miste a trucco. "No, non voglio la tua
pietà. Non voglio che cerchi di consolarmi." Tirò un lungo respiro tremante.
"Voglio soltanto te." Continuò, la voce ora ferma e chiara, venata da
sottile isteria. "Voglio soltanto te, e se non posso averti non ho più
alcuna ragione di vivere."
Astolfus sgranò gli occhi.
"Non dire idiozie!" esclamò, avvicinandosi al letto, ma Cecil fu più lesto e
s'alzò in piedi, addossandosi alla parete.
"Perchè vuoi che viva? Per darti la soddisfazione di vedermi solo e
respinto? Non..." una nuova ondata di lacrime gli riempì gli occhi,
rendendoli lucidi. "La mia vita non ha più senso."
Forse Astolfus avrebbe dovuto sospettare che si trattasse ancora una volta
delle sopraffine capacità drammatiche di Cecil. Ma l'alta emotività del
momento e il brillio della lametta che lo vide estrarre dalla borsa - come
se fosse un oggetto totalmente innocente da portare in giro tutti i giorni -
lo convinsero dell'onestà di quelle rivendicazioni.
"NO! Non ti avvicinare, o mi uccido!"
Le parole di Cecil lo fermarono quando fece per avvicinarsi di più.
"Non farlo..." incalzò Astolfus, fuori di sé per la preoccupazione.
Incapace di trattenersi oltre, si avvicinò il più velocemente possibile al
fratello, appena in tempo per strappargli dalle dita la lametta - che già
aveva iniziato la sua corsa pazza lungo il polso pallido.
Solo il morso gelido del metallo e la carezza tiepida del sangue che
scorreva segnalarono ad Astolfus di essersi tagliato a sua volta, ma egli se
ne accorse a stento, intento come era in una lotta per impossessarsi del
braccio di Cecil, e controllare l'entità del danno.
"Lasciami! Non hai detto che non ti importa niente di me?" strepitò Cecil,
dimenandosi per sfuggire alla presa dell'altro.
Impossibile, dopotutto Astolfus era più alto e pesante di lui. E più forte.
Quanto meno fisicamente.
"Non essere sciocco" lo zittì Astolfus, spingendolo contro la parete,
distraendolo dalla lotta col bacio che gli aveva negato poco prima, "io ti
amo, ti desidero, lo sai fin troppo bene."
Incurante delle ferite di entrambi, concentrato soltanto sul corpo stretto
al suo - caldo e vivo per fortuna - Astolfus non si accorse del sorriso
compiaciuto che si distese sulle labbra di Cecil, inondando i suoi occhi di
scottante malizia.
*
L’ennesimo squillo del telefono lo strappa all’ultima allucinata fantasia ad
occhi aperti. Quanto tempo è trascorso?
Se è Vivi – e che sia lei è evidente, quando la sua voce erompe preoccupata
dalla segreteria – devono essere passate almeno due ore, il tempo
strettamente sufficiente alla ragazza per tornare alla Maison.
Un breve attimo di sanità lo proietta sul luogo – una ragazza così giovane
ora priva dell’ultimo sostegno nel grande mondo a gestire il caos di quello
che è – in effetti, una volta scartate tutte le altre considerazioni – un
ufficio come tanti, che va coordinato con perizia e dedizione.
Ora che la Star è scomparsa, Vivi dovrà elaborare il lutto in fretta,
raccogliere le fila, riordinare quanto è rimasto.
Poco importa che la Maison sia quello che è, un bordello dal lusso sfrenato,
che racchiude – racchiudeva – gemme preziose come Cecil.
È l’unico mondo che Vivi possa riconoscere come proprio – non perché non
abbia visto altro, ma perché ritiene che sia quello più adatto a lei –
l’unico in cui possa vivere.
Vivi, che pur preoccupata per Astolfus è tornata alla reception della Maison
e sta sbrogliando una dopo l’altra una serie di telefonate incredule,
rabbiose, tristi, persino irridenti.
Vivi è un altro tassello nel mosaico della confusione di Astolfus.
La sorellina dall’aspetto angelico, puro, quasi virginale nonostante il
trucco un po’ troppo accentuato e gli abiti che sono una – seppur casta –
replica di quelli di Cecil.
L’adolescente dall’intelligenza spiccata, che illumina dall’interno lo
specchio degli occhi azzurri; e che pure è riuscita a mantenere una
chiarezza, un
candore che Astolfus non pensava
potesse sussistere in un ambiente del genere.
La verità è che Vivi è la copia vivente della madre, la madre di Cecil. La
madre di Astolfus.
Tua madre. Cosa pensi di tua madre?
Cerca di sviare il pensiero, di concentrarsi su qualcos’altro. Ma non c’è
nient’altro. E’ giunto infine al nodo della questione, almeno con se stesso.
Nasconde il viso nel cuscino, lievemente calmato dalla carezza sottile del
cotone sulla pelle.
Se avessi cercato di parlare con Cecil,
forse non saresti arrivato a questo punto?
Ah, se solo potesse schiacciare sotto il tacco l’insolente voce della sua
coscienza.
Dillo, dillo ad alta voce.
Era come se la sola esistenza di Cecil minasse il romantico ricordo che
avevi di tua madre, dal quale avevi puntigliosamente espunto ogni dettaglio
meno che rispettabile?
È così, e non sa più come negarlo, neanche a se stesso.
Portato via dal padre fotografo, cresciuto lontano dalla madre e dai
fratelli, al punto da perdere ogni contatto con loro, si è aggrappato con
tenacia ai ricordi migliori, scartando liberamente i dettagli che non aveva
capito da bambino e che da adulto ha rifiutato con tutta la sua forza,
sperando di evitare la contaminazione.
Perché Cecil era troppo per te.
Troppo attraente, troppo affascinante, troppo pericoloso, un’incognita e
allo stesso tempo un fattore fin troppo noto, così
familiare – e sussulta sul doppio
senso non voluto – e così estraneo.
Un bel casino.
Un bel casino, come disse una volta Vivi da piccina, se lo ricorda
chiaramente. Aveva sentito la parola da qualche adulto, ma l’aveva usata con
la sfrontata prontezza di chi ha lunga pratica di certe espressioni. Se la
ricorda quasi con tenerezza, la bimba paffutella affacciata sulla soglia di
una camera da letto invasa da un disordine allusivo.
Un bel casino davvero.
*
Note musicali come gocce di pioggia sul
piatto del giradischi, appoggiato sul tavolino da trucco, di fronte a un
pubblico fitto di boccette e flaconi, prima su tutti la sofisticata, frivola
bottiglia del profumo, in cristallo lavorato, coronata dall’atomiseur
in vezzoso verde smeraldo.
Quando per la prima volta Astolfus aveva posato lo sguardo su Cecil, sulla
gloria del suo corpo snello fasciato da pvc nero, sull’espressione volitiva
del viso, incorniciato dai lunghi capelli biondi, avrebbe mai potuto
immaginare di ritrovarsi, non molto tempo più tardi, in quella sua stanza da
star di Hollywood anni ’50?
Tutto in Cecil era concepito per sconvolgere. Anche le note lente e sognanti
di una Edith Piaf d’annata, che frusciavano languide sotto la puntina.
C’era qualcosa di diverso dal solito.
... de l’homme au quel j’appartiens... quand il me prend dans ses bras...
Non che Astolfus avesse necessariamente
voglia di indagare sull’impalpabile differenza.
Certo non mentre veniva spinto da Cecil nel letto – sempre sfatto ma non per
il motivo più banale – giù col capo nel cuscino profumato, e poi subito
assalito dalle sue labbra, dalle sue mani, sfiorato dai suoi capelli
morbidi.
C’era un languore, una lentezza nient’affatto spiacevole nei gesti di Cecil
che ben s’accordava con il sapore dolce della canzone.
Se non avesse avuto timore d’illudersi, Astolfus avrebbe potuto pensare che
tutto ciò volesse dire qualcosa. Che per una volta, piuttosto che cedere ai
desideri della carne e fare del sesso sfrenato, lui e Cecil stessero invece
consumando un atto d’amore.
Ma non osava, e non importava poi tanto. Non era il momento di perdersi in
filosofiche speculazioni.
... il est entré dans mon coeur...
“Cecil…” aveva iniziato, ma l’altro non
aveva inteso o forse aveva finto di non sentire; non sarebbe certo stata la
prima volta.
Con un sorriso dalla più dolce malizia, Cecil si era lasciato possedere con
molle abbandono, per niente simile alla consueta corsa al piacere violento,
quasi una lotta per il predominio.
E come sempre accadeva, Astolfus aveva finito per obbedire ad ogni suo
desiderio, fingendo di non ascoltare la piccola voce che gli diceva che se
ne sarebbe pentito più tardi.
... les ennuis, des chagrins s'effacent… heureux, heureux à en mourir...
*
La verità amara gli sbatte in faccia ciò che ha voluto negare fin
dall’inizio. Ciò che ha creduto di poter controllare ed evitare. L’amava,
l’ha amato più di quanto abbia mai ammesso, e ora non potrà più raccogliere
il coraggio per dirglielo, o trattenersi dal farlo nell’estasi post-coitale,
non potrà più vederlo, toccarlo, parlargli.
Il suo influsso non è sparito con la morte; è vivo e vegeto in ciò che resta
di lui.
Abiti, cosmetici, una sorella minore, lui stesso.
Pensava che eliminata la componente principale del suo disagio sarebbe
tornato come un tempo?
Ma no, è contaminato, non c’è alcun modo di guarire.
Adagia il capo sul cuscino, il viso di nuovo illuminato dalle scie delle
lacrime.
Che hai fatto
Nella confusione febbrile inizia a pensare che la premeditazione abbia
potuto in qualche modo influire sul corso degli eventi.
Se non avessi pensato di ucciderlo,
qualcuno l’avrebbe fatto per te ugualmente, salvandoti dal senso di colpa
immediato e proiettandoti di fronte al ventaglio delle possibilità, ognuna
distinta da un crudele ‘e se…’?
Non importa quanto lo rivoglia indietro, con tutta la sua crudeltà
deridente, il sorriso velenoso, la lascivia temperata dal fievole brillio
nei suoi occhi, che non ha mai osato provare a interpretare.
Non ti amava, sai. Non eri che un trastullo
nelle sue capaci mani, mormora la voce, eppure lui prova a
dissentire.
Come dimenticare del tutto quegli attimi in cui sembrava che un sentimento
(… amore? Ma sì. Perverso e distorto, ma in qualche modo amore) filtrasse
dall’azzurro dei suoi occhi, come ascrivere il rossore soffuso sulle sue
guance di solito fresche soltanto alla bieca lussuria?
Non ti ha mai amato. Sei solo un trastullo
nelle sue mani. Anche ora che è morto.
Un gemito gli squassa il petto, si condensa in un singhiozzo rauco.
Non sarebbe mai riuscito a premere il grilletto dell’arma che dorme, ignara
sul comodino.
Neanche snocciolando truce gli innumerevoli capi d’accusa, nemmeno coprendo
d’una corazza di ferro il tessuto cedevole e scoperto del suo cuore.
Vile.
“… vile” mormora. Una grattata di carta vetro sulla mucosa già abrasa della
gola.
Sei solo un vile, lo sei stato fin dal
principio.
Allunga la mano per prendere altro zucchero, le sue dita incontrano freddo
metallo.
Le ritrae, come scottato, poi le appoggia di nuovo, finché la pelle non
tocca di nuovo quel gelo.
Un’idea esplode dal nulla, in pochi secondi è già formata in tutti i
dettagli – nucleo iniziale che si espande nell’intero universo dall’istante
zero – un piccolo Big Bang.
Non ci avrebbe mai pensato. Né credeva che l’avrebbe mai preso in
considerazione.
Le sue dita si stringono sull’arma.
Sì.
Mettere fine a quel dolore lacerante – neanche un rapace si divertisse a
straziargli viscere e cuore per pura protervia – mettere fine al dilemma che
non sa, non può risolvere in alcun modo.
Non può neanche fregiarsi – o vergognarsi, a scelta – dell’aver deciso
altrimenti e dell’aver frenato lo slancio omicida.
Altri hanno colpito prima di lui. A tradimento.
Sceglie dunque l’oblio. A occhi sbarrati solleva l’arma, più pesante di
quanto ricordasse, o forse è solo lui più debole.
L’appoggia alla tempia, toglie la sicura.
Frasi melodrammatiche da film di un certo tipo gli attraversano la mente in
un momento tanto serio.
“… se non posso averti, nessun altro ti
avrà…”
“… non posso vivere senza di te…”
Le scaccia via a forza, recupera il labile filo della concentrazione.
Con un sospiro sollevato, preme il grilletto.
Nel silenzio stupito che segue lo sparo, il telefono riprende a squillare.
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