I giardini di pietra

capitolo I

di Unmei



Anno 1914

Ad ogni inverno è sempre peggio: gelo e umidità mi fanno star male: mi ammalo facilmente, tossisco fino a farmi mancare il fiato e il mio respiro sibila.....a sentirmi faccio pena e schifo persino a me stesso. Il medico pretenderebbe che restassi chiuso nella mia confortevole casa, al caldo, con una coperta sulle ginocchia, impegnando il mio tempo al più leggendo, evitando ogni fatica, uscendo raramente, rinunciando alle mie sigarette. Tanto varrebbe seppellirmi subito, che, in ogni caso, le mie ragioni di vita sono ormai esaurite da tempo.
Non do mai retta a quel segaossa e anche oggi sono uscito, tra i rimproveri di quella seccatrice della mia governante (gran brava donna, per carità, ma più opprimente di una moglie!) e infagottato nel mio cappotto scuro ho passeggiato fino a qui, lungo una strada che mi sembra sempre più lunga, giungendo ancora una volta ai miei amati giardini di pietra..... giungendo fino a te.

Questo posto è pieno di quiete e silenzio, altrove non potrei sentirmi altrettanto bene, non potrei mai trovare una simile pace se non in questi vialetti di ghiaia chiara, in queste lunghe gallerie dove i miei passi echeggiano su un pavimento di lapidi .
C'è tanta triste e decadente bellezza intorno, un senso di speranza, paura e attesa, e per me anche il ricordo dolce-amaro, la prova scolpita nel marmo candido di chi ero un tempo.....e la consolazione che un giorno, che ormai non credo lontano, anche io sarò solo un nome su una di queste pietre: Riccardo Varni. - Scultore.

Sì, un tempo lo fui, e uno dei migliori: sentivo la grazia e il calore pulsare sotto il freddo marmo, in attesa che io li liberassi, così come il pittore già vede sulla tela ancora immacolata splendere la sua opera, così come lo scrittore brucia notti e candele per raccontare di personaggi che non esistono e che tuttavia sono più vivi di lui.
Era l'arte che adoravo, il mio primo amore.....i primi amori sempre finiscono, si dice, ma non questo; quanto ancora vorrei far vivere la pietra, quanto farebbe sentire vivo anche me stesso. Mi pesa sentire il richiamo di una musa crudele che m'ispira, m'invita seducente ben sapendo che non posso più soddisfarla come dovrei.
Le mie mani.....un tempo così forti, quanto le odio ora che sono inutili, deformate dall'artrite, avvizzite e doloranti; quasi non riesco più a reggere il pennino, figuriamoci uno scalpello. Esse sono deboli come tutto il resto di me, come la mia salute.....in gioventù mai avrei creduto che un giorno avrei rimpianto quel mio corpo che mi sembrava così ordinario, ma che era forte e sano.
Ero alto, e mi sono dovuto curvare sotto il peso degli anni senza la possibilità di ribellarmi, nonostante tutto il mio orgoglio..... né avrei mai immaginato di ricordare con nostalgia il mio volto olivastro e un po' squadrato, invece ora lo faccio tutti i giorni, guardando nello specchio quell'odiata ragnatela di rughe: no, quella maschera non sono io.
C'è una parte del mio cuore rimasta immutata, lì un giovane uomo di trent'anni mi urla di smettere di compartirmi e di tornare a essere me stesso.
Ma che ne sa lui?
Io ho ottant'anni, e non trenta, e tutto di me sta cadendo a pezzi.

Una cosa però è ancora buona: la mia vista. È perfetta come quando ero un ragazzo, e così ti posso vedere chiaramente, eternamente giovane nel marmo; alzo lo sguardo verso di te e ancora una volta mi riempio della tua bellezza, della tua dolcezza, di quell'espressione incredibile che avevi e che non mi è nemmeno riuscito di cogliere del tutto.
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha formato questa statua, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che ti ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che ti copre le gambe, nel lievissimo sorriso che ti increspa appena le labbra.....in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere sulla tua schiena, c'è la mia dichiarazione d'amore per te.
Cinquant'anni fa.....mezzo secolo.

************************ Prefaz********************


Avevo trent'anni ed ero abbastanza famoso; lo sarei diventato di più, avrei insegnato nelle migliori accademie, ma ancora non lo immaginavo, e mai la vita avrebbe potuto apparirmi più rosea. Che può volere di più un artista se non vedere lodate le sue opere? Non è forse l'arte stessa la forma suprema, e tuttavia pura, d'egoismo e narcisismo? L'artista crea in primo luogo per se stesso, sempre, tutto il resto è secondario.....e se mai lo fa con lo scopo principale di guadagnare diventa una specie di puttana che per denaro finge piacere o amore.
Ho sempre scolpito per amor della bellezza, per l'orgoglio e la vanagloria di cui mi riempivano le lodi, e se da ciò traevo anche da vivere il fatto era per me assolutamente secondario.
Quando il signor V.S., uno degli uomini più facoltosi della città, si rivolse a me perché realizzassi un'allegoria per la sua tomba di famiglia, in quello stesso cimitero che ospitava opere di artisti di una fama che andava ben oltre la mia mi sentii onorato; ancora prima che terminasse la sua proposta avevo già nella mente quello che avrebbe dovuto essere il risultato finale.

La sera stessa iniziai a lavorare, a tracciare schizzi, poi a realizzare piccoli modelli, e infine presi a scolpire come un matto, invasato da quello che gli antichi avrebbero chiamato un 'fuoco sacro'.
Nulla mi faceva sentire meglio..... né i miei amici, né l'amore. Ero capace ci trascurare chiunque e qualunque cosa solo per lui, solo per il mio candido marmo.

Passarono settimane, mesi, e lavorando a quel ritmo riuscii a finire anche prima del previsto, e a trovarmi soddisfatto della mia opera, anche se non del tutto. Il sarcofago era scolpito con una perizia che stupiva anche me stesso, così le urne, le ghirlande. In alto, su un trono sedeva la Fede, dalle sembianze di una donna incoronata, e a lei volgeva gli occhi un riccioluto angelo triste che era la Speranza; ma mancava ancora qualcosa.....avrei voluto un altro angelo a guardia della tomba, a custodire chi vi fosse sepolto per gli anni a venire, vegliando fino alla supposta resurrezione.
Resurrezione..... una cosa a cui io credevo, e credo, ben poco: la morte spegne una luce, ma non ne accende nessuna in cambio. È la fine di tutto, il cadere del sipario, lo spiegarsi del sudario..... un buio Sonno Eterno.
Ecco chi sarebbe stato l'altro custode del sepolcro!
Ma che viso può avere un angelo che rappresenti qualcosa che tutti temono? Desideravo un volto insolitamente bello, dolce, perché nei miei pensieri la Morte, per quanto fosca, non è mai stata spaventosa; l'ho sempre vista come un abbraccio d'oblio che ti scioglie da ogni miseria, o che almeno ti risparmia quelle che altrimenti la vita ti infliggerebbe.
Nonostante mi sforzassi riuscivo a immaginare un viso adatto, niente che incarnasse la mia idea; se un angelo della morte esisteva, a me precludeva la sua vista.

Era la fine di novembre, allora come adesso, ma il gelo che mi entrava nelle ossa ancora non mi faceva star male, anzi, lo amavo quel mese da tanti considerati grigio e triste, non più autunno, non ancora inverno, umido di pioggia e carico di nebbie, aveva per me più poesia di tutto il resto dell'anno messo assieme. Probabilmente il mio carattere tendeva alla malinconia già a quei tempi, ma ero troppo fiducioso in me e nel mio futuro per accorgermene; giovane e convito che tale sarei rimasto per sempre.
Quel pomeriggio entrai nella caffetteria senza quasi accorgermene, un locale vecchio e piccolo, in un quartiere in cui passavo raramente. Il posto era fumoso, il pavimento di legno era coperto da un sottile strato di segatura.....avrei semplicemente bevuto il mio brandy caldo e sarei subito uscito, non fosse stato per la persona che, in piedi al centro della sala, suonava meravigliosamente il violino. Una melodia malinconica, che si sarebbe accordata a tramonti sfocati dalla nebbia, al fuoco morente in un camino..... un Capriccio di Paganini, il ventunesimo

Sono un artista, la bellezza mi folgora, mi ammalia al punto dall'estraniarmi da tutto, da rendermi immemore del tempo che scorre, e affascinato potrei passare ore a osservare un dipinto, una scultura, la vetrata di una cattedrale e i giochi della luce che la attraversa, e così pure rimasi incantato, senza parole, davanti al musicista.

Il ragazzo suonava con gli occhi chiusi ed un vaghissimo sorriso, completamente inebriato dalla sua stessa musica e non so dire se fu la bellezza della melodia o quella di colui che la eseguiva a incantarmi. Il suo viso era incantevole, delicato; non sembrava maschile, ma certo nemmeno femminile, quasi fosse quello di un bel fanciullo, cresciuto senza che i tratti e gli zigomi si affilassero nel raggiungere l'età adulta.
I capelli erano piuttosto lunghi, sparsi sulle spalle, di un castano chiarissimo e dorato, quasi biondo, piuttosto puliti e curati, nonostante egli non avesse certo l'aria di essere benestante.....o meglio, gli abiti che indossava erano di ottima fattura, chiaramente realizzati da una sartoria pregiata, ma erano consumati e lisi; la rendigote gli era un po' stretta di spalle, i pantaloni consumati sulle ginocchia.
Andandogli più vicino lo osservai e cercai di esaminare lo strumento che stava suonando: un pezzo d'artigianato pregiato, dal suono perfetto, e certo nessuno meno che facoltoso si sarebbe potuto permettere qualcosa di simile. Nella sua miseria possedeva una dignità ed un portamento che avrebbero fatto sfigurare anche un signore dell'alta società.
Chi era quel giovane? Era forse stato ricco, prima di conoscere la povertà?

La musica accelerò e poi finì, e lui si inchinò, un movimento sciolto e leggero, e mentre tutti gli altri presenti lo applaudivano e gettavano monete nella custodia del violino aperta ai suoi piedi, solo io ero rimasto immobile, con il cappello in mano, a fissarlo come fosse un'apparizione divina.
Lui rialzò la testa e mi vide, e dovevo sembrare ben un idiota, perché sconcertato ricambiò il mio sguardo, e poi sorrise e fu come se tutto il suo viso si illuminasse; i suoi occhi verde foresta luccicarono come se avesse capito fino a che punto ero stato conquistato.
.....Gli avessi voltato le spalle, me ne fossi andato, fossi fuggito da quel posto e da lui, forse sarebbe stato meglio.
Sicuramente sarebbe stato meglio.
E invece rimasi, segnando la mia vita.
Mi avvicinai ancora di più, avrei voluto esprimere con parole eloquenti quel che avevo pensato di lui, l'emozione che mi aveva donato la sua musica, ma mi riuscì di fare solo un gesto con le mani, e di proferire un misero:
"Sei bravissimo."
Lui sorrise ancora, e portandosi una mano al petto accennò un mezzo inchino, dedicato a me soltanto.
Come poteva il suo viso essere così espressivo, come poteva riuscire a esprimersi meglio con un solo sguardo che con mille parole? Un volto senza sesso e senta età, un sorriso così mesmerizzante.....e lì il pensiero mi colpì: poteva essere lui, il mio angelo della morte? Dopo essermelo chiesto capii che per lui non avrei più potuto pensare a nessun'altra incarnazione.
Ma il mio violinista già aveva raccolto la sua roba e se ne stava andando.

"Aspetta!"
Lo chiamai, quando ormai era già sulla soglia, una mano sulla porta; lo raggiunsi e prendendolo per una spalla lo feci voltare verso di me, un gesto sgarbato e invadente, lo so, ma probabilmente ero fuori di me stesso, e penso che possa valere come giustificazione
"Scusami, io.....io vorrei proporti un lavoro."
Dissi, incrociando la sua espressione sconcertata; tale richiesta non faceva che confermare che stavo sragionando, perché altrimenti mai e poi mai mi sarei comportato in maniera simile; per dio, immagino di essere sembrato una specie di pazzo pericoloso! Così mi presentai in maniera più civile, gli dissi il mio nome e cognome e il mio mestiere, sperando di sembrare un po' più un uomo per bene, e riformulai la richiesta.
"Devo finire un gruppo scultoreo, mi serve un modello. - tacqui qualche secondo e aggiunsi di fretta - Oltre ad una paga posso anche offrirti vitto e alloggio fino al termine dell'opera, se ne hai bisogno."
.....e con il freddo che faceva, avevo ragione di credere che la prospettiva di una casa riscaldata fosse per lui più che piacevole.
Inarcò le sopracciglia e mi sorrise ancora.....prese la mia mano e la strinse brevemente. Poteva essere un assenso, quello? Che strano ragazzo.....
"Io mi sono presentato.....tu come ti chiami?"

Si portò una mano alla base della gola e con l'altra indicò la propria bocca socchiusa; facendo quel gesto scosse lievemente la testa, facendo ondeggiare i capelli.
Capii quel che voleva intendere, e intesi anche il perché le sue espressioni erano così intense.
Era muto.
Prese ancora la mia mano, e sul palmo tracciò dei segni, lettere dell'alfabeto in uno stampatello grande e chiaro.
"Florent."
Tradussi, quando ebbe finito.


Così, da quel locale in cui ero entrato da solo, uscii in compagnia, con al fianco un ragazzo di cui nulla sapevo se non il nome; gli avevo offerto ospitalità così impulsivamente che io per primo mi sconcertavo..... ma sia benedetto l'impulso, quando esso nasce dalla bellezza.
A guardarlo quasi mi sentivo impacciato, per l'intensità dei suoi occhi, per il portamento sicuro..... era fiero come mi immaginavo fossero i principi russi, nobili figli di zar. Insieme, però, egli sembrava dolce, e lo era davvero, come avrei poi scoperto: dolce, profumato e vellutato come miele tiepido......ma tutt'altro che fragile, o indifeso, un'altra cosa che avrei sperimentato di persona. La sua forza, il suo carattere, avrebbero potuto fare e disfare il mondo intero, dominare la vita di chiunque.... Lui avrebbe potuto far danzare l'universo sulle corde del suo violino. Mi schiarii la voce e mi inumidii le labbra, nervoso mia malgrado..

"Hai qualcuno da avvisare? Devi prendere delle cose? Non so, ti serve forse....."

Lui mi interruppe scuotendo la testa, continuando a guardare deciso davanti a sé e trovai triste che non avesse niente e nessuno di cui preoccuparsi; significava una completa solitudine, un vivere solo per se stessi e con se stessi: né famiglia, né casa, né amici, né averi, quasi non avesse nemmeno un passato a cui guardare, quasi lui passasse per questa terra senza lasciare traccia se non l'eco della sua musica.
Nel freddo non tremava, come certe rose che riescono a fiorire persino a novembre, resistendo fin quando la neve non arriva a coprirle.

Salimmo su un landau e comandai al cocchiere l'indirizzo di casa mia; attraversammo la città infreddolita, passando davanti a ricchi palazzi e a mendicanti laceri, vecchi barcollanti e bambini infagottati per mano alle loro madri. Superammo una curva ed avemmo davanti l'aspro mare che non mi stanco mai di contemplare; respirai un vento freddo profumato di salsedine, guardai il sole che impallidiva per lasciare spazio all'oscurità, tingendo il cielo di un colore violaceo. Sentivo solo il rumore degli zoccoli del cavallo; se avessi teso l'orecchio forse avrei anche udito l'amore arrivare.




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