E' nata una sera questa storia, a mezzanotte passata, mentre stavo per andare a letto.
E' arrivata di soppiatto e non mi ha lasciato fino a che non ho messo la parola “FINE”. Circa verso le due!!!
Ad aiutarmi concretamente è stato...mio figlio, diciamo così!!
E quindi è dedicata tutta a lui!!
Buona lettura!

 

 


 

 

I gessett colorati

 

 

di Parsifal

 

 


Venne qualcuno nella mia vita, quando questa era tutta bianca e nera.
Venne e portò con sé tanti gessetti colorati.
Non solo la riempì con quei colori... ma mi insegnò anche ad usarli.
Che cosa ne feci io di quei gessetti quando lui se ne andò?
Resto con la foto in mano e questa domanda continua a girare nella mia mente,
veloce, tremendamente veloce.
Non mi lascia il tempo di pensare ad una probabile risposta, non mi lascia il
tempo di tornare lucido e freddo.
Mi assale, non mi dà tregua.
Con un colpo secco della mano faccio cadere a terra la scatola con tutte le sue
dannate foto  e mi alzo, andando davanti alla finestra.
Non lo volevo tra i piedi.
Non volevo nessuno attorno a me.
Non è che ce l’avessi con lui in particolare.. a dire il vero era con tutto il mondo
che ero incazzato.
Chiuso.
Ostinatamente chiuso in me stesso.
Trincerato nel mio mutismo, nel mio voluto isolamento.
A scuola non guardavo nessuno, non parlavo con nessuno.
A stento mi facevo interrogare, diciamo che non avevo nessun’altra scelta..
Ma tutto finiva lì.
E mi stava bene.
La mia famiglia era esattamente come me.
Quindi per me questo era l’unico modo possibile per vivere.
Bianco o nero.
Al limite il grigio.
Come questa foto.
Eppure, ogni volta che la guardo... vedo soltanto la luce che lo illumina.
E tutti i suoi colori.
Tutti quanti.
Nessuno escluso.
Era un giorno di Primavera quando arrivò.
Il primo giorno di Primavera.
Nemmeno a dirlo... non l’ho mai potuto sopportare, fin da piccolo.
A sedici anni non è che ero tanto maturo e responsabile, ma del tutto convinto di
esserlo.
Questo sì.
Però non conosco nessuno che lo sia... nessuno a parte lui.
Nuovo arrivo, nuovo compagno di classe addirittura.
Banco vicino al mio.
Lo odiai a prima vista.
Troppo diverso da me.
Troppo solare.
Troppo sorridente.
Troppo tutto.
Lui lo capì subito che non lo potevo sopportare, del resto quando uno ti saluta con
una testa voltata dall’altra parte hai poco da scegliere.
Che cosa avrebbe fatto un qualsiasi ragazzo normale?
Mi avrebbe reso pan per focaccia... vero?
Bene... lui fece tutto l’opposto.
Iniziò a tirare fuori i suoi gessetti colorati.
Uno ad uno.
Ogni giorno ne aveva uno diverso e fino a che non riusciva a sporcarmi le mani e i
vestiti, non si fermava.
Riuscì a farmi ridere.
Quello fu il gessetto dal colore giallo.
Portò a scuola una rana quel giorno.
Era il suo esperimento di scienze.
Dovevamo portare un insetto che avevamo visto fin dall’inizio della sua evoluzione.
Lui quella mattina memorabile portò a scuola... una rana.
Piccola e... brutta.
Terribile.
Allo stupore del professore rispose che... quella era l’ultima evoluzione del suo
insetto.... che era finito nella pancia della rana.
Mi ritrovai con le labbra inequivocabilmente alzate verso l’alto.
Il mio primo, incredibile sorriso.
Il colore giallo.
Ma quando piansi fu ancora più incredibile.
La prima volta che permettevo alle lacrime di lasciare la loro forzata prigione.
Quello fu il gessetto dal colore viola.
Non la dimenticherò facilmente quella mattina.
Venne una leggera scossa nella nostra città.
Il quarto grado, nulla di grave ma... tutti ne approfittarono per riversarsi nei
corridoi e poi, come un fiume in piena, giù dalle scale fino alle uscite.
Panico e divertimento mescolati insieme...
Fummo obbligati a lasciare le aule e l’ordine tanto sognato dai professori andò a
farsi benedire quasi subito.
Io mi trovai travolto da tanti piedi e mani che spingevano, palpavano, strappavano
per poter passare per primi... e caddi giù dalle scale.
In mezzo ad anfibi e scarpe da ginnastica.
Non so come sentii il suo grido in mezzo a tanti... e non so nemmeno come facevo
ad essere sicuro che era lui che urlava il mio nome.
Eppure non ebbi il minimo dubbio quando mi ritrovai al pronto soccorso con la
scapola rotta e due costole incrinate, che dovevo a lui la mia parziale incolumità.
Perché quelle mani che mi avevano afferrato in mezzo alla calca, erano le sue.
Era riuscito a portarmi fuori sulle sue spalle... peccato che appena fuori, non si
sa chi, l’aveva spinto a terra e aveva usato il suo braccio come tappetino.
Forse mi aveva salvato.... a costo del suo braccio.
La prima volta che qualcuno faceva una cosa del genere per me.
Nemmeno i miei avrebbero speso mezzo gesto per aiutarmi.
Ne ero e ne sono tutt’ora sicuro.
Quello fu il colore viola.
Andò avanti così per tutti e tre gli anni che restò con me.
Due e mezzo per essere esatti.
Uno ad uno mi insegnò ad usare i suoi accidenti di gessetti e io, lentamente,
imparavo a parlare con lui.
A sorridere per lui.
A piangere in lui.
E a vivere.
Ma il suo capolavoro fu l’ultimo, quando mi insegnò ad amare.
Il gessetto dal colore rosso.
Guardo ancora la foto che stringo tra le mani.
Io ho la mia solita faccia arrabbiata... eppure... eppure c’è cura nei vestiti,
ricercatezza nella pettinatura.
Cose che non avevo mai fatto.
Non ho un quarto di sorriso nemmeno per sbaglio, ma la sua gamba premuta
accanto alla mia, mi stava immergendo nel suo mondo dorato.
In quel giallo intenso e soffocante, striato di rosso scuro.
Quando mi accorsi che mi aveva insegnato ad usare tutti i suoi colori?
Quando mi ritrovai sotto casa sua a chiamarlo, in piena notte.
Perché avevo trovato mia madre a letto con uno che non era mio padre.
Io dovevo dormire quella notte, non mi ero mai svegliato in sedici anni, nemmeno
una volta.
E mio padre doveva essere via per lavoro.
In effetti papà era via per lavoro... ma io, per la prima volta, mi svegliai.
Influenza credo... bruciavo per la febbre.
Scambiai la camera di mia madre per il bagno, visto che erano vicine.
E lì dentro li vidi.
Uscii così come stavo, con lei che gridava il mio nome.
E andai dall’unico che mi aveva cambiato fino al punto da farmi reagire in quel
modo.
Mi fece entrare e salii nella sua camera.
Passai la notte senza riuscire a smettere di piangere, la camera completamente
dipinta da quel colore viola così intenso... così violento... così vivo e disperato.
Appoggiato sul suo petto piansi tutte le lacrime che mai avevo pianto.
Consapevole che, finalmente, in quelle ore angoscianti, il rosso aveva preso
definitivamente il posto del bianco e del nero.
Il rosso, rosso come l’amore che provavo per lui.
Il viola, viola come il dolore che mi stava rigenerando.
Il giallo, giallo come il sorriso che era riuscito a trovare in me.
Il verde, verde come la speranza che non ero morto dentro.
Fino a che provavo quei sentimenti io non ero morto.
E l’azzurro... azzurro come i suoi occhi intensi su di me.
Occhi che celavano un mistero per me insondabile.
 
Il tramonto accende la stanza con il suo fuoco.
Mi scuoto dalla mia posizione e torno sui miei passi.
Mi chino e raccolgo le foto.
Tutte foto sue.
Le metto a posto, una ad una.
Si sono fermate al nostro diploma.
Fino a quando i suoi sono partiti per l’America.
Lui era figlio di un militare di carriera.
Gli avevano offerto il trasferimento per tre anni e lui aveva accettato.
Trascinando con sé tutta la sua famiglia.
Sono passati diciotto mesi... ne devono passare ancora diciotto.
Ho contato anche le settimane e i giorni... ma questo non me lo fa sentire più
vicino.
Quando se ne andò, mi affidò i suoi gessetti, i suoi amati colori.
Con il compito di usarli e di farli usare a tutti quelli che vivono in bianco e nero,
come facevo io quando lui mi aveva conosciuto.
Che ne ho fatto io invece, di quei colori?
Li ho chiusi in una scatola, insieme a tutte le sue foto, per non soffrire più.
Per non essere travolto da quel dolore che mi stava uccidendo.
Per vigliaccheria ho messo tutto a tacere.
Per viltà sì, per pigrizia anche.
Non volevo più sporcarmi le mani, questa era la verità.
Ancora diciotto mesi.
Ci scrivevamo via internet.
Ogni sera, attraverso la posta elettronica, lo chiamavo e lui era lì, anche se là il
fuso orario gli avrebbe fatto fare tutt’altra cosa.
Mi aspettava e cercava di infondermi quell’amore per la vita che mi aveva lasciato
quando se n’era andato.
Ma a me non bastava più.
Dopo sei mesi smisi di cercarlo.
Lo volevo con me, disperatamente.
E il tempo non passava mai.
Mi stavo chiudendo di nuovo.
Mi ero chiuso di nuovo.
Perché allora oggi ho ripreso in mano quelle foto?
Perché oggi mia madre se n’é andata via con quell’altro.
E si è portata via tutte le sue cose, comprese le nostre foto.
Mi ha lasciato, sul tavolo, questa scatola:
E io, tornando a casa dall’Università, l’ho trovata.
E il mio cuore si è fermato.
Per tornare a battere più veloce.
Molto più veloce di prima.
Vado nella mia camera con le foto in mano, apro il PC e lo scanner.
Scannerizzo la foto, la salvo nei documenti e... apro la posta elettronica.
Infine gliela mando mentre le lacrime mi appannano gli occhi
come quella sera, a casa sua.
Sul suo petto.
Con i suoi colori addosso.
La mia casella di posta è piena delle sue mail mai aperte.
Ce ne sono più di cento... e l’ultima è di tre ore fa.
Non si è arreso.
Non si è mai arreso.
Ne apro un pò a caso... parlano tutte di quello che gli succede là, sono una specie di diario, condito con aneddoti divertenti e riflessioni serie.
Non si è mai arreso.
Mai.
Nemmeno un piccolo cedimento.
In dodici mesi non ha ceduto nemmeno un giorno.
Mi arriva subito la sua risposta.
E’ seduto davanti al suo PC anche lui, come me.
E la risposta è una sola, grande, a caratteri cubitali:
SAPEVO CHE SARESTI TORNATO.
 
Sono passati altri diciotto mesi da quella famosa foto trovata sul tavolo.... e da quella mail sconvolgente.
Sono all’aeroporto e lui sta tornando a casa.
Non sono successi miracoli grandiosi del tipo: Suo padre è tornato prima, io sono andato là.
Punto primo, io non ho un cent da parte per il biglietto astronomico e mio padre non me li dà perché è operaio e non ne ha.
Punto secondo, lui studia come me e dipende dalla sua famiglia.
Non poteva scegliere allora di restare qui da solo e non poteva nemmeno venire fino qui... non glielo avrebbe mai permesso.
Ma io ho imparato che non è necessario avere una persona in carne e ossa davanti a te... perché i suoi colori, se veri e vivi, sono dentro di te e tu vivi attraverso quelli.
Vivi con quelli... e cerchi di far vivere anche gli altri.
Per diffonderli a tutti coloro che, com’ero io, vivono nell’ombra sfocata di una foto in bianco e nero.