Titolo: Hielo y chocolata
Autore: Akuma
Capitolo: 1 di 1
Soggetto: Captain Tsubasa
Pairing: Juan Diaz x Alan Pascal
Raiting: NC17, x
Note: Questa storia ha partecipato al primo concorso di EndlessField ed ha avuto l'onore di classificarsi prima.

Grazie a tutti coloro che mi leggeranno; ringrazio le ragazze che hanno indetto questo contest, inoltre, perché mi hanno dato la possibilità di rendere parole un'idea che da tempo mi frullava nella testa ed hanno fatto in modo di arricchire la produzione di fict su CT con tutte le entries pervenute.
*inchin*
Vi amo tutti!

 

Hielo y chocolata

 

Shock.

Sono quasi morto se penso che sono ancora disteso a pancia ingiù come un pezzo di carne sul banco del macellaio, immobile e sconvolto a fissare con gli occhi spalancati le tende oltremare della stanza di Alan Pascal, mentre lui è fuori chissà dove, chissà con chi, chissà a fare cosa.

Tra l’altro sono anche mezzo nudo: la maglietta sollevata ed i pantaloni abbassati alle caviglie, penzolanti ad una sola di esse. Giusto il tempo di afferrarmi per i capelli, liberarmi dell’impiccio dei vestiti, prendermi senza tanti complimenti e mollarmi lì come una bamboletta di carne.

Fa male.

E mi sento ridicolo.

Vuoi per questo, vuoi perché voglio sparire e vuoi perché è stata tutta colpa mia, mi viene anche da piangere.

Una specie di idiota.

Perfetto, número diez. C’è nessun altro che vuole tirare una pugnalata a Juan Diaz?

 

E’ stato quando io e Pas ce ne stavamo a Mar del Plata, spaparanzati e nullafacenti su una spiaggia semideserta, che credo di aver causato il danno irreparabile.

Scheletri di ombrelloni ci guardavano imploranti, quasi sradicati dal Viento Norte, caldo e opprimente, pesante ed avvolgente come l’abbraccio di una madre.

Sopra la mia pelle di cioccolato, solo le nuvole; cielo a perdita d’occhio ed ombre di addensamenti grigiastri che si rincorrevano come fanatici in coda per avere il nostro autografo.

La perla dell’Atlantico, così la chiamavano Mar del Plata.

Ma a dirla tutta, della perla aveva ben poco quel giorno. Pochi turisti, pochi pescatori, poco tutto.

Solo io e Pascal. Solo Alan ed io.

Eravamo arrivati in mattinata, senza bagagli né presunzione... come agli inizi.

Avevamo colto la prima occasione utile per sgattaiolare via dal caos della metropoli e goderci un giorno di pausa, di evasione, ma non era parsa una grande idea, dal momento che tutto lasciava presagire la venuta di un bel temporale.

Uno di quelli estivi, momentanei ma devastanti.

- Penso che riprenderò gli studi.- ad un tratto, dalle sue labbra distese, queste parole.

- Riprenderò... cosa?-

Ma se non li aveva nemmeno mai cominciati.

- A studiare. Dico, riprenderò a studiare.-

Il volto sereno e senza pretese di Alan mi faceva rabbia, in certi momenti. Era come se ad un suo sorriso tutti accorressero come fosse il Messia o qualcosa del genere... sempre così genuino, sempre così spocchiosamente schietto.

E io mi ritrovai a guardarlo dall’alto in basso - per quanto potessi fare da disteso - con quel mio piglio ribelle e canzonatorio che mille volte mi aveva fatto guadagnare morsi e cazzotti.

Ero completamente, irragionevolmente, irritato.

- Aunque la mona se vista de seda, mona se queda. (Anche se una scimmia si veste di seta, resta sempre una scimmia.)- mi trovai a esordire di rimando, le braccia dietro la nuca e gli occhi chiusi.

Saccente e stronzo. Stronzo, forse un po’ più che saccente.

Pas si alzò sugli avambracci e mi scoccò un’occhiata infastidita. Palesemente infastidita.

- E con questo cosa vorresti dire?- tra i denti, ovviamente si stava trattenendo dal prendermi a testate.

Ci era abituato, dopotutto sono sempre il solito bambino capriccioso, io. Ed a me ci pensa lui, dico, a completarmi: io sono quello infantile, lui è quello ponderato. Io sono lo scapestrato, lui è il razionale. Io sono il saltimbanco, lui è il re - signorile e composto.

Ying e yang, insomma, come vuole la buona tradizione dello stereotipo.

- Che non ti serve un diploma, un pezzo di carta con su scritto che Alan Pascal è un bravo ragazzo. Un punteggio, una qualifica, insomma, che te ne fai? Sei già il secondo migliore tizio che corre dietro ad una palla di tutta l’Argentina.- gli scoccai un occhiolino borioso e d’intesa - Dopo di me.-

- Va’ all’inferno, Diaz. Che ci parlo a fare con te.- si lasciò cadere così come s’era alzato, con un morbido scatto.

Persino in preda alla rabbia non era mai impacciato. Non era mai in imbarazzo, sempre affidabile, compìto ed impeccabile.

Ogni cosa gli chiedevi di fare, lui te la faceva alla perfezione.

Il lavandino perde? Pascal al vostro servizio.

Si è rotto lo scarpino in un’azione non troppo delicata? Aspettate, Alan!

C’è da pianificare la giornata di domani? Pas è uno stratega.

Il nostro nuovo compagno di squadra parla francese? Ci pensa lui.

Ma cosa ne sapeva di idraulica, di riparazioni, di lingue straniere, di... ogni materia del mondo?

Tutto e niente.

Proprio così: Pas era bravo in tutto. E io in niente.

Oh, già, nel calcio. Io ero bravo nel calcio.

E nel fare incazzare Alan.

 

- Un bel matambre, non ti va? Direttamente delle Pampas, quel tanto che basta per fare scorta di aggressività e carboidrati per un mese!- lo rincorsi mentre le prime gocce di pioggia si infrangevano dritte come missili sulla sabbia scura.

- Taci!- conciso ed intimidatorio.

- Avanti, Pas! Ti ho chiesto scusa!-

Alan si voltò in un lampo e mi fu addosso.

- Sai qual è il tuo problema, genio?- i suoi occhi di gelo dritti nei miei.

- Ho un problema?- mi strinsi nelle spalle, mostrandogli la mia più irritante espressione sfrontata.

- Tra i tanti ce n’è uno che spicca. E ce l’hai con me. O meglio, mi è di grande impiccio. E sono stato ancora molto fine nell’esprimermi.- diplomatico Pascal, mi aveva messo con le spalle al muro. In tutti i sensi, dal momento che la tettoia dell’edificio grigio era ampia abbastanza per farci da scudo contro i proiettili d’acqua.

La mia schiena contro il gelido muro e la stretta collerica e trasudante tutto l’astio del mio compagno al bavero della mia maglietta scura. Senza dubbio questa volta Alan era proprio fuori di sé.

- Oh, beh, sentiamolo.- non volevo dargliela vinta, dopotutto mi ero soltanto limitato ad un’osservazione, no? Così mantenni il mio ghigno altezzoso, presuntuoso e canzonatorio ben stampato sul volto.

Per un attimo un lampo di follia balenò nel rigido sguardo di Pas. Ed io ne fui a tratti terrificato, come se avessi spezzato le catene ad una fiera incontrollabile, riottosa ed indomabile: la pazienza di Alan mi stava rivolgendo un cenno d’addio sghignazzante dal finestrino del primo treno per Goodbyelandia, come a dirmi “ora sono affari tuoi”.

Non aveva tutti i torti.

- Fottiti, Diaz.- ed invece mi lasciò andare, voltandomi repentinamente le spalle e lasciando che il tempo riprendesse il suo scorrere inesorabile.

Ammetto di aver tirato un gran sospiro di sollievo, ma dev’esserci qualcosa di decisamente autolesionista in me, perché riaprii la bocca e colpii di nuovo.

- Non eri fine, nell’esprimerti?-

Prima regola di Juan Diaz: mai dare partita vinta. Gioca con l’avversario fino a fargli perdere le staffe. Poi attacca, fai le tue magie, i tuoi numeri. E segna.

Alan non rispose, anzi, mosse i primi passi verso l’hotel in cui avevamo deciso di alloggiare per la notte, a pochi metri dalla spiaggia.

Silenzioso e inappuntabile. Mi dava ai nervi.

Varcammo la hall che oramai eravamo quasi fradici, guadagnandoci le occhiatacce di concierge e associati. Ma nemmeno allora Pascal frenò la sua andatura da maratoneta.

Lo inseguii appena in tempo, intrufolandomi tra il muro e l’anta dell’ascensore che andava richiudendosi. Il velluto rosso del tappeto e le quattro pareti in legno scuro contribuivano a darmi la sensazione di trovarmi dentro un ventre pulsante e rabbioso, con Pas pronto ad esplodere.

- Andiamo, che permaloso sei!- buttai là, le braccia al petto e la maglia bagnata fastidiosamente aderente al torace.

Il mio compagno mi gettò un’occhiata in tralice; sotto la debole luce ambrata dell’unica lampada cesellata il suo viso pareva contratto a forza, come a trattenersi da un’eruzione.

Nient’altro che noi, pigiai il pulsante per il sesto piano.

- Tra l’altro ancora non capisco perché ti sei arrabbiato così.- mi irritava paurosamente quando mi lasciava solo con il silenzio, fattosi muro di pietra, a parlare da solo.

E forse avrei fatto bene a seguitare a starmene lì con i miei monologhi e frasi da cabaret, perché Alan mi fu addosso senza ch’io potessi accorgermene. I suoi occhi di ghiaccio nei miei, duri, un paradigmatico esempio di collera.

- Sei esoso. Pieno di te. Ingordo, egoista e arrogante. Te ne stai sempre sul tuo piedistallo, col tuo fottuto talento, con la tua diavolo di gloria. Ed ogni volta che progetto qualcosa, ti rendi capace di rovinarmelo!-

Una carrellata di complimenti, non c’è che dire.

La cosa peggiore? Pas ha sempre ragione.

 

Lo raggiunsi sulla porta della sua stanza dopo qualche secondo, stordito com’ero dalle sue parole e dal suo volto iroso così pericolosamente vicino al mio. Ero sobbalzato, ero rimasto piuttosto scosso, ma Alan non se n’era curato, anzi, era partito in quarta verso l’alloggio numero seicentodue ed ora si apprestava ad infilare la chiave nella serratura.

Con un gesto deciso la spalancò e varcò la soglia, facendo immediatamente per richiuderla. Mi ci infilai appena in tempo anche questa volta; detestavo ammetterlo, ma quel mutismo e poi quell’astio mi avevano irritato parecchio. Perché diavolo si era messo in testa di scaricarmi addosso quella vagonata d’insulti? Che cavolo gli avevo fatto, io?

Pascal si accorse immediatamente della mia presenza, come se si aspettasse un’ostinata azione del genere da parte mia.

Sono così infantile e scontato?

- Vattene, Diaz.- scaraventò le chiavi sulla moquette con un gesto sdegnato e astioso. La sua pazienza stava per fare crac, ma io - ormai lo sanno tutti - sono stupido.

- No che non me ne vado, che diavolo!- inderogabile e stoico, me ne stavo fermo sui miei piedi mentre l’ambiente tiepido ed in penombra era appena ravvivato dalla luce del cielo coperto tra le imposte della finestra.

- Diamoci una calmata, Pas, va bene?!- il tono quasi esacerbato ora lasciava tradire il mio sciocco desiderio di non aver mai aperto bocca, laggiù sulla spiaggia. Era come chiedere perdono in ginocchio, e temo che Alan lo comprese al primo colpo, ancor prima che aprissi bocca.

E forse ciò che avvenne dopo, proprio perché forte di ciò, mi terrorizzò ancora di più.

Pascal mi colpì forte sul volto, talmente tanto che mi trovai rovesciato sul pavimento, con un gran dolore alla nuca. Avevo sbattuto la fronte sul pavimento.

Ancor prima di realizzarlo, mi sentii afferrare per i capelli e colpire di nuovo con tremenda brutalità, il livore del volto di Pas era ben visibile anche nella semioscurità alla quale i miei occhi andavano lentamente abituandosi.

Lo fissai basito ed a tratti allarmato per un attimo: la sua mitezza l’aveva abbandonato definitivamente, senza nemmeno concordare una equa separazione dei beni.

Che c’era che non andava, cos’era che mi faceva sentire così idiota? Il fatto che avevo combinato tutto da me. Era colpa mia e Pascal aveva tutto il diritto di ridurmi ad un cumulo di carne trita.

Ma ciò che fece fu spingermi senza tanti complimenti indietro, tanto che al contatto con la sponda del letto io persi l’equilibrio e vi finii sopra con un tonfo attutito dal materasso.

Le lenzuola di candido cotone mi procurarono un brivido ghiacciato a contatto con la maglia umida. Raggelai, ma feci comunque per reagire senza colpire, avevo solo intenzione di alzarmi ed afferrare Alan per i polsi, in qualche modo fermarlo, insomma. Ma lui mi era già addosso, mi schiaffeggiò con violenza, tanto che dovetti stringere gli occhi e quando li riaprii mi scoprii a lacrimare dal lato in cui era arrivato il ceffone: un sonoro manrovescio che mi lasciò sordo per qualche buon istante.

Appena il tempo di dischiudere di nuovo le palpebre e il mio compagno mi aveva di nuovo afferrato per i capelli e per una spalla, tirandomi indietro ed allo stesso tempo facendomi voltare prono sul materasso.

Le mie ginocchia picchiarono non troppo gentilmente a terra, procurandomi un dolore intenso simile ad una reazione a catena, atrofizzando i miei nervi per la durata di un flash.

Pas mi premeva la faccia tra le lenzuola, si era buttato sopra di me e mi teneva ancora per i capelli, affannosamente, sulla nuca. Avvertii il suo respiro convulso sul collo scoperto, sull’orecchio, e poi la sua mano libera scivolò dalla spalla ad un braccio, serrandomi il polso.

Beh, perfetto, mi aveva immobilizzato.

Mi dimenai non appena mi resi conto che non potevo più muovermi, il suo peso addossato a me, la sua stretta a tenermi come un cane al guinzaglio.

Non mi chiesi perché, né cos’avesse intenzione di risolvere in quella posizione, non per la mia solita arroganza, ma piuttosto per un lampo di sgomento che mi balenò in mente. Ero inabile, immobile, fisso e bloccato senza opportunità di movimento. La cosa mi atterriva.

Fu quando la mano di Pascal si allontanò dal mio capo e si insinuò tra il basso ventre e le lenzuola, che il terrore divenne confusione. Mi afferrò per il cavallo dei pantaloni, premendo forte, accogliendomi tutto. E io, gli occhi spalancati, mi lasciai sfuggire un sospiro rotto.

- ¿Qué haces?-

Feci una gran fatica ad articolare le parole, ebbi un improvviso e vorticante capogiro.

Pas non perse tempo a sbottonarmi ed abbassarmi i jeans, perché caddero alle mie ginocchia in pochi secondi, come un sacco bagnato.

Questa volta mi divincolai più energicamente, ma lui fu su di me con l’intero suo petto, mi schiacciò, mi compresse sul letto e raggiunse il mio collo con la bocca, addentandomi il trapezio, quasi dilaniandomi.

E questa volta lanciai un grido di dolore.

Proprio quando tornai a palpare la realtà, avvertii che il mio compagno mi aveva appena abbassato i boxer. Non volli pensare a cosa gli balenò in mente quando scoprì che ogni mio muscolo - ogni singolo muscolo - era contratto. Probabilmente era soddisfatto a vedermi così umiliato, o schifato, o amareggiato, o furente all’ennesima potenza; l’unica cosa certa era che volevo sprofondare dalla vergogna, dal disagio, dall’imbarazzo.

Senza che potessi fare niente per evitarlo - ma dopotutto, ne ero così sicuro...? - lo sentii dietro di me, premere e spingersi contro il terminare della mia spina dorsale, ora saldamente parallela al letto, quasi orizzontale.

Con l’unico braccio che mi era rimasto tentai di afferrarlo e gridare, ma lui fu più veloce di me: mi bloccò anche l’altro polso e si mosse deciso e rapido dentro di me.

I miei occhi furono repentinamente colmi di lacrime, soffocai tra le lenzuola, serrai mascella e palpebre più forte che potei, fino a farmi temere che non avrei più rivisto la luce, né masticato nulla.

La morsa di Pascal su entrambi i miei polsi era come una catena, ferrea e stabile.

- Ti fa male? Fa male, vero?- la sua voce lontana tornò tutt’un tratto vicina; si era di nuovo accalcato su di me, sentivo il suo intero corpo farmisi strada dentro, addossarsi alla mia schiena come un macigno.

No che non faceva male. Mi lacerava e basta.

E io, all’inferno, - sporco, sordido e schifoso fino in fondo - pensavo che se avesse smesso sarei morto.

Strinsi i pugni, strinsi i denti, strinsi ogni cosa potessi stringere.

- E adesso dillo, dillo perché devi sempre mandare al diavolo ogni mio progetto!- la sua bocca sul mio collo dolorante, il suo respiro a infrangersi contro la mia pelle strappata.

- ‘fanculo, Pascal! Vaffanculo!- per quanto potessi urlare e dibattermi, il mio compagno arrivò a colpirmi di nuovo brutalmente sulla nuca, costringendomi a riabbassarmi.

- Dillo!- il suo tono quasi isterico mi giunse dall’orlo di un abisso fosco, nero come l’immagine che non riuscivo a visualizzare del suo bacino che premeva forte contro il mio.

- Lo sai perché! Lo sai, Alan... ah-Alan!- il mio grido divenne un rantolo e non potei far altro che invocare di nuovo il suo nome.

Impazzivo.

- Voglio sentirlo dalla tua voce!- il volto sudato di Pas, semi illuminato dai neon e lampioni della strada, mi parve così bello, così distante e tremendamente infuriato... che fui divorato dal terrore che non fosse realmente lì con me, ma a torturarmi e seviziarmi fosse soltanto il simulacro del mio compagno di sempre, il compagno che se n’era andato ed aveva lasciato in sua vece soltanto la rabbia e tutto l’odio del mondo, appositamente per me.

- Perché... cazzo!- di nuovo un colpo vigoroso, il suo cinto pelvico allacciato al mio; mi aggrappai alle lenzuola, che assorbivano lacrime e sudore dal lato destro del mio volto abbronzato - Perché non ce la faccio se te ne vai!-

Patetico.

- Perché senza di te sono solo la spalla inutile!- mi faceva male il collo a stare così girato per cogliere il suo volto - Pas, non ci sto stare, senza di te! Se i tuoi progetti funzionassero, se tu... se io... ah!-

Ero così sicuro che il mio corpo avesse raggiunto una temperatura di almeno dieci gradi superiore alla norma, che presi ad ansimare come se stessi annaspando per riemergere dalla superficie dell’acqua.

Feci pressione all’interno delle strette di Alan ai miei polsi - ormai sudate, ormai senza quasi più il vigore di prima - che si distesero e mi liberarono. Ma ciò che feci non fu voltarmi e prenderlo a pugni, piuttosto cercare di nuovo le sue mani, spasmodico, irrequieto. Senza le sue mani non vedevo nulla, non sentivo nulla, non credevo in nulla.

Intrecciai le mie dita alle sue e strinsi, strinsi più forte che potei, tornando a respirare. Poi curvai i gomiti e mi caricai il mio compagno sulle spalle, i denti ancora serrati ad ogni spinta del suo bacino.

Quando il suo avambraccio fu alla portata della mia bocca, la spalancai e lo morsi, incapace di reggere altrimenti tanto straziante piacere. Come speravo, come bramavo fiduciosamente, Pas non si ritrasse, anzi, lo sentii curvarsi sul mio volto e respirarci sopra, ansimando ritmicamente.

Fu il suono più eccitante che abbia mai udito. Il suo fiato ardente, unito ad un rantolo lontano della sua voce, provocò in me qualcosa da cui fui insieme dominato e lascivamente spaventato.

Il sangue credo avesse cominciato a girare impazzito nelle mie vene, dandomi alla testa, lasciando che il mio capogiro divenisse vertigine.

Scostai una mano dall’intreccio delle dita di Alan e la portai al suo fianco, artigliando il principio del suo gluteo e guidando i suoi movimenti sempre più cadenzati e deliranti dentro di me.

Il suo palmo libero mi raggiunse le labbra ed io cercai le sue dita per addentarle, leccarle come un animale, perché la ragione mi aveva abbandonato da un pezzo. Avvertivo solo un devastante impeto di piacere diffondersi in tutto il corpo, viaggiare attraverso i nervi e drogarmi completamente, insieme all’improvviso fiotto caldo che mi inumidì il basso ventre.

Fu un attimo, sperai che Alan si ridistendesse su di me, esausto, sudato e così irresistibilmente seducente... ed invece lo sentii separarsi da me con un brusco stacco, riprendere fiato e poi tirarsi su la zip dei pantaloni, afferrare la giacca ed infilare la porta a passi spediti.

Sono morto?

 

I pantaloni mi sono scivolati ancora più giù, nel tentativo di scalare il materasso restando in posizione prona ed usando solo le braccia.

Non ho avuto tanto successo, me ne sto ancora qui con la faccia impiastricciata di lacrime e sudore, il collo bruciante, la cassa toracica forse sfondata e, beh, a tutto il resto non voglio neanche pensare.

Mi sento come si deve sentire un... niente. Vuoto, vacuo, aleggiante e senza coscienza.

Pascal se n’è andato; a che è servito gridargli in faccia il mio terrore, se alla fine si è fatto comunque realtà?

Io da solo non sono niente, al contrario di ciò che pensa la fiumana di tifosi che ogni giorno affolla gli stadi. Io, senza Alan, è vero, non ci so stare. Nemmeno dopo tutto questo, nemmeno se avesse dovuto rifarlo altre cento volte.

Mi sento piccolo e perso, vorrei che lui fosse vicino a me, anche vibrando un’arma sopra la mia testa se necessario, ma vicino a me.

La stanza è calda, rovente, la pioggia è cessata e le cicale gorgheggiano.

Una radio sulla strada canta lenta, senza particolare trasporto.

Tengo miedo de pensar porque sé que te pensaré.

(Ho paura di pensare perché so che ti penserò.)

Un attimo, sento la porta riaprirsi. Passi strascicati ma decisi sulla moquette, la soglia si richiude con un colpo che mi fa sussultare ed Alan è di nuovo davanti a me.

Guardandolo capisco che è corso via per riacquistare lucidità, anch’egli terrorizzato da sé, ed una volta riacquisita ha avuto una ben chiara visione di ciò che è accaduto.

Mi fissa, gli occhi rigurgitanti di lacrime, il volto contratto, i pugni serrati, le braccia lungo i fianchi, la fronte aggrottata.

E’ in palese lotta contro sé stesso.

Io non ho la forza di dire o fare niente, né muovere un singolo dito. Sono lì e sono muto, quasi mi vedo in terza persona, un relitto.

Poi Pascal si getta in ginocchio e mi avvolge le spalle, più che tirandomi su, accalcandosi al mio petto e sfregando il volto contro di me.

- Scusa. Scusa, scusa, scusa. Oh, Dio mio, scusami, perdonami, uccidimi, Juan.- piange, si dispera.

Come faccio a dirgli che ho avuto talmente tanta paura che lui mi lasciasse solo, che per un attimo ho voluto morire? Che sono io lo stupido, l’insensibile? Che sentirlo incontrollato e frenetico dentro di me è stato intenso e sublime, piuttosto che punitivo ed ignobile?

L’unica cosa che riesco a fare è aggrapparmi a lui con tutto me stesso.

Non so se è il mio modo per chiedergli scusa, o per fargli capire che non c’è alcun bisogno che io perdoni lui, perché amo da impazzire Alan.

Tuffo le dita tra i suoi capelli scuri e li stringo, traendo il suo capo a me.

E con questo sono di nuovo quieto. Un bell’ossimoro, dopotutto, specialmente perché non m’importa di nulla, sono bensì disposto a qualunque cosa perché i suoi occhi di gelo non si allontanino mai dalla mia pelle di cioccolata.

- Pas...-

Adoro il suo nome.