Grown in light
di Mazer
Mi rivolto ancora una volta nel letto alla
disperata ricerca di una nuova posizione comoda che mi concili il sonno, ma
invano: il solo risultato che ottengo, è di far sfuggire via il tepore del
quale con fatica ero riuscito ad impregnare il mio adorato cantuccio.
Fattore che in questo caso si rivela un buon alleato per il ticchettio del
grosso orologio da muro che ho di fronte, sottile sobillatore di angoscia a
pari merito… A metà mattinata avrei un esame, io, ma questo è difficile da
far capire al mio cervello, abituato di solito a spegnersi quando ormai
quasi albeggia, a concedermi un quieto oblio da cui sarei strappato a forza
solo a metà giornata.
Mi sono sentito cretino a sufficienza, guardando le lancette fosforescenti
roteare nel buio compiendo giri completi più e più volte, dunque mi arrendo
e mi rimetto in piedi. Sono quasi le sei.
Scendo le scale che portano al piano inferiore con una grazia che durante le
ore diurne mi sarebbe insolita, con l’accortezza silenziosa di chi è
abituato a muoversi quando tutto il resto della casa dorme, immerso
nell’oscurità. M’infilo in cucina e lì ritorno me stesso, le mie movenze
riacquistano la consueta goffaggine: per poco non finisco contro l’anta di
un mobile dimenticata aperta. Sarò pure avvezzo al buio, ma ancora non ho
imparato a guardarci attraverso.
Soffoco un’imprecazione e, infine, raggiungo la finestra: la spalanco senza
indugiare oltre, e permetto all’aria ghiacciata di questa notte d’inizio
Gennaio di ritemprarmi. Sono deliziato. Ho sempre adorato il freddo.
Metto a soqquadro la credenza fino a quando non salta fuori il pacchetto con
le mie bustine di the preferite. Penso che, per una volta tanto, le paranoie
di mio fratello non sono poi tanto inammissibili: questa sua nuova passione
per le miscele di the di gran marca alla fin fine mi torna utile. Basta che
lui non venga mai a sapere dei miei piccoli furti…
Mi lascio ricadere stancamente su di una sedia, già fisicamente spossato
dopo un paio di minuti, e aspetto che l’acqua si metta a bollire.
Mai dare alla mia testa l’agio di restare disoccupata. La preoccupazione più
immediata sarebbe per l’esame, ma mi sento sufficientemente preparato da
decidere di rimandare l’accettabile panico direttamente a quando avrò
davanti il professore. In questo momento mi sento davvero strano: la
mancanza di riposo non mi permette di ragionare per bene, seguendo
l’accettabile filo logico di una riflessione sensata, e abbassa le difese
della mia coscienza come se effettivamente fossi ancora preda del
dormiveglia, lì lì dal concedermi di richiudere gli occhi a tempo
determinato.
Riemerge il rimorso, ma prima di tutto la frustrazione. La frustrazione,
sì, derivata da amor proprio ferito più che dalla presa di coscienza della
mia incapacità in generale. Stupido, stramaledetto orgoglio…
E’ successo di nuovo: ho ferito ancora una volta chi amavo, pur rendendomi
conto che non aveva alcuna colpa effettiva riguardo a ciò di cui lo
accusavo. Palese, il mio puerile bisogno di richiamare un’attenzione che si
era voltata altrove per più di qualche istante concesso. E tutto questo in
nome di un’ossessione fattasi oramai tanto effimera che i tempi in cui
potevo almeno sperare di sfiorarla tra le dita assumono quasi l’impronta di
un sogno, tra i miei ricordi. Uno di quelli che si stanno facendo un attimo
prima di essere rapiti al sonno dalla realtà, che rimangono riflessi ancora
per qualche istante sulle nostre iridi acquose prima di essere spazzati via
da un battito di ciglia assonnato e inconsapevole.
Ciò che più mi sconvolge, forse, è che in fondo tutto si sta ripetendo
esattamente come allora. Una persona coerente con sé stessa dovrebbe essere
capace d’imparare dai propri errori, specie da quelli più stupidi; io no.
Tant’è vero che le parole d’accusa e pena che Lui mi ha scagliato
contro ieri ricalcano in maniera paurosamente fedele ciò che l’Altro
mi disse a suo tempo, l’angosciante dolore che mi riversò addosso
lasciandomi stupito, sofferente, ma pure sadicamente compiaciuto nel
riscontrare una forma effettiva di potere che neppure sospettavo di
possedere. E considera che loro due non hanno mai avuto modo di conoscersi,
naturalmente.
Non ho un animo granché audace, lo sai…? Sì, certo te ne sarai accorto. Sei
fin troppo arguto, quando ti conviene. Ma io? Grandi paroloni sempre pronti,
ma mai un riscontro effettivo. Un fuggi fuggi continuo. Sono sempre stato
capace di fingermi forte solo quando c’era stretta necessità di rassicurare
chi si dimostrava addirittura più terrorizzato di me. A lungo sono stato
convinto che le chiare manifestazioni d’affetto dell’Altro fossero da
considerarsi come un sinonimo della sua debolezza, come la fretta con la
quale mi riempiva di scuse dopo che avevamo litigato, indipendentemente da
chi avesse ragione e chi torto. Era dolce e desideroso di conforto quanto un
cucciolo abbandonato alla sua personale desolazione. E quando mi raccontò di
aver fatto amicizia con te lo fece con un tale candore, senza accorgersi
minimamente di come davvero mi sentissi, che non ebbi cuore di palesare la
mia invidia e quanto in quel momento lo stessi odiando. Ferocemente. Non mi
ha più parlato di te, dunque non so come si siano messe le cose tra voi.
Con Lui invece è stato tutto diverso fin dal principio. In più casi ci siamo
pizzicati a vicenda; mi ha becchettato, punto sul vivo con una tale abilità
nell’illuminare i miei lampanti difetti, le mie volute mancanze, da
spingermi a trattenere a stento frecciate velenose. A volte non le ho
trattenute affatto. Non che mi sia mai fatto conoscere per il mio buon
carattere, ammettiamolo… Ma non credevo di fare tali danni, lo giuro! Ero
sicuro che fosse troppo maturo rispetto a me per prendere in considerazione
i miei scoppi nevrotici nevrosi ingiustificati, ma poi si è fatto uscire di
bocca all’improvviso che il mio comportamento non gli ha procurato che
dolore. Me l’ha detto con una tale amarezza da riempirmi di vergogna…
L'eterno ritorno dell'uguale. Oh. Mio. Dio. Sono sbagliato io, me li
vado a cercare col lanternino, oppure fungo da calamita difettata per questi
particolarissimi esemplari di esseri umani?
Mi piacerebbe poterti addossare almeno una piccola parte di responsabilità,
ma il guaio è che, non avendo mai neppure minimamente sospettato dei miei
sentimenti per te, non potresti di conseguenza intuire fino a che punto sei
inconsapevolmente coinvolto nella faccenda. Almeno spero che tu non
lo abbia capito: l’unica consolazione che mi resta è sapere che almeno la
faccia è salva.
Ora come ora, dell’antica emozione che animasti in me resta soltanto
un’indefinibile pulsione, che pare divertirsi a giocare a ping-pong
rimbalzando tra un’indifferenza troppo ostinata per apparire realistica e un
isterico tentativo di prolungare le nostre eventuali conversazioni
occasionali. Proprio come con una droga della quale si è smesso di fare uso,
mi basta un solo assaggio dell’antica ebbrezza per ritornarne totalmente
schiavo.
Non è stato un colpo di fulmine, come piace dire a qualcuno, eppure sono
convinto che sarei riuscito ad amarti in maniera altrettanto folle perfino
se non avessi avuto l’opportunità di vederti in faccia una singola volta: la
parola, era la tua infallibile arma. I tuoi discorsi solenni mi
entravano da un orecchio per uscire dall’altro, e intanto m’inquinavano il
cervello. Sai che col tempo, a freddo, sono riuscito a cogliervi una vaga
seriosità eccessiva di fondo? Io mi esprimerò anche in maniera troppo
complessa in certi casi, ma a te in compenso manca quel pizzico di
frivolezza di fondo che ci rende tutti più umani. E più accessibile perfino
per me, dal basso della mia condizione. Ok, forse coi tuoi amici, con la
persona di cui sei innamorato, ti comporti in maniera più rilassata, ma non
guasterebbe ricordare che una statua di marmo, per quanto stupende siano le
fattezze che raffigura, resta sempre pur sempre troppo gelida per risultare
piacevole da abbracciare…
Ma il sospetto più grave resta proprio quello: potrei non essere mai stato
veramente alla tua altezza. Le attenzioni che ogni tanto mi dedicasti sono
forse state tutte di circostanza? Il dubbio resta. Mi chiedo però se tu
abbia mai pensato a quanto questa tua magnanimità potesse ferirmi:
contornato da un gruppetto di tuoi pari, scelti presumo dopo un’accurata
selezione, non fai altro che cantare dall’alto il tuo soave lamento e
inneggiare la forza che vi lega. Per tutti gli altri, compreso me, è
concesso solo qualche generoso cenno fatto col capo, una risposta stringata
strettamente funzionale al suo scopo. Sei libero di scegliere chi
frequentare, senza dubbio, ma sarei felice se prima o poi potessi
sperimentare sulla tua stessa pelle un’imparzialità di uguale portata, un
rifiuto di pura e sdegnata sufficienza da parte di qualcuno che desideri con
ardore da oltre due anni. Sì, è così: la mia ammirazione che non aveva fine
verso di te, lentamente, inizia già a scemare in favore di una sorda ira
scaturita direttamente dall’insoddisfazione.
Quando ancora l’orgoglio e la disperazione mi reggevano, per una volta ebbi
il coraggio di sollevare lo sguardo e, guardandoti fisso negli occhi, a
rischio di perdermici, narrai una storia tanto tragica e bella da non poter
essere altro che vera, seppur nelle sue labirintiche forzature. L’ultimo
canto del cigno, dopo il quale non poteva esserci che il nulla o il
totalmente diverso. In qualche modo un po’ tutti fiutarono quella
sottigliezza. Il messaggio colpì anche te fra gli altri, o almeno così mi
dicesti, ma presumo che tu non abbia mai compreso che le mie parole più
terribilmente realistiche e graffianti non fossero altro che una confessione
diretta a te e all’Altro. O, per essere più precisi, a me, a te, e a chi mi
ha trattenuto dall’impazzire sul serio a causa della tua cecità. Un piccolo
pegno per il mio abbandono, e l’ammissione davanti al mondo intero della mia
prostrazione interiore.
Ho un debito non indifferente nei tuoi confronti.
Non sono mai riuscito a decifrare quella frase, e ho avuto troppa paura per
chiederti di farlo al posto mio. In genere ero io, quello che si esprimeva
per enigmi, e neppure troppo velati. Tu sei sempre stato un giocoliere della
parola, un incantatore di serpenti dalle cui labbra nascevano suoni
seducenti capaci d’indurre tutti a fermarsi, stringendo attorno ai loro
colli imbelli un laccio dolce come una favola, ingannandoli fino a quando la
vita non veniva spremuta via da loro senza che neppure se ne rendessero
conto. Io, all’opposto, sono sempre stato tanto diretto da apparire spesso
brusco se non offensivo. Ma io amo i litigi: è il modo più congeniale che
conosca per parlare a cuore aperto a qualcuno. Solo per te ho recuperato una
maschera d’ipocrisia che solitamente m’infastidisce riscontrare appiccicata
suoi volti altrui. Ma che potevo farci? Tu comunque non avresti mai potuto
accettare il mio amore. Sono certo che non parlasti a mio proposito, quella
volta, ma quelle tue frasi di palpabile disgusto arrivarono a ferire le mie
orecchie. Non ho mai pensato che si trattasse di una questione di
bigottismo, o semplicemente della mia incapacità di scindere un’emozione
dall’altra, specie se il muro che per convenzione le dovrebbe separare è
tanto sottile: in te pensavo che avrei trovato il mio completamento, punto e
basta. Poco importa che tu sia del mio stesso sesso, o che non potrò mai
averti veramente… e l’ho sempre saputo. Ma ci saranno sempre quel paio di
misteri insoluti, per ciò che mi riguarda, pure se ormai ho perso ogni
speranza.
Con queste incertezze a turbarmi ho chiuso gli
occhi, e quando ho risollevato le palpebre non c’era più niente, te
compreso. L’oscurità era calata sulla fine del mio mondo, quello che mi ero
costruito col vostro aiuto e nel cui grembo ero solito trovare rifugio
illusorio, cosicché non mi rimase altra scelta se non quella di fermarmi
come tanti altri oppure di proseguire per una strada alternativa. Nel mio
piccolo, tra le polveri di una maceria e l’altra, resto un guerriero,
e facendo forza sul mio antico ardore decisi di riprendere il viaggio nel
buio giurandomi di avere ancora sufficiente forza in corpo per avanzare da
solo anche lì, dove non bastava allungare le mani nella foschia per tastare
qualcosa di solido. Qualcuno decise di restarmi fedele nella pazzia, volle
concedermi fiducia, e per rispetto a loro mi ripromisi di affrontare un
nuovo eventuale incontro con te tenendo conto del ritegno che devo a loro e
a me stesso: l’indifferenza sarebbe stato il mio scudo.
Ho mentito. Ancora oggi, non ho smesso di cercarti e di gridare tacitamente
il tuo nome. In qualsiasi sua forma.
Molto tempo fa, quando l’Altro ancora si struggeva per me, pensavo che
questa situazione avesse quasi un che di epico. Da che mondo è mondo, una
persona dall’anima pudica non va in giro ad urlare il suo dolore e le sue
passioni. Ennesimo, stupido luogo comune: mi sarei rimangiato anche quello,
ovviamente. In ogni caso mi sbagliavo: mi stavo solo crogiolando
nell’autocommiserazione e in una serie di torture psicologiche messe su
dalle mie stesse mani, come per punirmi. Quanto mi sono voluto male, e
quanto ne ho arrecato agli altri volontariamente!
E adesso manca poco che non mi ritrovi nuovamente solo. Mi reggo ancora in
piedi, ma la stanchezza mi fa vacillare e il non scorgere la meta, perlomeno
una piccola fiammella semicelata dietro un vetro opaco, mi rende sempre più
disilluso. Ho toccato il fondo, ne sono risalito con le unghie e coi denti,
ho ricevuto le più grandi soddisfazioni facendo valere il mio punto di
vista… e adesso attendo di spegnermi, con la sola compagnia di chi vorrà
restarmi vicino.
La fiducia che Lui ripone in me va intaccandosi ogni giorno di più, ogni
volta che oso aprire la bocca. L’Altro è sparito mesi fa, assicurandomi che
si sarebbe rifatto vivo quando possibile e che mi amava come sempre: sapevo
fin dall’inizio che sarebbe finita così, nel reciproco disinteresse, anche
se, lo ammetto, speravo in un più emozionante addio lacrimoso. La sola
persona che io abbia mai conosciuto capace di far leva sui propri mali senza
compiacersene è andata via tanto tempo fa, e non ne ho più saputo niente.
Degli altri, i migliori che ho incontrato sulla mia strada, attendo senza
più avere effettiva fede il ritorno. Ho perdonato quando tutti erano
convinti che non ne sarei mai stato capace, ma forse solo per egoismo: non
posso fare a meno di quel poco che ancora mi arreca piacere, anche se so che
ne sentirò una struggente mancanza quando sarò consapevole di non possederlo
più totalmente ed esclusivamente.
… Ma avrò sempre parole adatte per chi vorrà ascoltarmi…
Verso l’acqua bollente sul filtro, che immediatamente sale a galla
gonfiandosi del liquido: sorrido, vedendola diventare nera. Osservo piccole
colonne di fumo filiforme salire verso l’alto, intrecciandosi garbatamente
tra loro. Non avevo mai osservato con attenzione il vapore, e adesso lo
trovo piuttosto carino, quasi affascinante a modo suo.
Riconosco subito il suono dei suoi passi che scendono le scale, ma non alzo
la testa quando mia madre apre la porta.
~ Owari ~
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