TITOLO Grosso guaio all’Iguana club
PARTE 3\4
AUTORE niane
SERIE slam dunk
RATING nc17
Aprì gli occhi a fatica, rendendosi per la prima volta conto del vero
significato della parola oscurità.
Un nero totale, completo, perfetto, senza sfumature, senza briciole di
luce ad indicare un sopra ed un sotto, l’esistenza di un luogo solido.
Si mosse a disagio, sentendo nel petto una sensazione di vuoto, una
caduta libera ed infinita, nonostante il materasso che gli sorreggeva la
schiena. Richiuse gli occhi inspirando con forza e la vertigine si
attenuò, ingannata dal buio naturale delle palpebre abbassate.
Alla cieca allungò la mano a destra, sfiorando una superficie ruvida,
alta, larga, interminabile. Una parete. Con il cuore che batteva in
silenzio, tremante come un cucciolo spaventato che si svegli nella tana
senza il calore della madre, allungò la sinistra, sporgendola nell’aria
vuota. Nulla. Aprì di nuovo gli occhi, ma c’era ancora solo quel mare
d’inchiostro nero. Con uno scatto violento ritirò la mano, sbattendo il
dorso contro lo spigolo affilato che gli graffiò la pelle. Una
superficie liscia e fresca sotto il suo palmo che l’accarezzava. Un
corpo freddo, metallico, sottile ed alto. Con forza strinse le mani
attorno allo stelo della abat-jour portandosela al petto, abbracciandola
come un’ancora, mentre scivolava lungo il filo, alla disperata ricerca
di un interruttore che si abbassò con un clock soffocato e rauco. Un
vagito indeciso ed azzurro di neon illuminò la camera.
Era un buco.
Lunga tanto quanto il letto su cui stava, una semplice rete con sopra un
materasso, e larga forse altrettanto: il comodino contro il quale aveva
urtato era separato dal letto di pochi centimetri ed un’altra manciata
lo divideva dalla parete, intonacata solo da alcune irregolari macchie
di muffa, su cui si apriva una porta di metallo grigio e ruggine.
Non c’erano finestre.
“Dove sono?” chiese sfiorando con le labbra il cappello di tela gallina
della lampada: sapeva di polvere.
Con un gemito scese dal letto, soffermandosi a fissare il pavimento di
nuda muratura. Un rumore, lontano e sordo,lo salutò brevemente prima di
sparire di nuovo.
Indeciso posò la mano sulla maniglia fredda della porta.
Perché non c’era nemmeno una finestrella?
Con un silenzio quasi innaturale il portone si aprì ubbidiente sotto le
sue mani, senza i cigolii e la resistenza che si era aspettato.
Una luce bianca, più forte di quella che ancora cercava di crescere
nella sua camera, illuminò appena un’altra stanza risucchiata: delle
mensole cariche di libri in triplice fila adornavano una parete
incastrando tra loro un basso mobile che sorreggeva una piccola tv.
Alcune foto in bianco e nero, senza alcun tipo di supporto o cornice,
erano inchiodate alle pareti.
Un paesaggio marino, una mucca che pascolava, un unico piccolo fiore con
una farfalla che gli volteggiava accanto.
Un tavolo di ferro occupava buona parte della stanza, attorniato da tre
sedie scompagnate e da un divano di tela rossa appoggiato contro l’altra
parete. Una piccola teiera di ceramica azzurrina fumava tra canna,
carrello, modulatore, caricatore, pallottole ed un vasetto minuscolo di
olio.
“Ti sei svegliato?” sussurrò Kia appoggiando il pennellino con cui stava
pulendo un tubicino lungo avvolto da una molla. Indossava un paio di
jeans stinti ed una camicia nera, leggermente aperta sul petto.
Junda annuì notando nello stesso istante una seconda pistola, intera,
sul tavolo e l’assenza di finestre in quella specie di soggiorno.
“Cos’è?” chiese non riuscendo a formulare domande per quello che voleva
davvero chiedere, ma che non credeva di voler sapere: ‘Dove sono?’ e,
soprattutto ‘E’ accaduto davvero?’
“Un gioiello italiano” rispose il poliziotto incastrando la canna nel
fusto “ Beretta 92fs o, se hai visto qualche film americano una M9.
Fusto iperleggero, rifiniture antiriflesso, azione doppia o singola, con
abbattimento automatico del cane ed indicatore di cartuccia in canna,
sistema di mira a 3 punti, rinculo ridotto e necessità minima di
manutenzione…”
“Una pistola”
Kia sollevò un sopracciglio inserendo con una smorfia il caricatore da
12 nell’arma “Una pistola” ripeté con tono disgustato “proprio come i
tuoi cocktail sono semplice roba da bere”
“Che ore sono?”
“Le quattro del pomeriggio. Ho dovuto darti un calmante”
Junda annuì mordendosi il labbro. Kia posò, senza alcun rumore, l’arma
sul tavolo, afferrando degli abiti che aveva appoggiato accanto a sé “Di
là c’è il bagno, fatti una doccia, parleremo dopo” sussurrò
porgendoglieli.
Junda obbedì meccanicamente, chiudendosi in quella specie di sgabuzzino,
cullato dal gracchiare della ventola che sostituiva la finestra assente,
lasciando che l’acqua, poco più che tiepida, piovesse a lungo sul suo
corpo, schiarendogli la mente.
Il suo appartamento era esploso. Tutto quello che restava della sua casa
era un buco frastagliato in mezzo al palazzo. Quanta gente sarebbe stata
sfollata per la riparazione? Quanti erano stati feriti per colpa sua?
Cosa aveva fatto per causare una simile esplosione? Un sorriso timido ed
imbarazzato gli tornò alla mente. Il sapore dolce di labbra arrendevoli.
“No” sussurrò alzando il viso, lasciando che l’acqua entrasse bruciando
negli occhi, annegandogli le narici, non poteva ancora pensare a lui.
Non poteva ancora accettare di averne causato la morte.
Chiuse il rubinetto e l’aria nei tubi muggì per alcuni secondi per poi
azzittirsi di colpo.
Con pochi gesti veloci si rivestì infilandosi i jeans e la camicia che
era di un bel verde bosco, pesante a coste sottili, calda in mezzo alla
fredda umidità di quel luogo ed aveva un profumo rassicurante.
Kia era ancora seduto sul divano, le spalle incurvate su se stesse, le
mani intrecciate attorno ad un ginocchio, una sigaretta spenta tra le
labbra.
“Ora credo di avere un ottimo motivo per intossicarmi, se me ne dai una
ti faccio compagnia” mormorò sedendoglisi accanto.
Kia scosse la testa sorridendo mestamente “Non si può fumare qua dentro,
quella non fa cambiare l’aria molto velocemente” spiegò indicando una
grata sul soffitto.
“Dove siamo?”. L’aveva detto. La prima delle domande da non prendere in
considerazione, il primo passo sulla strada della dannazione. Perché era
andato a prendere il vino e non era rimasto con Seishiro? Perché non
erano andati in una delle camere dell’Iguana? Se si fossero fermati al
pub l’esplosione non avrebbe ucciso nessuno.
“Siamo in un braccio inutilizzato della metropolitana. E’ il mio
rifugio. Non lo conosce nessuno, ci ho messo anni per sistemarlo, ma
l’ho fatto tutto da solo e migliorerà quando mi ci stabilirò
definitivamente. Il prossimo mese mi abbattono la casa per farci un
centro commerciale.”
“Sembra un bunker”
“In un certo senso lo è”.
Silenzio, palpabile come la nebbia fitta, molesto nella presenza di
parole taciute, ma presenti.
La mucca li osservava dal suo muro, gli occhi immensi e languidi,
soddisfatta del suo essere mucca.
Con un gemito del divano Kia si alzò, dandogli le spalle “Per quanto può
servire: mi dispiace. E’ colpa mia”
Junda gemette, un verso strano, alterato, una via di mezzo tra una
risata isterica ed un sospiro tremulo “Colpa tua? Non sei tu che hai
rimorchiato Seishiro…se fossi rimasto con lui…se ci fossimo fermati
all’Iguana…”
“Avresti solo posticipato il momento dell’esplosione”
“Cazzo!” urlò, ma il suono sembrava ovattato da quei muri impietosi “Che
cosa ho dimenticato acceso? Che cazzo ho fatto per…”
Kia gli si inginocchiò davanti, posandogli le mani sulle ginocchia “Non
è stata colpa tua Jundaro. La bomba era preparata per esplodere nel
momento in cui la porta si fosse aperta”
“La bomba?”
Kia annuì “Un ordigno al plastico”
“Una bomba?”
“Sì, da quel poco che è rimasto abbiamo scoperto che è stato fatto da un
professionista, calcolato al milligrammo per far esplodere solo casa tua
senza fare una strage.” spiegò con calma, “Come vedi tu non hai nulla di
cui accusarti, quello che continua a sbagliare sono….”.
Con un ringhio Junda lo spinse a terra, afferrandogli le braccia e
bloccandogliele con cattiveria sopra la testa. Kia inarcò un
sopracciglio, lasciandolo fare“Che cosa pensi di fare?” chiese.
Junda chiuse gli occhi rispondendo con un sibilo “Io ti odio, ti odio,
ti odio, sei solo un fottutissimo sbirro saccente. Che cazzo ne vuoi
sapere tu eh?”
Con uno scatto improvviso, si abbassò premendo con forza le labbra
contro le sue.
Kia inarcò un sopracciglio perplesso: sotto la violenza, la cattiveria e
la forza bruta con cui quella lingua premeva contro la sua bocca, c’era
disperazione. Chiuse gli occhi indeciso, permettendo a quella lingua
umida di continuare a leccargli le labbra tentando di forzarle.
Era quello ciò di cui aveva bisogno? Gli avrebbe dato un attimo di pace?
Le mani di Junda gli strapparono la camicia di dosso, facendola scendere
con forza lungo le braccia, iniziando a sfregare voraci la pelle liscia
e compatta del poliziotto, scorrendo velocemente sui piani dei muscoli.
Kia sogghignò appena: ridicolo, quel pazzo stava cercando di
violentarlo.
Una lacrima gli cadde sulla guancia, infrangendosi sulla sua pelle come
una goccia di pioggia e Kia sospirò fissando quelle palpebre umide
strette con troppa forza: come diavolo poteva fare sesso e piangere allo
stesso tempo? Con un sospiro socchiuse le labbra, permettendo a quella
lingua invadente e cattiva di penetrare nella sua bocca, schiaffeggiare
il suo palato, picchiare la sua stessa lingua e poi scivolare di nuovo
fuori. Le mani di Junda agguantarono i bottoni dei jeans slacciandoli,
aprendo la stoffa rigida ed abbassando al contempo i boxer, afferrando
il membro morbido tra le dita.
“Ora stai esagerando, se proprio dobbiamo farlo, almeno facciamolo bene”
sibilò Kia liberandosi senza fatica della presa, afferrandogli il collo
e facendolo volare, con un colpo di reni e una mossa di Judo, sul
pavimento, sottodi sé, accompagnandolo nella caduta perché non battesse
la testa.
Junda lo fissò perplesso, gli occhi sgranati brillanti di lacrime “Kia
io…”sussurrò, la voce che tremava, ma il poliziotto sorrise “Da come ti
comporti pensavo ci sapessi fare a letto, invece sei un po’ imbranato
eh? O io sono troppo grande per te?” sussurrò, scendendo sulla sua bocca
senza lasciargli il tempo di replicare. Junda rimase immobile sotto il
bacio.
Le labbra tiepide e tumefatte dalla violenza di prima, gli accarezzavano
le sue con tocchi lievi, la lingua s’insinuava lenta nella sua bocca,
esplorandolo con placida calma.
Junda sbatté le palpebre tre volte.
La lingua di Kia sfiorò la sua stuzzicandone la punta, invitandola a
reagire e Junda rabbrividì appena, iniziando a ricambiare il bacio,
intrecciando la lingua alla sua, lasciandole strusciare l’una sull’altra
lentamente. Chiuse gli occhi, cancellando ogni cosa, lasciando che i
brividi di piacere divenissero l’unica legge del suo corpo.
Fremiti, mentre le lingue scivolavano bagnate l’una sull’altra.
Con un sospiro Junda gli insinuò una mano tra i capelli corti,
accarezzando al contempo la seta cenerina e la nuca morbida. La pelle
del collo era calda sotto i suoi polpastrelli e la mano scese lenta
lungo il fianco, sfiorando la vita sensibile che fremette sotto il tocco
appena accennato, scivolando più giù sul fianco saporito, semiscoperto
dai pantaloni abbassati.
“Kia” gemette, allontanando improvvisamente la bocca, lasciando che il
filo sottile di saliva che li univa gli scivolasse sul mento.
“Ti sei dato una calmata?”
Junda sollevò appena il sopracciglio, lasciando che il piccolo orecchino
freddo gli facesse rabbrividire la pelle “No” sussurrò infilando il viso
sotto il suo collo, succhiandogli piano la pelle dolce.
Kia si irrigidì, ma il profumo sensuale di spezie aveva invaso la mente
di Junda, che sapeva solo di voler assaggiare ogni centimetro del suo
corpo.
Con un gemito allargò le gambe, lasciando che il ginocchio del
poliziotto cadesse tra loro sbattendo a terra e che la sua coscia gli
premesse sull’erezione che si stagliava come una pistola dura sotto i
jeans. Kia chiuse gli occhi, forse doveva fermarlo, ma non ne era
sicuro.
Fermarlo, lasciarlo solo con la consapevolezza del suo dolore, dei sensi
di colpa.
Deglutì socchiudendo le labbra quando le mani gli accarezzarono la
schiena nuda, sfiorandogli i glutei e scivolando ancora più giù a
toccare la pelle calda delle cosce che tremò sotto la punta fredda dei
polpastrelli. Con un mugugno di apprezzamento Junda gli mordicchiò la
spalla leccandola voracemente, risalendo sul collo e Kia si morse le
labbra trattenendo un gemito.
Senza abbandonare il suo collo Junda lo fece rotolare sul pavimento,
imprigionandolo sotto di sé.
Piano le labbra scesero lungo il torace, raggiungendo l’aureola scura
dei capezzoli semieretti, disegnandone lentamente, con cura, il
perimetro prima di sfiorare i boccioli di carne con la lingua,
spingendoli verso il basso, stringendoli appena tra i denti fino a farli
erigere duri come proiettili di carne. Una solitaria goccia di sangue
macchiò il labbro di Kia, scivolando, dal piccolo taglio che avevano
aperto i denti, sul mento. Junda la vide appena, una macchiolina sfocata
nella coda dell’occhio; l’asciugò con la punta della lingua, leccando
con attenzione la pelle chiara, salendo dal mento al labbro ferito,
lappandolo dolcemente, a lungo, come una gatta premurosa che stia
curando il suo gattino e Kia si arrese. Un sospiro stanco, estenuato,
sconfitto. Socchiuse la bocca abbandonandosi alle carezze sinuose,
permettendo ai brividi di scorrere liberi lungo la sua schiena.
Senza che potesse fare qualcosa, le sue mani scivolarono spontaneamente
sulla schiena di Junda, infilandosi sotto la camicia, toccando la pelle
bollente. Il moretto approvò con un sospiro, approfondendo il bacio in
una maniera impossibile: le loro lingue s’intrecciavano fondendosi l’una
l’altra, succhiandosi a vicenda, scappando leggere da una bocca
all’altra.
La mano di Junda gli accarezzò piano un fianco, salendo a stuzzicare
appena un capezzolo duro e Kia mugolò di piacere mordendogli il labbro.
Con un gemito Junda affondò il viso contro il suo collo, mordendo la
pelle fino a lasciare un piccolo segno scarlatto, insinuando la mano nei
pantaloni sbottonati di Kia, accarezzando la lunga dura rigidezza del
suo sesso che sussultò sbattendo contro la stoffa antipatica e umida dei
boxer.
Con uno scatto Junda gli si sedette a cavalcioni, spogliandolo
completamente, accompagnando con leggere carezze la corsa dei vestiti
lungo le gambe lunghe.
Si morse il labbro contemplando per un istante la bellezza del
poliziotto: l’aggettivo bellissimo non gli rendeva giustizia.
Le gambe erano lunghe e tornite, le cosce dure lasciavano intravedere il
gioco sottile dei muscoli, così come il ventre piatto e duro al tatto
come una roccia, nonostante la pelle fosse liscia e morbida.
In mezzo a tutto si stagliava l’oggetto dei suoi desideri, alto,
imponente, succoso, che sembrava implorarlo di scendere su di lui e
mangiarlo.
Improvvisamente Kia aprì gli occhi, incontrando i suoi ed il cuore di
Junda scoprì per la prima volta che esisteva qualcosa di ancora più
succoso. In trance, incapace di distogliere lo sguardo da quei pozzi di
petrolio incandescente, si liberò dai vestiti, ridiscendendo lentamente
su di lui, coprendolo con il suo corpo, facendo combaciare le loro
forme: gambe su gambe, cosce su cosce, pene su pene, petto su petto e la
perfezione: le sue labbra sulla sua bocca e le loro lingue una
sull’altra.
Kia sospirò languidamente, artigliandogli i glutei e spingendolo con
forza contro di sé, inarcando il bacino per inseguire quello di Junda,
lasciando che i loro sessi di marmo imitassero le lingue in un bacio
altrettanto umido.
“Kami Kia” gemette Junda accarezzandogli un fianco, insinuando la mano
sotto il suo corpo, lasciandola scorrere tra la fessura invitante e
bollente tra le sue natiche, fino al bordo tiepido del suo precipizio.
Kia s’inarcò sollevando il bacino da terra ed il medio di Junda scivolò
piano dentro di lui, in profondità, muovendosi in circolo, sfiorando con
la punta lontana dell’unghia quel punto magico che faceva vibrare ed
inarcare il poliziotto sotto di sé.
Con un grugnito Junda gli afferrò le gambe posandosi le caviglie sulle
spalle, succhiandogli l’incavo del ginocchio e bussando al contempo con
il proprio membro sull’apertura pulsante che aveva liberato.
Lo penetrò con un unico colpo, costringendolo ad inarcare con violenza
la schiena per attutire il colpo. I denti di nuovo stretti sul labbro
inferiore, riaprendo il taglio che si era richiuso da poco.
Solo quando fu entrato completamente si fermò un istante, immobile,
assaporando quella carne così dannatamente stretta che lo racchiudeva.
Sollevò una mano, andando ad accarezzare la punta scarlatta del pene di
Kia che sussultò umida tra le sue dita. Attento a non uscire
completamente da lui, Junda arretrò leggermente, piegandosi poi in
avanti fino a sfiorarlo con la lingua, assaporando il gusto pungente e
dolce del suo piacere.
Kia sibilò tra i denti piantando le unghie nel pavimento: non c’era
nemmeno un tappeto a cui potersi aggrappare.
Junda chiuse la bocca sul suo sesso tumefatto, succhiandone la punta per
un lungo istante prima di allontanare il viso di scatto e rispingersi
con forza dentro di lui.
Kia urlò stringendo con forza le dita attorno ai polsi che lo
sostenevano.
Junda chiuse gli occhi, allontanandosi di nuovo e respingendosi sempre
più a fondo, sentendo i gemiti soffocati del poliziotto scivolare nel
suo cuore come un balsamo e la realtà assottigliarsi sempre di più per
essere sostituita da un regno nuovo, mai conosciuto, dove non esistevano
altro che lui e due occhi neri.
Con un
gemito sommesso Junda si passò la mano sul viso, asciugando le tracce
delle lacrime che non sapeva di aver versato.
“Kia?” sussurrò senza avere il coraggio di girarsi a guardare il
poliziotto che gli giaceva accanto.
“Hn”
“Io…io…io mi dispiace...io ho perso…tu…non è che tu...insomma, tu sei
almeno bisex vero? Non è che io…che tu non hai mai …”
Il poliziotto sbuffò divertito “Sono gay e no, non è la mia prima volta,
tranquillo.”
“No, è tutto uno schifo” borbottò alzandosi in silenzio e tornando nella
squallida stanza da letto dove spense la luce lasciandosi ripiombare nel
buio. Davvero gli era sembrata così terribile prima? Perché il limbo
doveva sempre apparire così temibile, se in fondo non c’era nulla? Né
bene, ma nemmeno male, impressioni o ricordi. Apatia, nessuna
sensazione, nessun dolore. Davvero era brutto?
“Jundaro” sussurrò Kia aprendo la porta, lasciando filtrare una striscia
di luce.
“Lasciami in pace” sussurrò girandosi verso il muro, voltando le spalle
al chiarore.
“No. Perchè ora tu ti stai incolpando per la morte di quel ragazzo,
anche se tu non hai colpa. Avrei dovuto fare io dei controlli più
approfonditi, ma non avrei mai nemmeno immaginato che potessero fare una
cosa del genere. Credo che in qualche modo abbiano sentito
dell’operazione e ti abbiano scambiato per uno dei nostri. Merda, io non
volevo coinvolgere i civili…mi sono preoccupato di proteggere Sakuragi e
di mettere una sorveglianza su Rukawa e Koshino, non credevo che tu
potessi correrei dei rischi. Ho sbagliato io, dovevo controllare
meglio…Quel Seishiro non mi convinceva, mi pareva strano che ti avesse
rimorchiato in quel modo, così vi ho seguito, invece quel ragazzo era
innocente e
‘loro’ erano già passati…”
“Cosa vuol dire non credevo ti potesse rimorchiare in quel modo?”
domandò girando il viso all’indietro.
“Mi puzzava…quello viene al locale per un po’ di volte e poi tac di
punto in bianco ti fa una simile avance? Non ti è parso strano?”
“Se per caso non te ne sei ancora accorto io sono un uomo dotato di
estremo fascino e carisma…cose del genere mi capitano spesso e da parte
di entrambi i sessi, lui voleva solo venire a letto con me….e per questo
è morto” concluse, la voce poco più che un bisbiglio sofferente.
“Junda…” sussurrò piano Kia posandogli la mano sulla nuca, nessuna
carezza, solo la pressione calda e rassicurante del suo palmo.
“Lasciami stare, lasciami solo, tu non puoi capire come mi sento”
“Oh sì, invece. Io ho ucciso la persona che amavo di più al mondo”.
Il collo di Junda si tese appena sotto la sua mano. “Era bellissima,
intelligente, simpatica.” Continuò sdraiandosi supino sul piccolo letto
accanto a lui, le mani incrociate sotto la nuca, “ Aveva tutto, un mare
di amici, un sacco di ragazzini che le correvano dietro, andava bene a
scuola ed aveva un ruolo di titolare nel club di pallavolo, uno dei
migliori della prefettura. Aveva tutto, anche la mia venerazione. La
seguivo sempre come un cagnolino fedele e, anche se all’epoca avevo 6
anni meno di lei ed ero di certo una palla al piede, lei era sempre
gentile con me. Poi qualcosa in Keiko si spezzò. O forse un giorno
guardò dentro di sé e si accorse della falla nel puzzle della sua
esistenza. Se fossi stato più maturo dei miei 11 anni avrei capito.
Aveva 17 anni, ai miei occhi era una donna grande, eppure una sera si
sedette sul mio letto e mi chiese qual era il senso della vita. Per me
all’epoca era riuscire a convincere mamma e papà che ero abbastanza
grande per andare ad un concerto. Lei era la sorella maggiore, lei era
quella che aveva le risposte. Se fossi stato meno superficiale avrei
capito che qualcosa la turbava, ma non me ne accorsi. Tra noi non cambiò
nulla, solo aveva cominciato a sorridere un po’ meno.
Poi venne quel giorno. Quello che non mi perdonerò mai. I nostri erano
via per l’anniversario ed io ne approfittai per bruciare la lezione di
inglese e tornare a casa prima. Keiko era già arrivata, sola in cucina
con una siringa sottile in mano. Non urlò, né mi sgridò; si limitò a
sorridermi dolcemente, felice, uno di quei sorrisi veri che stavano
diventando così rari. Prese la siringa ancora piena e la gettò in
pattumiera, poi mi si avvicinò piano, mi pose le mani sulle spalle e mi
guardò negli occhi ‘Mi vuoi bene Kicchan?’ mi chiese ed io annui, era
vero. ‘Allora se mi vuoi davvero bene, non lo dire a mamma e papà. Non
glielo raccontare. Hai visto ho buttato via tutto’. E io coglione
promisi, sapendo che era sbagliato, sapendo che avrei dovuto dirlo ad un
adulto, promisi. Non dissi mai nulla, nemmeno quando un poliziotto
convocò i miei alla centrale: avevano arrestato mia sorella per
prostituzione. Aveva iniziato a vendere il suo corpo per procurarsi i
soldi per la droga. Mia madre pianse per giorni e mio padre guardava
Keiko scuotendo la testa ‘Hai tutto. Ti abbiamo dato tutto. Perché l’hai
fatto?’. Lei non aveva risposte da dare, nemmeno a se stessa. Per tre
anni frequentò un gruppo di disintossicazione e per tre anni le demmo
tutto l’amore e la comprensione possibile, anche quando ci ricadeva,
anche quando veniva piangendo a confessare di averlo rifatto. Le davamo
parole di conforto rassicurandola che era normale, che ci voleva tempo.
Amore illimitato. Se fossimo stati più duri con lei, se le avessimo
fatto provare vergogna per quello che faceva, se avessimo mostrato un
po’ di disdegno e se avessi provato almeno a cercare la tessera che
poteva chiudere il buco del suo puzzle… Le stavamo dando tutto, eppure
in quel tutto c’era l’unica cosa che le mancava. Smise di drogarsi solo
quando la ricoverarono in ospedale. Aids. In un mese era morta.
Per anni ho vissuto credendo che fosse stata colpa mia. Se avessi fatto
la spia quel pomeriggio stesso, se l’avessi detto subito…”
“Avrebbe potuto non cambiare nulla. Non è stata colpa tua Kia.” Gli
sussurrò Junda scivolando contro di lui, abbracciandogli leggermente la
vita, il viso contro i capelli morbidi che gli solleticavano la pelle.
Aveva ancora lo steso profumo di bosco e spezie.
“Davvero?”
“Tu non potevi sapere…non l’hai uccisa tu”
“E tu invece sapevi che aprendo la porta l’appartamento sarebbe
esploso?”
Junda tremò appena senza rispondere.
“Sapevi che sarebbe esploso Jundaro?” ripeté Kia girandosi a guardarlo,
ma il moro teneva gli occhi secchi bassi, immobili sul filo tirato del
copriletto che si appallottolava su se stesso.
“Rispondi!”.
“No, merda, no non lo sapevo” gridò con violenza “non lo sapevo” ripeté.
Kia annuì abbracciandolo, per ora gli bastava così, ci avrebbero pensato
gli psicologi della polizia a convincerlo a fare davvero pace con se
stesso, per ora gli bastava che non si mettesse in testa qualche
sciocchezza.
“Però mi sento ancora in colpa” mormorò infilando il viso nell’incavo
del suo collo.
“Lo so e non passerà mai” ammise, trovando il coraggio di annunciarlo
per la prima volta anche a se stesso, “ anche se non è colpa nostra c’è
sempre il rimorso di non aver fatto qualcosa, qualsiasi cosa”
Le mani di Junda gli si posarono sulla pelle nuda del petto scivolando
leggere, sulle linee morbide dei muscoli “Le mancava uno scopo” sussurrò
contro la sua gola.
“Cosa?”
“A tua sorella. Hai detto che aveva tutto, ma le mancava uno scopo per
cui vivere. La vita ti va bene fino a che non scopri improvvisamente che
ti stai limitando ad esistere, allora cerchi uno scopo e lei non l’ha
trovato. A quel punto non fai altro che attendere di morire.”
Kia scosse piano la testa, frustandogli delicatamente il viso con i
capelli, un sospiro di frustrazione soffocato in gola.
“Hai mai pensato che la vita dev’essere qualcosa di diverso da quel che
sembra?” continuò Junda, un sussurro sommesso nell’oscurità umida ed
ammuffita, “Ho frequentato uno degli istituti superiori più prestigiosi
del Giappone e poi ho seguito il consiglio di mio padre laureandomi in
ingegneria meccanica. La Ninnifoundation ha accettato la mia candidatura
quasi subito e mi sono trovato a svolgere un lavoro semplice, ben
pagato, senza troppe responsabilità, tranquillo. Un lavoro per il quale
molti avrebbero fatto carte false. Otto ore al giorno, senza troppi
grattacapi e uno stipendio notevole. Secondo mia madre mi bastava una
famiglia per essere un uomo realizzato.” Chiuse gli occhi scuotendo la
testa “ E all’improvviso ho capito che la mia vita non aveva un senso,
avevo tutto, nel mio puzzle non c’erano pezzi mancanti, solo che il
disegno che ne stava uscendo non era quello dipinto sulla scatola che io
avevo comperato. Cosa mi aspettava? Un lavoro stabile che mi permetteva
di mettere su famiglia, di dare un’ottima istruzione ai miei figli di
modo che trovassero un buon lavoro che permettesse loro di metter su
famiglia e di mandare i figli in ottime scuole perché poi potessero
trovare lavoro…” sospirò, un suono profondo, incredulo e triste. “Non
può ridursi tutto a questo. Deve esserci qualcosa di più, se no non ha
senso. Non ti capita mai di pensarlo Kia?”
Kia fissò il buio sopra di lui, sfiorando inconsciamente la tempia del
moretto con le nocche “No. Io ho uno scopo, uno solo ed è lottare contro
quei fetenti che si approfittano delle debolezze altrui per arricchirsi
vendendo loro la droga. Io non so se ti capisco. Ora sei felice?”
Junda chiuse gli occhi aspirando l’odore dolce di quella pelle fresca
“Non lo so. Forse…lo ero. Prendo la metà di quanto pigliavo in azienda,
mio padre mi parla solo per accusarmi di aver gettato la più grande
occasione della mia vita, il mio scaldabagno si rifiuta di far uscire
acqua calda, eppure mi sento meno sperduto di prima. Mi sentivo. Ora…”
scosse la testa, sentendo le lacrime traditrici scivolare sotto le
ciglia. “Ma che ne so” sbottò girandogli la schiena, lasciando che le
lacrime scendessero liberamente
Kia, immobile al suo fianco, fissò il soffitto in silenzio.
Fu lo spazio eccessivo a svegliarlo.
Era stato confinato in un angolino del letto, schiacciato quasi tra il
muro ed il calore del corpo morbido di Kia e quando, girandosi, non
trovò limiti, i suoi occhi si aprirono di colpo.
La parte del letto su cui Kia era stato steso era ancora calda. Con uno
sbuffo, (quel frigido di un poliziotto avrebbe anche potuto stare lì con
lui) si alzò tornando in salotto: la mucca alla parete lo fissò
attentamente, contemplando la sua completa nudità.
Senza una parola, senza raccogliere i propri vestiti da terra, Junda
tornò a scrutarla da vicino: un piccolo aereo tagliava il cielo
lasciando una cicatrice spumeggiante. Le cime lontane degli alberi si
piegavano leggere verso destra, mentre i grandi occhi bovini brillavano
come buoni laghi neri, scrutandolo come se fossero vivi “E’ stupenda”
“Ti piace?”
“E’ eccezionale. Il fotografo meriterebbe un premio, è tanto bella da
parere un disegno”
“Bhè, prendila te la regalo”
Junda si girò a fissarlo: Kia si stava infilando la camicia, mentre i
jeans gli pendevano sbottonati sui fianchi, lasciando intravedere la
curva morbida ed abbondante del basso ventre appena coperto dalla maglia
scura ed accattivante dei boxer.
“Davvero?” domandò sentendo con imbarazzo la voce aumentare di alcune
ottave ed uscire gracchiante dalla gola: le punte della camicia, che
ondeggiava sotto le dita che chiudevano i bottoni, sfioravano invitanti
il basso bordo dei boxer, accarezzando impudicamente la pelle chiara.
Kia si strinse nelle spalle ed i piccoli capezzoli scuri ammiccarono un
istante prima di sparire sotto il cotone scuro.
“A casa ho ancora il negativo, posso ristamparla quando ho voglia, ma
non è una delle più riuscite”
“L’hai fatta tu?” sospirò Junda continuando a seguire con gli occhi le
carezze della stoffa, sentiva la bocca riempirsi di acquolina.
“La fotografia è il mio hobby” annuì, senza spostare lo sguardo
dall’immagine; infilando la camicia nei pantaloni ed iniziando piano ad
abbottonarli dal basso, le dita che passavano leggere e carezzevoli
sulla stoffa, sfiorando il tesoro che custodiva.
Senza una parola Kia si sedette sul divano infilandosi i bassi
stivaletti di pelle nera, prendendo un piccolo coltello dal tavolo,
soppesando l’impugnatura leggera e lucida tra le dita, accarezzandone il
legno allungato un istante prima di far sparire il pugnale nello stivale
sinistro.
“Dove vai?” chiese Junda ritrovando improvvisamente la voce.
“Al commissariato” rispose.
“Cosa accadrà ora?”
Kia s’immobilizzò, un bottone infilato a metà nell’asola.
Improvvisamente, sembrava più giovane e stanco, le spalle che erano
sempre state ritte contro il mondo si piegavano leggermente in avanti,
sconfitte “Il piano è andato a puttane, ovviamente. Loro hanno mangiato
la foglia e non si faranno più vedere al locale e comunque dopo stanotte
è troppo rischioso, non possiamo mettere a repentaglio la vita dei
civili. Il locale sarà tenuto sotto sorveglianza, in modo discreto, ma
pubblico: i clienti forse non si renderanno mai conto che circolano dei
poliziotti in borghese, mentre ogni malintenzionato ne conoscerà anche
gli orari. Non si presenteranno più all’Iguana.”
“Non è risolto…possono cambiare locale”
“Lo cambieranno”
“Non è giusto eravamo così vicini, potevamo batterli”
Kia abbassò la testa sospirando “Sono come la gramigna, anche se butti
il diserbante rispuntano sempre, noi ci limitiamo a cercare di estirpare
le erbacce che vediamo” sospirò. Immobile al centro della stanza, Junda
fissò il soffitto demoralizzato “Non è giusto, il bene dovrebbe vincere
sempre” sussurrò sobbalzando quando una mano fresca gli sfiorò la fronte
“Solo nei film Jundaro”.
Con un gesto stizzito il moretto allontanò la mano con uno schiaffo
“Senti so che sei uno sbirro e che perciò sei deficiente,ma non è
difficile sai: JUNDA! Non lo sopporto quel nome, mi ci chiama sempre mio
padre! Io ora mi chiamo Junda e tu mi devi chiamare Junda!”
“ Io non sono tuo padre e non vedo perché dovrei chiamarti con il
diminutivo, non siamo così intimi”
Junda aprì la bocca e la richiuse allibito.
“Senti un po’,” sibilò dopo un istante di silenzio completo “ vorrei
ricordarti che fino a poco tempo fa tu eri steso nudo nel letto con me!
Non ti sembra una cosa intima quella? No, perché per quanto tu sia
frigido, ti assicuro che stavi gemendo un bel po’ e se, invece, la
vecchiaia ti ha già mandato in pappa il cervellino, perché non dai una
controllatina, di certo sarai in grado di trovare le tracce di un
rapporto amoroso ispettore Hojio!” sibilò irritato.
Kia sbiancò assottigliando gli occhi fino a ridurli in due fessure
imperscrutabili e brillanti e Junda deglutì, sentendo il cuore
rallentare, spaventato. Non gli piaceva l’espressione del poliziotto, il
bel viso, sempre troppo serio, era tirato in una maschera di terribile
decisione e le labbra carnose erano ristrette in un ghigno crudele.
“Kia” sussurrò incerto.
“Merda! Ecco come hanno fatto….ti devono aver sentito!” gridò sbattendo
le mani contro il muro, ai lati delle spalle di Junda, con tanta forza
che l’intonaco già corroso scivolò giù in piccole scagliette. “Merda!”.
La musica suonava sensuale, ondeggiando nell’aria in scie azzurrate,
infiltrandosi tra i tavolini ad accarezzare i vestiti bianchi che
ridacchiavano elettrizzandosi.
“Hiro” lo chiamò rimestando perplesso il rametto (quasi un albero in
realtà) di mentuccia con cui l’unico barista, piuttosto imbronciato,
aveva decorato il suo cocktail azzurro. “Perché siamo tornati qui?”
sedendosi su uno dei divanetti “Tuo zio ha detto che il piano è saltato”
Hiroaki annuì senza guardarlo, infilando il viso nel bicchiere largo,
spostando con le labbra le fettine di arancia “Potrebbe esserci sfuggito
qualcosa” borbottò.
Akira sospirò portandosi il bicchiere alle labbra, prima di riabbassarlo
velocemente senza nemmeno assaporarlo: non riusciva a bere quella roba,
era più forte di lui.
“Non ti piace?” chiese Hiroaki fissandolo di sottecchi; dopo quanto era
accaduto tra loro pochi giorni prima non aveva avuto più il coraggio di
guardarlo direttamente.
“Mi fa impressione, mi sembra una cosa da puffi”
“Perché l’hai preso allora?”
”Aveva un bel nome” confessò con un sorriso.
Hiroaki spalancò gli occhi scuotendo la testa, prima di scambiare i
bicchieri e passargli il suo, contenente un liquido che ricordava
un’aranciata stinta.
“Arriverà anche Rukawa?” chiese Akira.
“No…non lo so”
“E allora noi cosa ci facciamo qui? Io ci capisco nulla” sbottò
svuotando mezzo bicchiere con un lungo sorso. L’alcool gli bruciò la
gola, incendiandogli il sangue che gli pompò nelle orecchie con la forza
di una vecchia locomotiva sotto pressione.
“Che è sta cosa?” gracchiò sentendo la gola ardere e restringersi su se
stessa.
“Tequila sunrise”
“Che ca…Hiro volevi ubriacarti?” tossì appoggiando il tumbler sul
tavolo.
Hiroaki non rispose, arrossendo appena e sorseggiando il liquore
azzurro.
“Hiro?” ripeté Akira, direttamente contro il suo orecchio, facendolo
sobbalzare.
“Che…che…che c’è?” domandò sentendo il cuore galoppare selvaggio e il
proprio corpo reagire alla vicinanza del suo capitano.
“Mi vuoi dire perché siamo ancora qui, anche se ti hanno detto di
startene a casa?” ripeté Akira ed il suo fiato baciò piano il lobo di
Hiro, insinuandosi nel suo padiglione, accarezzandolo piano, mentre una
mano, tremendamente pesante e calda, gli si posava sul ginocchio.
Hiroaki non rispose, continuando a bere quella brodaglia fredda e senza
sapore, il bicchiere che tremava piano tra le sue dita, spandendo il
liquido azzurro sul mento e sul collo.
“Allora?” insistette Akira, raccogliendo con l’indice il liquore che gli
sporcava il viso, salendo dal mento, fermandosi all’angolo della bocca
socchiusa, per poi portarsi il dito alle labbra, succhiandolo piano per
ripulirlo. Hiroaki deglutì rumorosamente, il respiro ridotto a piccoli
gomitoli rantolanti.
“Suuu, perché siamo qui” continuò imperterrito Akira, sfregandogli
giocosamente la faccia contro il collo, il pollice che si muoveva in
piccole carezze sul ginocchio tornito.
“Te l’ho detto”, sospirò Hiroaki cercando di incendiare con gli occhi la
sua stessa mano che faceva tremare vistosamente il bicchiere “per
controllare”
“Perché ci sei venuto con me e non con Rukawa? Ricordi”, mormorò
spostando leggermente la mano sulla sua gamba, pochi centimetri, poco
più in alto “Hai detto che sono un pessimo partner”.
Hiroaki si umettò le labbra inspirando “Era impegnato” mentì. Perché non
riusciva a parlargli? Perché non aveva la forza di chiederglielo?
Stavano assieme ora, no?
La mano di Akira salì ancora, accarezzandogli la coscia e ridiscendendo
al ginocchio.
“Sei scostante con me sai Hiro” si lamentò Akira, la testa appoggiata
sulla sua spalla, il fiato che gli si infrangeva contro il collo, “non
mi guardi più, a stento mi parli e poi mi porti qui, così
all’improvviso. Mi vuoi dire che cazzo c’è?” sibilò cambiando
improvvisamente tono e sedendosi composto, un mare di pochi centimetri
lo separava dal corpo del piccolo playmaker.
Hiroaki abbassò lo sguardo, fissando il pavimento piastrellato, che male
c’era a chiederglielo, stavano assieme no?
“Io credevo che…volevo, sì insomma stare un po’ con te e chiacchierare
senza che una delle nostre madri venga a rompere ogni due secondi”
borbottò.
“Chiacchierare?” ripeté Akira, un sorriso sornione sul volto, “Oh sì
chiacchieriamo” acconsentì riposando la mano sulla coscia di Hiro. “Di
cosa vuoi parlare?” chiese accarezzandogli piano la gamba, salendo con
piccoli cerchi concentrici, cercando di non sorridere ai brividi del
moretto.
“Aki” sussurrò Hiro deglutendo.
“C’è troppa musica, non ti sento” l’avvertì avvicinandosi a lui. I loro
nasi si sfioravano dolcemente, scambiandosi il calore. La mano salì
ancora, una carezza sensuale, fino al fianco.
“Non mi hai più degnato di uno sguardo Hiro”
“Non è vero”
“Non mi stai guardando nemmeno ora”.
Hiroaki alzò gli occhi, incontrando quelli di Akira, sentendo che il
sangue si scioglieva in vampate multicolore.
“Ti sei pentito di quello che c’è stato?” sussurrò Akira ed Hiroaki
scosse la testa, sfregando i loro nasi.
“Allora cosa c’è?” sussurrò parlandogli sulle labbra.
Hiroaki sospirò languidamente chiudendo gli occhi e socchiudendo la
bocca, sfiorando quelle labbra così dolci, sentendo l’ormai familiare
desiderio annientarlo.
Akira gli concesse l’ingresso, stringendolo con forza contro il suo
petto, la mano che saliva e scendeva contro il suo fianco invitante.
Improvvisamente Hiroaki s’irrigidì balzando in piedi.
“Hiro?” sbottò Akira indignato, osservando il suo ragazzo infilarsi la
mano in tasca e tirarne fuori il cellulare.
Con il broncio s’immerse nella tequila, sorseggiata non era poi così
male, era come bere un’aranciata, solo che poi ti restava un alone di
fuoco nella gola.
“Akira muoviti, andiamo su” ordinò Hiro tirandolo per una mano. “Hojio
ha detto che dobbiamo salire e di non scendere fino a che non arriva, se
ci trova giù ci fucila sul posto”
“E io che pensavo mi avessi portato qui per sedurmi e rubarmi la mia
virtù” sospirò cercando di nascondere la delusione: l’aveva sperato
davvero.
“Quella era la mia intenzione, ma mi sa che non ci lasceranno tempo”
sbottò trascinandolo verso le scale.
Akira aprì la bocca tre o quattro volte, incapace di parlare, salendo
meccanicamente, riprendendosi solo quando la porta si chiuse con un toc
alle sue spalle.
“Dicevi davvero?” mormorò abbracciandolo da dietro.
Hiroaki s’irrigidì “Lascia stare, Kia ha detto che ci passa a prendere
tra mezz’ora”
“Uhmm e nell’attesa cosa possiamo fare?” sussurrò mordicchiandogli il
collo.
Junda chiuse la porta con delicatezza: se quel poliziotto frigido e
pazzo pensava davvero che se ne sarebbe stato fermo in quel tugurio
senza far nulla si sbagliava di grosso.
In silenzio, il cuore un po’ spaventato, avanzò lungo il corridoio
dritto, le piastrelle marroni sporche da anni di abbandono. La luce era
fioca, avanzi marcescenti di un’epoca più felice, quando il raccordo blu
non era ancora stato costruito e quella stazioncina aveva ancora piedi
che la calpestavano. In silenzio salì le scale, venendo proiettato in un
mare di luci e suoni: la gente camminava veloce per raggiungere i treni
in partenza, un barbone seduto in un angolo ascoltava la radio,
controllando con un occhio il cappello per l’elemosina e con l’altro una
grossa busta di plastica bianca: tutti i suoi averi.
Come se nulla fosse, Junda continuò a camminare, il viso basso sui suoi
piedi, verso l’uscita.
L’aria fresca gli invase le narici con il suo profumo di mare e
salsedine.
Si fermò un istante alzando le braccia al cielo ed inspirando con forza,
poi iniziò a correre, aveva paura che quei deficienti sarebbero andati
lo stesso all’Iguana.
Non voleva che corressero pericoli.
Non voleva altre morti.
Svoltò slittando sulle suole, un sospiro pronto nella gola vedendo
l’appartamento di Hana. Non c’erano buchi sulla palazzina. Non c’erano
schegge sul pavimento.
Il sorriso che gli era nato sul viso si strangolò morendo.
L’aveva già vista.
Elegante e costosa, lunga e nera come la notte. Li aveva seguiti piano,
adeguandosi alla velocità della vasca da bagno che aveva come auto, per
poi superarli rombando.
Gli occhi di Hanamichi si spalancarono vedendolo e l’uomo dai capelli
bianchi se ne accorse, girandosi con un sorriso.
“Pensavo fossi morto piedipiatti” sogghignò.
“Junda!” gridò Hanamichi, ma Junda si rese conto che l’uomo aveva
sparato solo quando sentì il proiettile lacerargli la carne della gamba
che cedette facendolo rovinare a terra.
“Un’altra mossa, moccioso e lo sbirro è morto. Sali in auto” ordinò
spingendolo dentro “Voi prendete quello”.
Due uomini immensi afferrarono Junda sotto le ascelle, trascinandolo
come un tronco verso la macchina elegante.
“Buttatelo nel bagaglio, non voglio che mi macchi i sedili” rise
accomodandosi davanti.
“Bastardi” urlò Hana gettandosi fuori, solo per essere fermato da un
pugno metallico, che lo colpì allo stomaco facendogli perdere i sensi.
“Hana” sussurrò Junda girando la testa. I suoi occhi si sgranarono
occupandogli tutto il viso.
“NO!” urlò facendo rimbombare i muri della via “Non puoi fare nulla,
stai buono, stai buono. Ci penso io. KIA; Kia ci salverà, se tu stai
buono Kia ci salverà” gridò. Il colpo lo prese alla nuca ed un velo
rosso gli coprì gli occhi.
Alcune finestre si aprirono, ma l’auto scura avanzava silenziosa a fari
spenti lungo la via, confondendosi con le ombre.
Con un gemito di frustrazione Kaede uscì dal vicolo in cui si era
nascosto, un filo di sangue scarlatto usciva dal labbro, che stava
mordendo con troppa forza, macchiandogli il mento ed il collo.
^_____^
RU: perché sorridi?
Nia: ho messo il colpo di scema
Nobu: oh finalmente te ne sei resa conto…
Nia-___- volevo scrivere scena…..
Ru: >__< è meglio la prima versione…tira subito Hana fuori da lì sano e
salvo…
Nia…Ru…sai Hana è stato catturato con Junda….le ricerche di focus dicono
che un pericolo mortale è il più grande afrodisiaco che ci sia..
RU…..O_O
Nia: ehi Ka ci sei ancora?
RU…….O_O
Satori: su su su Rukawa se vuoi a te ti consolo io…
Ru……ç_ç