Si ringrazia infinitamente Kieran per le correzioni ____o___ grazie a lei quei debosciati dei miei pg non si mettono duecento volte le mutande!!!!!


Grosso guaio all'Iguana club 3

di Niane


TITOLO Grosso guaio all’Iguana club
PARTE 3\4
AUTORE niane
SERIE slam dunk
RATING nc17




Aprì gli occhi a fatica, rendendosi per la prima volta conto del vero significato della parola oscurità.
Un nero totale, completo, perfetto, senza sfumature, senza briciole di luce ad indicare un sopra ed un sotto, l’esistenza di un luogo solido.
Si mosse a disagio, sentendo nel petto una sensazione di vuoto, una caduta libera ed infinita, nonostante il materasso che gli sorreggeva la schiena. Richiuse gli occhi inspirando con forza e la vertigine si attenuò, ingannata dal buio naturale delle palpebre abbassate.
Alla cieca allungò la mano a destra, sfiorando una superficie ruvida, alta, larga, interminabile. Una parete. Con il cuore che batteva in silenzio, tremante come un cucciolo spaventato che si svegli nella tana senza il calore della madre, allungò la sinistra, sporgendola nell’aria vuota. Nulla. Aprì di nuovo gli occhi, ma c’era ancora solo quel mare d’inchiostro nero. Con uno scatto violento ritirò la mano, sbattendo il dorso contro lo spigolo affilato che gli graffiò la pelle. Una superficie liscia e fresca sotto il suo palmo che l’accarezzava. Un corpo freddo, metallico, sottile ed alto. Con forza strinse le mani attorno allo stelo della abat-jour portandosela al petto, abbracciandola come un’ancora, mentre scivolava lungo il filo, alla disperata ricerca di un interruttore che si abbassò con un clock soffocato e rauco. Un vagito indeciso ed azzurro di neon illuminò la camera.
Era un buco.
Lunga tanto quanto il letto su cui stava, una semplice rete con sopra un materasso, e larga forse altrettanto: il comodino contro il quale aveva urtato era separato dal letto di pochi centimetri ed un’altra manciata lo divideva dalla parete, intonacata solo da alcune irregolari macchie di muffa, su cui si apriva una porta di metallo grigio e ruggine.
Non c’erano finestre.
“Dove sono?” chiese sfiorando con le labbra il cappello di tela gallina della lampada: sapeva di polvere.
Con un gemito scese dal letto, soffermandosi a fissare il pavimento di nuda muratura. Un rumore, lontano e sordo,lo salutò brevemente prima di sparire di nuovo.
Indeciso posò la mano sulla maniglia fredda della porta.
Perché non c’era nemmeno una finestrella?
Con un silenzio quasi innaturale il portone si aprì ubbidiente sotto le sue mani, senza i cigolii e la resistenza che si era aspettato.
Una luce bianca, più forte di quella che ancora cercava di crescere nella sua camera, illuminò appena un’altra stanza risucchiata: delle mensole cariche di libri in triplice fila adornavano una parete incastrando tra loro un basso mobile che sorreggeva una piccola tv.
Alcune foto in bianco e nero, senza alcun tipo di supporto o cornice, erano inchiodate alle pareti.
Un paesaggio marino, una mucca che pascolava, un unico piccolo fiore con una farfalla che gli volteggiava accanto.
Un tavolo di ferro occupava buona parte della stanza, attorniato da tre sedie scompagnate e da un divano di tela rossa appoggiato contro l’altra parete. Una piccola teiera di ceramica azzurrina fumava tra canna, carrello, modulatore, caricatore, pallottole ed un vasetto minuscolo di olio.
“Ti sei svegliato?” sussurrò Kia appoggiando il pennellino con cui stava pulendo un tubicino lungo avvolto da una molla. Indossava un paio di jeans stinti ed una camicia nera, leggermente aperta sul petto.
Junda annuì notando nello stesso istante una seconda pistola, intera, sul tavolo e l’assenza di finestre in quella specie di soggiorno. “Cos’è?” chiese non riuscendo a formulare domande per quello che voleva davvero chiedere, ma che non credeva di voler sapere: ‘Dove sono?’ e, soprattutto ‘E’ accaduto davvero?’
“Un gioiello italiano” rispose il poliziotto incastrando la canna nel fusto “ Beretta 92fs o, se hai visto qualche film americano una M9. Fusto iperleggero, rifiniture antiriflesso, azione doppia o singola, con abbattimento automatico del cane ed indicatore di cartuccia in canna, sistema di mira a 3 punti, rinculo ridotto e necessità minima di manutenzione…”
“Una pistola”
Kia sollevò un sopracciglio inserendo con una smorfia il caricatore da 12 nell’arma “Una pistola” ripeté con tono disgustato “proprio come i tuoi cocktail sono semplice roba da bere”
“Che ore sono?”
“Le quattro del pomeriggio. Ho dovuto darti un calmante”
Junda annuì mordendosi il labbro. Kia posò, senza alcun rumore, l’arma sul tavolo, afferrando degli abiti che aveva appoggiato accanto a sé “Di là c’è il bagno, fatti una doccia, parleremo dopo” sussurrò porgendoglieli.
Junda obbedì meccanicamente, chiudendosi in quella specie di sgabuzzino, cullato dal gracchiare della ventola che sostituiva la finestra assente, lasciando che l’acqua, poco più che tiepida, piovesse a lungo sul suo corpo, schiarendogli la mente.
Il suo appartamento era esploso. Tutto quello che restava della sua casa era un buco frastagliato in mezzo al palazzo. Quanta gente sarebbe stata sfollata per la riparazione? Quanti erano stati feriti per colpa sua? Cosa aveva fatto per causare una simile esplosione? Un sorriso timido ed imbarazzato gli tornò alla mente. Il sapore dolce di labbra arrendevoli.
“No” sussurrò alzando il viso, lasciando che l’acqua entrasse bruciando negli occhi, annegandogli le narici, non poteva ancora pensare a lui. Non poteva ancora accettare di averne causato la morte.
Chiuse il rubinetto e l’aria nei tubi muggì per alcuni secondi per poi azzittirsi di colpo.
Con pochi gesti veloci si rivestì infilandosi i jeans e la camicia che era di un bel verde bosco, pesante a coste sottili, calda in mezzo alla fredda umidità di quel luogo ed aveva un profumo rassicurante.
Kia era ancora seduto sul divano, le spalle incurvate su se stesse, le mani intrecciate attorno ad un ginocchio, una sigaretta spenta tra le labbra.
“Ora credo di avere un ottimo motivo per intossicarmi, se me ne dai una ti faccio compagnia” mormorò sedendoglisi accanto.
Kia scosse la testa sorridendo mestamente “Non si può fumare qua dentro, quella non fa cambiare l’aria molto velocemente” spiegò indicando una grata sul soffitto.
“Dove siamo?”. L’aveva detto. La prima delle domande da non prendere in considerazione, il primo passo sulla strada della dannazione. Perché era andato a prendere il vino e non era rimasto con Seishiro? Perché non erano andati in una delle camere dell’Iguana? Se si fossero fermati al pub l’esplosione non avrebbe ucciso nessuno.
“Siamo in un braccio inutilizzato della metropolitana. E’ il mio rifugio. Non lo conosce nessuno, ci ho messo anni per sistemarlo, ma l’ho fatto tutto da solo e migliorerà quando mi ci stabilirò definitivamente. Il prossimo mese mi abbattono la casa per farci un centro commerciale.”
“Sembra un bunker”
“In un certo senso lo è”.
Silenzio, palpabile come la nebbia fitta, molesto nella presenza di parole taciute, ma presenti.
La mucca li osservava dal suo muro, gli occhi immensi e languidi, soddisfatta del suo essere mucca.
Con un gemito del divano Kia si alzò, dandogli le spalle “Per quanto può servire: mi dispiace. E’ colpa mia”
Junda gemette, un verso strano, alterato, una via di mezzo tra una risata isterica ed un sospiro tremulo “Colpa tua? Non sei tu che hai rimorchiato Seishiro…se fossi rimasto con lui…se ci fossimo fermati all’Iguana…”
“Avresti solo posticipato il momento dell’esplosione”
“Cazzo!” urlò, ma il suono sembrava ovattato da quei muri impietosi “Che cosa ho dimenticato acceso? Che cazzo ho fatto per…”
Kia gli si inginocchiò davanti, posandogli le mani sulle ginocchia “Non è stata colpa tua Jundaro. La bomba era preparata per esplodere nel momento in cui la porta si fosse aperta”
“La bomba?”
Kia annuì “Un ordigno al plastico”
“Una bomba?”
“Sì, da quel poco che è rimasto abbiamo scoperto che è stato fatto da un professionista, calcolato al milligrammo per far esplodere solo casa tua senza fare una strage.” spiegò con calma, “Come vedi tu non hai nulla di cui accusarti, quello che continua a sbagliare sono….”.
Con un ringhio Junda lo spinse a terra, afferrandogli le braccia e bloccandogliele con cattiveria sopra la testa. Kia inarcò un sopracciglio, lasciandolo fare“Che cosa pensi di fare?” chiese.
Junda chiuse gli occhi rispondendo con un sibilo “Io ti odio, ti odio, ti odio, sei solo un fottutissimo sbirro saccente. Che cazzo ne vuoi sapere tu eh?”
Con uno scatto improvviso, si abbassò premendo con forza le labbra contro le sue.
Kia inarcò un sopracciglio perplesso: sotto la violenza, la cattiveria e la forza bruta con cui quella lingua premeva contro la sua bocca, c’era disperazione. Chiuse gli occhi indeciso, permettendo a quella lingua umida di continuare a leccargli le labbra tentando di forzarle.
Era quello ciò di cui aveva bisogno? Gli avrebbe dato un attimo di pace?
Le mani di Junda gli strapparono la camicia di dosso, facendola scendere con forza lungo le braccia, iniziando a sfregare voraci la pelle liscia e compatta del poliziotto, scorrendo velocemente sui piani dei muscoli. Kia sogghignò appena: ridicolo, quel pazzo stava cercando di violentarlo.
Una lacrima gli cadde sulla guancia, infrangendosi sulla sua pelle come una goccia di pioggia e Kia sospirò fissando quelle palpebre umide strette con troppa forza: come diavolo poteva fare sesso e piangere allo stesso tempo? Con un sospiro socchiuse le labbra, permettendo a quella lingua invadente e cattiva di penetrare nella sua bocca, schiaffeggiare il suo palato, picchiare la sua stessa lingua e poi scivolare di nuovo fuori. Le mani di Junda agguantarono i bottoni dei jeans slacciandoli, aprendo la stoffa rigida ed abbassando al contempo i boxer, afferrando il membro morbido tra le dita.
“Ora stai esagerando, se proprio dobbiamo farlo, almeno facciamolo bene” sibilò Kia liberandosi senza fatica della presa, afferrandogli il collo e facendolo volare, con un colpo di reni e una mossa di Judo, sul pavimento, sottodi sé, accompagnandolo nella caduta perché non battesse la testa.
Junda lo fissò perplesso, gli occhi sgranati brillanti di lacrime “Kia io…”sussurrò, la voce che tremava, ma il poliziotto sorrise “Da come ti comporti pensavo ci sapessi fare a letto, invece sei un po’ imbranato eh? O io sono troppo grande per te?” sussurrò, scendendo sulla sua bocca senza lasciargli il tempo di replicare. Junda rimase immobile sotto il bacio.
Le labbra tiepide e tumefatte dalla violenza di prima, gli accarezzavano le sue con tocchi lievi, la lingua s’insinuava lenta nella sua bocca, esplorandolo con placida calma.
Junda sbatté le palpebre tre volte.
La lingua di Kia sfiorò la sua stuzzicandone la punta, invitandola a reagire e Junda rabbrividì appena, iniziando a ricambiare il bacio, intrecciando la lingua alla sua, lasciandole strusciare l’una sull’altra lentamente. Chiuse gli occhi, cancellando ogni cosa, lasciando che i brividi di piacere divenissero l’unica legge del suo corpo.
Fremiti, mentre le lingue scivolavano bagnate l’una sull’altra.
Con un sospiro Junda gli insinuò una mano tra i capelli corti, accarezzando al contempo la seta cenerina e la nuca morbida. La pelle del collo era calda sotto i suoi polpastrelli e la mano scese lenta lungo il fianco, sfiorando la vita sensibile che fremette sotto il tocco appena accennato, scivolando più giù sul fianco saporito, semiscoperto dai pantaloni abbassati.
“Kia” gemette, allontanando improvvisamente la bocca, lasciando che il filo sottile di saliva che li univa gli scivolasse sul mento.
“Ti sei dato una calmata?”
Junda sollevò appena il sopracciglio, lasciando che il piccolo orecchino freddo gli facesse rabbrividire la pelle “No” sussurrò infilando il viso sotto il suo collo, succhiandogli piano la pelle dolce.
Kia si irrigidì, ma il profumo sensuale di spezie aveva invaso la mente di Junda, che sapeva solo di voler assaggiare ogni centimetro del suo corpo.
Con un gemito allargò le gambe, lasciando che il ginocchio del poliziotto cadesse tra loro sbattendo a terra e che la sua coscia gli premesse sull’erezione che si stagliava come una pistola dura sotto i jeans. Kia chiuse gli occhi, forse doveva fermarlo, ma non ne era sicuro.
Fermarlo, lasciarlo solo con la consapevolezza del suo dolore, dei sensi di colpa.
Deglutì socchiudendo le labbra quando le mani gli accarezzarono la schiena nuda, sfiorandogli i glutei e scivolando ancora più giù a toccare la pelle calda delle cosce che tremò sotto la punta fredda dei polpastrelli. Con un mugugno di apprezzamento Junda gli mordicchiò la spalla leccandola voracemente, risalendo sul collo e Kia si morse le labbra trattenendo un gemito.
Senza abbandonare il suo collo Junda lo fece rotolare sul pavimento, imprigionandolo sotto di sé.
Piano le labbra scesero lungo il torace, raggiungendo l’aureola scura dei capezzoli semieretti, disegnandone lentamente, con cura, il perimetro prima di sfiorare i boccioli di carne con la lingua, spingendoli verso il basso, stringendoli appena tra i denti fino a farli erigere duri come proiettili di carne. Una solitaria goccia di sangue macchiò il labbro di Kia, scivolando, dal piccolo taglio che avevano aperto i denti, sul mento. Junda la vide appena, una macchiolina sfocata nella coda dell’occhio; l’asciugò con la punta della lingua, leccando con attenzione la pelle chiara, salendo dal mento al labbro ferito, lappandolo dolcemente, a lungo, come una gatta premurosa che stia curando il suo gattino e Kia si arrese. Un sospiro stanco, estenuato, sconfitto. Socchiuse la bocca abbandonandosi alle carezze sinuose, permettendo ai brividi di scorrere liberi lungo la sua schiena.
Senza che potesse fare qualcosa, le sue mani scivolarono spontaneamente sulla schiena di Junda, infilandosi sotto la camicia, toccando la pelle bollente. Il moretto approvò con un sospiro, approfondendo il bacio in una maniera impossibile: le loro lingue s’intrecciavano fondendosi l’una l’altra, succhiandosi a vicenda, scappando leggere da una bocca all’altra.
La mano di Junda gli accarezzò piano un fianco, salendo a stuzzicare appena un capezzolo duro e Kia mugolò di piacere mordendogli il labbro.
Con un gemito Junda affondò il viso contro il suo collo, mordendo la pelle fino a lasciare un piccolo segno scarlatto, insinuando la mano nei pantaloni sbottonati di Kia, accarezzando la lunga dura rigidezza del suo sesso che sussultò sbattendo contro la stoffa antipatica e umida dei boxer.
Con uno scatto Junda gli si sedette a cavalcioni, spogliandolo completamente, accompagnando con leggere carezze la corsa dei vestiti lungo le gambe lunghe.
Si morse il labbro contemplando per un istante la bellezza del poliziotto: l’aggettivo bellissimo non gli rendeva giustizia.
Le gambe erano lunghe e tornite, le cosce dure lasciavano intravedere il gioco sottile dei muscoli, così come il ventre piatto e duro al tatto come una roccia, nonostante la pelle fosse liscia e morbida.
In mezzo a tutto si stagliava l’oggetto dei suoi desideri, alto, imponente, succoso, che sembrava implorarlo di scendere su di lui e mangiarlo.
Improvvisamente Kia aprì gli occhi, incontrando i suoi ed il cuore di Junda scoprì per la prima volta che esisteva qualcosa di ancora più succoso. In trance, incapace di distogliere lo sguardo da quei pozzi di petrolio incandescente, si liberò dai vestiti, ridiscendendo lentamente su di lui, coprendolo con il suo corpo, facendo combaciare le loro forme: gambe su gambe, cosce su cosce, pene su pene, petto su petto e la perfezione: le sue labbra sulla sua bocca e le loro lingue una sull’altra.

Kia sospirò languidamente, artigliandogli i glutei e spingendolo con forza contro di sé, inarcando il bacino per inseguire quello di Junda, lasciando che i loro sessi di marmo imitassero le lingue in un bacio altrettanto umido.
“Kami Kia” gemette Junda accarezzandogli un fianco, insinuando la mano sotto il suo corpo, lasciandola scorrere tra la fessura invitante e bollente tra le sue natiche, fino al bordo tiepido del suo precipizio.
Kia s’inarcò sollevando il bacino da terra ed il medio di Junda scivolò piano dentro di lui, in profondità, muovendosi in circolo, sfiorando con la punta lontana dell’unghia quel punto magico che faceva vibrare ed inarcare il poliziotto sotto di sé.
Con un grugnito Junda gli afferrò le gambe posandosi le caviglie sulle spalle, succhiandogli l’incavo del ginocchio e bussando al contempo con il proprio membro sull’apertura pulsante che aveva liberato.
Lo penetrò con un unico colpo, costringendolo ad inarcare con violenza la schiena per attutire il colpo. I denti di nuovo stretti sul labbro inferiore, riaprendo il taglio che si era richiuso da poco.
Solo quando fu entrato completamente si fermò un istante, immobile, assaporando quella carne così dannatamente stretta che lo racchiudeva.
Sollevò una mano, andando ad accarezzare la punta scarlatta del pene di Kia che sussultò umida tra le sue dita. Attento a non uscire completamente da lui, Junda arretrò leggermente, piegandosi poi in avanti fino a sfiorarlo con la lingua, assaporando il gusto pungente e dolce del suo piacere.
Kia sibilò tra i denti piantando le unghie nel pavimento: non c’era nemmeno un tappeto a cui potersi aggrappare.
Junda chiuse la bocca sul suo sesso tumefatto, succhiandone la punta per un lungo istante prima di allontanare il viso di scatto e rispingersi con forza dentro di lui.
Kia urlò stringendo con forza le dita attorno ai polsi che lo sostenevano.
Junda chiuse gli occhi, allontanandosi di nuovo e respingendosi sempre più a fondo, sentendo i gemiti soffocati del poliziotto scivolare nel suo cuore come un balsamo e la realtà assottigliarsi sempre di più per essere sostituita da un regno nuovo, mai conosciuto, dove non esistevano altro che lui e due occhi neri.

             Con un gemito sommesso Junda si passò la mano sul viso, asciugando le tracce delle lacrime che non sapeva di aver versato.
“Kia?” sussurrò senza avere il coraggio di girarsi a guardare il poliziotto che gli giaceva accanto.
“Hn”
“Io…io…io mi dispiace...io ho perso…tu…non è che tu...insomma, tu sei almeno bisex vero? Non è che io…che tu non hai mai …”
Il poliziotto sbuffò divertito “Sono gay e no, non è la mia prima volta, tranquillo.”
“No, è tutto uno schifo” borbottò alzandosi in silenzio e tornando nella squallida stanza da letto dove spense la luce lasciandosi ripiombare nel buio. Davvero gli era sembrata così terribile prima? Perché il limbo doveva sempre apparire così temibile, se in fondo non c’era nulla? Né bene, ma nemmeno male, impressioni o ricordi. Apatia, nessuna sensazione, nessun dolore. Davvero era brutto?
“Jundaro” sussurrò Kia aprendo la porta, lasciando filtrare una striscia di luce.
“Lasciami in pace” sussurrò girandosi verso il muro, voltando le spalle al chiarore.
“No. Perchè ora tu ti stai incolpando per la morte di quel ragazzo, anche se tu non hai colpa. Avrei dovuto fare io dei controlli più approfonditi, ma non avrei mai nemmeno immaginato che potessero fare una cosa del genere. Credo che in qualche modo abbiano sentito dell’operazione e ti abbiano scambiato per uno dei nostri. Merda, io non volevo coinvolgere i civili…mi sono preoccupato di proteggere Sakuragi e di mettere una sorveglianza su Rukawa e Koshino, non credevo che tu potessi correrei dei rischi. Ho sbagliato io, dovevo controllare meglio…Quel Seishiro non mi convinceva, mi pareva strano che ti avesse rimorchiato in quel modo, così vi ho seguito, invece quel ragazzo era innocente e ‘loro’ erano già passati…”
“Cosa vuol dire non credevo ti potesse rimorchiare in quel modo?” domandò girando il viso all’indietro.
“Mi puzzava…quello viene al locale per un po’ di volte e poi tac di punto in bianco ti fa una simile avance? Non ti è parso strano?”
“Se per caso non te ne sei ancora accorto io sono un uomo dotato di estremo fascino e carisma…cose del genere mi capitano spesso e da parte di entrambi i sessi, lui voleva solo venire a letto con me….e per questo è morto” concluse, la voce poco più che un bisbiglio sofferente.
“Junda…” sussurrò piano Kia posandogli la mano sulla nuca, nessuna carezza, solo la pressione calda e rassicurante del suo palmo.
“Lasciami stare, lasciami solo, tu non puoi capire come mi sento”
“Oh sì, invece. Io ho ucciso la persona che amavo di più al mondo”.
Il collo di Junda si tese appena sotto la sua mano. “Era bellissima, intelligente, simpatica.” Continuò sdraiandosi supino sul piccolo letto accanto a lui, le mani incrociate sotto la nuca, “ Aveva tutto, un mare di amici, un sacco di ragazzini che le correvano dietro, andava bene a scuola ed aveva un ruolo di titolare nel club di pallavolo, uno dei migliori della prefettura. Aveva tutto, anche la mia venerazione. La seguivo sempre come un cagnolino fedele e, anche se all’epoca avevo 6 anni meno di lei ed ero di certo una palla al piede, lei era sempre gentile con me. Poi qualcosa in Keiko si spezzò. O forse un giorno guardò dentro di sé e si accorse della falla nel puzzle della sua esistenza. Se fossi stato più maturo dei miei 11 anni avrei capito. Aveva 17 anni, ai miei occhi era una donna grande, eppure una sera si sedette sul mio letto e mi chiese qual era il senso della vita. Per me all’epoca era riuscire a convincere mamma e papà che ero abbastanza grande per andare ad un concerto. Lei era la sorella maggiore, lei era quella che aveva le risposte. Se fossi stato meno superficiale avrei capito che qualcosa la turbava, ma non me ne accorsi. Tra noi non cambiò nulla, solo aveva cominciato a sorridere un po’ meno.
Poi venne quel giorno. Quello che non mi perdonerò mai. I nostri erano via per l’anniversario ed io ne approfittai per bruciare la lezione di inglese e tornare a casa prima. Keiko era già arrivata, sola in cucina con una siringa sottile in mano. Non urlò, né mi sgridò; si limitò a sorridermi dolcemente, felice, uno di quei sorrisi veri che stavano diventando così rari. Prese la siringa ancora piena e la gettò in pattumiera, poi mi si avvicinò piano, mi pose le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi ‘Mi vuoi bene Kicchan?’ mi chiese ed io annui, era vero. ‘Allora se mi vuoi davvero bene, non lo dire a mamma e papà. Non glielo raccontare. Hai visto ho buttato via tutto’. E io coglione promisi, sapendo che era sbagliato, sapendo che avrei dovuto dirlo ad un adulto, promisi. Non dissi mai nulla, nemmeno quando un poliziotto convocò i miei alla centrale: avevano arrestato mia sorella per prostituzione. Aveva iniziato a vendere il suo corpo per procurarsi i soldi per la droga. Mia madre pianse per giorni e mio padre guardava Keiko scuotendo la testa ‘Hai tutto. Ti abbiamo dato tutto. Perché l’hai fatto?’. Lei non aveva risposte da dare, nemmeno a se stessa. Per tre anni frequentò un gruppo di disintossicazione e per tre anni le demmo tutto l’amore e la comprensione possibile, anche quando ci ricadeva, anche quando veniva piangendo a confessare di averlo rifatto. Le davamo parole di conforto rassicurandola che era normale, che ci voleva tempo. Amore illimitato. Se fossimo stati più duri con lei, se le avessimo fatto provare vergogna per quello che faceva, se avessimo mostrato un po’ di disdegno e se avessi provato almeno a cercare la tessera che poteva chiudere il buco del suo puzzle… Le stavamo dando tutto, eppure in quel tutto c’era l’unica cosa che le mancava. Smise di drogarsi solo quando la ricoverarono in ospedale. Aids. In un mese era morta.
Per anni ho vissuto credendo che fosse stata colpa mia. Se avessi fatto la spia quel pomeriggio stesso, se l’avessi detto subito…”
“Avrebbe potuto non cambiare nulla. Non è stata colpa tua Kia.” Gli sussurrò Junda scivolando contro di lui, abbracciandogli leggermente la vita, il viso contro i capelli morbidi che gli solleticavano la pelle. Aveva ancora lo steso profumo di bosco e spezie.
“Davvero?”
“Tu non potevi sapere…non l’hai uccisa tu”
“E tu invece sapevi che aprendo la porta l’appartamento sarebbe esploso?”
Junda tremò appena senza rispondere.
“Sapevi che sarebbe esploso Jundaro?” ripeté Kia girandosi a guardarlo, ma il moro teneva gli occhi secchi bassi, immobili sul filo tirato del copriletto che si appallottolava su se stesso.
“Rispondi!”.
“No, merda, no non lo sapevo” gridò con violenza “non lo sapevo” ripeté.
Kia annuì abbracciandolo, per ora gli bastava così, ci avrebbero pensato gli psicologi della polizia a convincerlo a fare davvero pace con se stesso, per ora gli bastava che non si mettesse in testa qualche sciocchezza.
“Però mi sento ancora in colpa” mormorò infilando il viso nell’incavo del suo collo.
“Lo so e non passerà mai” ammise, trovando il coraggio di annunciarlo per la prima volta anche a se stesso, “ anche se non è colpa nostra c’è sempre il rimorso di non aver fatto qualcosa, qualsiasi cosa”
Le mani di Junda gli si posarono sulla pelle nuda del petto scivolando leggere, sulle linee morbide dei muscoli “Le mancava uno scopo” sussurrò contro la sua gola.
“Cosa?”
“A tua sorella. Hai detto che aveva tutto, ma le mancava uno scopo per cui vivere. La vita ti va bene fino a che non scopri improvvisamente che ti stai limitando ad esistere, allora cerchi uno scopo e lei non l’ha trovato. A quel punto non fai altro che attendere di morire.”
Kia scosse piano la testa, frustandogli delicatamente il viso con i capelli, un sospiro di frustrazione soffocato in gola.
“Hai mai pensato che la vita dev’essere qualcosa di diverso da quel che sembra?” continuò Junda, un sussurro sommesso nell’oscurità umida ed ammuffita, “Ho frequentato uno degli istituti superiori più prestigiosi del Giappone e poi ho seguito il consiglio di mio padre laureandomi in ingegneria meccanica. La Ninnifoundation ha accettato la mia candidatura quasi subito e mi sono trovato a svolgere un lavoro semplice, ben pagato, senza troppe responsabilità, tranquillo. Un lavoro per il quale molti avrebbero fatto carte false. Otto ore al giorno, senza troppi grattacapi e uno stipendio notevole. Secondo mia madre mi bastava una famiglia per essere un uomo realizzato.” Chiuse gli occhi scuotendo la testa “ E all’improvviso ho capito che la mia vita non aveva un senso, avevo tutto, nel mio puzzle non c’erano pezzi mancanti, solo che il disegno che ne stava uscendo non era quello dipinto sulla scatola che io avevo comperato. Cosa mi aspettava? Un lavoro stabile che mi permetteva di mettere su famiglia, di dare un’ottima istruzione ai miei figli di modo che trovassero un buon lavoro che permettesse loro di metter su famiglia e di mandare i figli in ottime scuole perché poi potessero trovare lavoro…” sospirò, un suono profondo, incredulo e triste. “Non può ridursi tutto a questo. Deve esserci qualcosa di più, se no non ha senso. Non ti capita mai di pensarlo Kia?”
Kia fissò il buio sopra di lui, sfiorando inconsciamente la tempia del moretto con le nocche “No. Io ho uno scopo, uno solo ed è lottare contro quei fetenti che si approfittano delle debolezze altrui per arricchirsi vendendo loro la droga. Io non so se ti capisco. Ora sei felice?”
Junda chiuse gli occhi aspirando l’odore dolce di quella pelle fresca “Non lo so. Forse…lo ero. Prendo la metà di quanto pigliavo in azienda, mio padre mi parla solo per accusarmi di aver gettato la più grande occasione della mia vita, il mio scaldabagno si rifiuta di far uscire acqua calda, eppure mi sento meno sperduto di prima. Mi sentivo. Ora…” scosse la testa, sentendo le lacrime traditrici scivolare sotto le ciglia. “Ma che ne so” sbottò girandogli la schiena, lasciando che le lacrime scendessero liberamente
Kia, immobile al suo fianco, fissò il soffitto in silenzio.

Fu lo spazio eccessivo a svegliarlo.
Era stato confinato in un angolino del letto, schiacciato quasi tra il muro ed il calore del corpo morbido di Kia e quando, girandosi, non trovò limiti, i suoi occhi si aprirono di colpo.
La parte del letto su cui Kia era stato steso era ancora calda. Con uno sbuffo, (quel frigido di un poliziotto avrebbe anche potuto stare lì con lui) si alzò tornando in salotto: la mucca alla parete lo fissò attentamente, contemplando la sua completa nudità.
Senza una parola, senza raccogliere i propri vestiti da terra, Junda tornò a scrutarla da vicino: un piccolo aereo tagliava il cielo lasciando una cicatrice spumeggiante. Le cime lontane degli alberi si piegavano leggere verso destra, mentre i grandi occhi bovini brillavano come buoni laghi neri, scrutandolo come se fossero vivi “E’ stupenda”
“Ti piace?”
“E’ eccezionale. Il fotografo meriterebbe un premio, è tanto bella da parere un disegno”
“Bhè, prendila te la regalo”
Junda si girò a fissarlo: Kia si stava infilando la camicia, mentre i jeans gli pendevano sbottonati sui fianchi, lasciando intravedere la curva morbida ed abbondante del basso ventre appena coperto dalla maglia scura ed accattivante dei boxer.
“Davvero?” domandò sentendo con imbarazzo la voce aumentare di alcune ottave ed uscire gracchiante dalla gola: le punte della camicia, che ondeggiava sotto le dita che chiudevano i bottoni, sfioravano invitanti il basso bordo dei boxer, accarezzando impudicamente la pelle chiara. Kia si strinse nelle spalle ed i piccoli capezzoli scuri ammiccarono un istante prima di sparire sotto il cotone scuro.
“A casa ho ancora il negativo, posso ristamparla quando ho voglia, ma non è una delle più riuscite”
“L’hai fatta tu?” sospirò Junda continuando a seguire con gli occhi le carezze della stoffa, sentiva la bocca riempirsi di acquolina.
“La fotografia è il mio hobby” annuì, senza spostare lo sguardo dall’immagine; infilando la camicia nei pantaloni ed iniziando piano ad abbottonarli dal basso, le dita che passavano leggere e carezzevoli sulla stoffa, sfiorando il tesoro che custodiva.
Senza una parola Kia si sedette sul divano infilandosi i bassi stivaletti di pelle nera, prendendo un piccolo coltello dal tavolo, soppesando l’impugnatura leggera e lucida tra le dita, accarezzandone il legno allungato un istante prima di far sparire il pugnale nello stivale sinistro.
“Dove vai?” chiese Junda ritrovando improvvisamente la voce.
“Al commissariato” rispose.
“Cosa accadrà ora?”
Kia s’immobilizzò, un bottone infilato a metà nell’asola. Improvvisamente, sembrava più giovane e stanco, le spalle che erano sempre state ritte contro il mondo si piegavano leggermente in avanti, sconfitte “Il piano è andato a puttane, ovviamente. Loro hanno mangiato la foglia e non si faranno più vedere al locale e comunque dopo stanotte è troppo rischioso, non possiamo mettere a repentaglio la vita dei civili. Il locale sarà tenuto sotto sorveglianza, in modo discreto, ma pubblico: i clienti forse non si renderanno mai conto che circolano dei poliziotti in borghese, mentre ogni malintenzionato ne conoscerà anche gli orari. Non si presenteranno più all’Iguana.”
“Non è risolto…possono cambiare locale”
“Lo cambieranno”
“Non è giusto eravamo così vicini, potevamo batterli”
Kia abbassò la testa sospirando “Sono come la gramigna, anche se butti il diserbante rispuntano sempre, noi ci limitiamo a cercare di estirpare le erbacce che vediamo” sospirò. Immobile al centro della stanza, Junda fissò il soffitto demoralizzato “Non è giusto, il bene dovrebbe vincere sempre” sussurrò sobbalzando quando una mano fresca gli sfiorò la fronte “Solo nei film Jundaro”.
Con un gesto stizzito il moretto allontanò la mano con uno schiaffo “Senti so che sei uno sbirro e che perciò sei deficiente,ma non è difficile sai: JUNDA! Non lo sopporto quel nome, mi ci chiama sempre mio padre! Io ora mi chiamo Junda e tu mi devi chiamare Junda!”
“ Io non sono tuo padre e non vedo perché dovrei chiamarti con il diminutivo, non siamo così intimi”
Junda aprì la bocca e la richiuse allibito.

“Senti un po’,” sibilò dopo un istante di silenzio completo “ vorrei ricordarti che fino a poco tempo fa tu eri steso nudo nel letto con me! Non ti sembra una cosa intima quella? No, perché per quanto tu sia frigido, ti assicuro che stavi gemendo un bel po’ e se, invece, la vecchiaia ti ha già mandato in pappa il cervellino, perché non dai una controllatina, di certo sarai in grado di trovare le tracce di un rapporto amoroso ispettore Hojio!” sibilò irritato.
Kia sbiancò assottigliando gli occhi fino a ridurli in due fessure imperscrutabili e brillanti e Junda deglutì, sentendo il cuore rallentare, spaventato. Non gli piaceva l’espressione del poliziotto, il bel viso, sempre troppo serio, era tirato in una maschera di terribile decisione e le labbra carnose erano ristrette in un ghigno crudele.
“Kia” sussurrò incerto.
“Merda! Ecco come hanno fatto….ti devono aver sentito!” gridò sbattendo le mani contro il muro, ai lati delle spalle di Junda, con tanta forza che l’intonaco già corroso scivolò giù in piccole scagliette. “Merda!”.


La musica suonava sensuale, ondeggiando nell’aria in scie azzurrate, infiltrandosi tra i tavolini ad accarezzare i vestiti bianchi che ridacchiavano elettrizzandosi.
“Hiro” lo chiamò rimestando perplesso il rametto (quasi un albero in realtà) di mentuccia con cui l’unico barista, piuttosto imbronciato, aveva decorato il suo cocktail azzurro. “Perché siamo tornati qui?” sedendosi su uno dei divanetti “Tuo zio ha detto che il piano è saltato”
Hiroaki annuì senza guardarlo, infilando il viso nel bicchiere largo, spostando con le labbra le fettine di arancia “Potrebbe esserci sfuggito qualcosa” borbottò.
Akira sospirò portandosi il bicchiere alle labbra, prima di riabbassarlo velocemente senza nemmeno assaporarlo: non riusciva a bere quella roba, era più forte di lui.
“Non ti piace?” chiese Hiroaki fissandolo di sottecchi; dopo quanto era accaduto tra loro pochi giorni prima non aveva avuto più il coraggio di guardarlo direttamente.
“Mi fa impressione, mi sembra una cosa da puffi”
“Perché l’hai preso allora?”
”Aveva un bel nome” confessò con un sorriso.
Hiroaki spalancò gli occhi scuotendo la testa, prima di scambiare i bicchieri e passargli il suo, contenente un liquido che ricordava un’aranciata stinta.
“Arriverà anche Rukawa?” chiese Akira.
“No…non lo so”
“E allora noi cosa ci facciamo qui? Io ci capisco nulla” sbottò svuotando mezzo bicchiere con un lungo sorso. L’alcool gli bruciò la gola, incendiandogli il sangue che gli pompò nelle orecchie con la forza di una vecchia locomotiva sotto pressione.
“Che è sta cosa?” gracchiò sentendo la gola ardere e restringersi su se stessa.
“Tequila sunrise”
“Che ca…Hiro volevi ubriacarti?” tossì appoggiando il tumbler sul tavolo.
Hiroaki non rispose, arrossendo appena e sorseggiando il liquore azzurro.
“Hiro?” ripeté Akira, direttamente contro il suo orecchio, facendolo sobbalzare.
“Che…che…che c’è?” domandò sentendo il cuore galoppare selvaggio e il proprio corpo reagire alla vicinanza del suo capitano.
“Mi vuoi dire perché siamo ancora qui, anche se ti hanno detto di startene a casa?” ripeté Akira ed il suo fiato baciò piano il lobo di Hiro, insinuandosi nel suo padiglione, accarezzandolo piano, mentre una mano, tremendamente pesante e calda, gli si posava sul ginocchio.
Hiroaki non rispose, continuando a bere quella brodaglia fredda e senza sapore, il bicchiere che tremava piano tra le sue dita, spandendo il liquido azzurro sul mento e sul collo.
“Allora?” insistette Akira, raccogliendo con l’indice il liquore che gli sporcava il viso, salendo dal mento, fermandosi all’angolo della bocca socchiusa, per poi portarsi il dito alle labbra, succhiandolo piano per ripulirlo. Hiroaki deglutì rumorosamente, il respiro ridotto a piccoli gomitoli rantolanti.
“Suuu, perché siamo qui” continuò imperterrito Akira, sfregandogli giocosamente la faccia contro il collo, il pollice che si muoveva in piccole carezze sul ginocchio tornito.
“Te l’ho detto”, sospirò Hiroaki cercando di incendiare con gli occhi la sua stessa mano che faceva tremare vistosamente il bicchiere “per controllare”
“Perché ci sei venuto con me e non con Rukawa? Ricordi”, mormorò spostando leggermente la mano sulla sua gamba, pochi centimetri, poco più in alto “Hai detto che sono un pessimo partner”.
Hiroaki si umettò le labbra inspirando “Era impegnato” mentì. Perché non riusciva a parlargli? Perché non aveva la forza di chiederglielo? Stavano assieme ora, no?
La mano di Akira salì ancora, accarezzandogli la coscia e ridiscendendo al ginocchio.
“Sei scostante con me sai Hiro” si lamentò Akira, la testa appoggiata sulla sua spalla, il fiato che gli si infrangeva contro il collo, “non mi guardi più, a stento mi parli e poi mi porti qui, così all’improvviso. Mi vuoi dire che cazzo c’è?” sibilò cambiando improvvisamente tono e sedendosi composto, un mare di pochi centimetri lo separava dal corpo del piccolo playmaker.
Hiroaki abbassò lo sguardo, fissando il pavimento piastrellato, che male c’era a chiederglielo, stavano assieme no?
“Io credevo che…volevo, sì insomma stare un po’ con te e chiacchierare senza che una delle nostre madri venga a rompere ogni due secondi” borbottò.
“Chiacchierare?” ripeté Akira, un sorriso sornione sul volto, “Oh sì chiacchieriamo” acconsentì riposando la mano sulla coscia di Hiro. “Di cosa vuoi parlare?” chiese accarezzandogli piano la gamba, salendo con piccoli cerchi concentrici, cercando di non sorridere ai brividi del moretto.
“Aki” sussurrò Hiro deglutendo.
“C’è troppa musica, non ti sento” l’avvertì avvicinandosi a lui. I loro nasi si sfioravano dolcemente, scambiandosi il calore. La mano salì ancora, una carezza sensuale, fino al fianco.
“Non mi hai più degnato di uno sguardo Hiro”
“Non è vero”
“Non mi stai guardando nemmeno ora”.
Hiroaki alzò gli occhi, incontrando quelli di Akira, sentendo che il sangue si scioglieva in vampate multicolore.
“Ti sei pentito di quello che c’è stato?” sussurrò Akira ed Hiroaki scosse la testa, sfregando i loro nasi.
“Allora cosa c’è?” sussurrò parlandogli sulle labbra.
Hiroaki sospirò languidamente chiudendo gli occhi e socchiudendo la bocca, sfiorando quelle labbra così dolci, sentendo l’ormai familiare desiderio annientarlo.
Akira gli concesse l’ingresso, stringendolo con forza contro il suo petto, la mano che saliva e scendeva contro il suo fianco invitante.
Improvvisamente Hiroaki s’irrigidì balzando in piedi.
“Hiro?” sbottò Akira indignato, osservando il suo ragazzo infilarsi la mano in tasca e tirarne fuori il cellulare.
Con il broncio s’immerse nella tequila, sorseggiata non era poi così male, era come bere un’aranciata, solo che poi ti restava un alone di fuoco nella gola.
“Akira muoviti, andiamo su” ordinò Hiro tirandolo per una mano. “Hojio ha detto che dobbiamo salire e di non scendere fino a che non arriva, se ci trova giù ci fucila sul posto”
“E io che pensavo mi avessi portato qui per sedurmi e rubarmi la mia virtù” sospirò cercando di nascondere la delusione: l’aveva sperato davvero.
“Quella era la mia intenzione, ma mi sa che non ci lasceranno tempo” sbottò trascinandolo verso le scale.
Akira aprì la bocca tre o quattro volte, incapace di parlare, salendo meccanicamente, riprendendosi solo quando la porta si chiuse con un toc alle sue spalle.
“Dicevi davvero?” mormorò abbracciandolo da dietro.
Hiroaki s’irrigidì “Lascia stare, Kia ha detto che ci passa a prendere tra mezz’ora”
“Uhmm e nell’attesa cosa possiamo fare?” sussurrò mordicchiandogli il collo.




Junda chiuse la porta con delicatezza: se quel poliziotto frigido e pazzo pensava davvero che se ne sarebbe stato fermo in quel tugurio senza far nulla si sbagliava di grosso.
In silenzio, il cuore un po’ spaventato, avanzò lungo il corridoio dritto, le piastrelle marroni sporche da anni di abbandono. La luce era fioca, avanzi marcescenti di un’epoca più felice, quando il raccordo blu non era ancora stato costruito e quella stazioncina aveva ancora piedi che la calpestavano. In silenzio salì le scale, venendo proiettato in un mare di luci e suoni: la gente camminava veloce per raggiungere i treni in partenza, un barbone seduto in un angolo ascoltava la radio, controllando con un occhio il cappello per l’elemosina e con l’altro una grossa busta di plastica bianca: tutti i suoi averi.
Come se nulla fosse, Junda continuò a camminare, il viso basso sui suoi piedi, verso l’uscita.
L’aria fresca gli invase le narici con il suo profumo di mare e salsedine.
Si fermò un istante alzando le braccia al cielo ed inspirando con forza, poi iniziò a correre, aveva paura che quei deficienti sarebbero andati lo stesso all’Iguana.
Non voleva che corressero pericoli.
Non voleva altre morti.
Svoltò slittando sulle suole, un sospiro pronto nella gola vedendo l’appartamento di Hana. Non c’erano buchi sulla palazzina. Non c’erano schegge sul pavimento.
Il sorriso che gli era nato sul viso si strangolò morendo.
L’aveva già vista.
Elegante e costosa, lunga e nera come la notte. Li aveva seguiti piano, adeguandosi alla velocità della vasca da bagno che aveva come auto, per poi superarli rombando.
Gli occhi di Hanamichi si spalancarono vedendolo e l’uomo dai capelli bianchi se ne accorse, girandosi con un sorriso.
“Pensavo fossi morto piedipiatti” sogghignò.
“Junda!” gridò Hanamichi, ma Junda si rese conto che l’uomo aveva sparato solo quando sentì il proiettile lacerargli la carne della gamba che cedette facendolo rovinare a terra.
“Un’altra mossa, moccioso e lo sbirro è morto. Sali in auto” ordinò spingendolo dentro “Voi prendete quello”.
Due uomini immensi afferrarono Junda sotto le ascelle, trascinandolo come un tronco verso la macchina elegante.
“Buttatelo nel bagaglio, non voglio che mi macchi i sedili” rise accomodandosi davanti.
“Bastardi” urlò Hana gettandosi fuori, solo per essere fermato da un pugno metallico, che lo colpì allo stomaco facendogli perdere i sensi.
“Hana” sussurrò Junda girando la testa. I suoi occhi si sgranarono occupandogli tutto il viso.
“NO!” urlò facendo rimbombare i muri della via “Non puoi fare nulla, stai buono, stai buono. Ci penso io. KIA; Kia ci salverà, se tu stai buono Kia ci salverà” gridò. Il colpo lo prese alla nuca ed un velo rosso gli coprì gli occhi.
Alcune finestre si aprirono, ma l’auto scura avanzava silenziosa a fari spenti lungo la via, confondendosi con le ombre.
Con un gemito di frustrazione Kaede uscì dal vicolo in cui si era nascosto, un filo di sangue scarlatto usciva dal labbro, che stava mordendo con troppa forza, macchiandogli il mento ed il collo.


^_____^
RU: perché sorridi?
Nia: ho messo il colpo di scema
Nobu: oh finalmente te ne sei resa conto…
Nia-___- volevo scrivere scena…..
Ru: >__< è meglio la prima versione…tira subito Hana fuori da lì sano e salvo…
Nia…Ru…sai Hana è stato catturato con Junda….le ricerche di focus dicono che un pericolo mortale è il più grande afrodisiaco che ci sia..
RU…..O_O
Nia: ehi Ka ci sei ancora?
RU…….O_O
Satori: su su su Rukawa se vuoi a te ti consolo io…
Ru……ç_ç


 


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