PARTE: 6/9
RATING: NC-17
PAIRING: GregoryxRaphael
DISCLAIMERS: I personaggi sono miei e mi obbediscono
(quasi) sempre!!!
Gregory
di
Fiorediloto
CAPITOLO VI: "Schiavi!"
Widefield, due mesi dopo. Sul finire dell’inverno. – Quello che ancora non capisco è perché abbiano mandato noi. Raphael inarcò un sopracciglio. – Quello che tu non capisci è perché abbiano mandato me – puntualizzò. – Tu sei abituato a questi viaggi. – Può darsi – concesse Gregory. – Ma io sono a Serven solo da tre mesi, e questo è un compito importante. – No. Questo è un compito seccante – disse Raphael, scuotendo la testa bionda. – Te l’assicuro, acquistare le scorte per il monastero non è né divertente né impegnativo… soltanto molto, molto noioso. Ma già, sto parlando con l’aiutante del maestro bibliotecario… Gregory corrugò la fronte. – E ora cosa vorresti dire? L’aiutante del maestro bibliotecario due giorni fa ha rischiato di rompersi una gamba, cadendo da uno dei meli dell’orto! – Te la sei rotta? No. Devi ancora migliorare – lo rimbeccò Raphael, e
fece per aggiungere qualcos’altro, ma uno scossone più forte del carro su cui viaggiavano gli fece mordere la lingua. Gregory scosse la testa, nel tono di disapprovazione del fratello maggiore. – Come si chiama il mercante? Jan…? – Ian Karsalt – rispose Raphael, in tono distratto. Le parole gli uscirono dalle labbra in uno sbuffo di vapore caldo ed evanescente. Si strinse il mantello intorno alle spalle, tremando un poco. – Questo inverno sembra non finire mai – mormorò, seccato. – Vorrei tanto un fuoco. Gregory gli sorrise affettuosamente. – Fra poco ci scalderemo. Vedi? Siamo arrivati. Il villaggio di Widefield riposava in una larga campagna erbosa, quasi alle porte di un piccolo boschetto ben noto ai monaci di Serven, perché ricco di piante medicinali e funghi curativi. Era un piccolo agglomerato di case contadine a pianta quadrata, le due vie principali che si
intersecavano ad angolo retto nella piazza del mercato. Piccole viuzze ombrose si snodavano per i quattro rioni del paese e separavano un edificio dall’altro, la fucina del fabbro dalla bottega del fioraio, la casetta silenziosa di una vedova da quella turbolenta di una famiglia carica di bambini; tutt’intorno alla piccola piazza, un cerchio di bancarelle ravvivava il marrone dominante del terriccio e del legno delle casupole con i suoi padiglioni variopinti. Quella mattina era giorno di mercato, come testimoniava la calca nervosa che ingombrava la piazza, eppure Gregory si era aspettato una folla molto più numerosa, per vari motivi ma soprattutto per uno. Widefield non era che un puntino in tutto il regno, però in quella regione montuosa, in gran parte isolata, era uno dei pochissimi centri d’affluenza dei mercanti della zona, che si riunivano lì soltanto una volta al mese. Gregory
era partito da Serven con il timore di dover affrontare una moltitudine dieci volte più grande. Meglio così, si disse. Scrollò le spalle e accantonò il problema come ozioso. Arrivati quasi fin dentro la piazza, Gregory tirò le redini e scese dal carro con un salto un po’ troppo agile per uno che si era quasi rotto una gamba due giorni prima. – Aspettami. Faccio in un attimo. Raphael si inalberò. – Stai scherzando? Sono un pezzo di ghiaccio! – E così dicendo si sporse oltre il sedile e gli posò le mani ai lati del collo, per fargli sentire quanto fossero gelate. Ma anche il viso di Gregory era gelato a causa delle continue sferzate di vento, e il più grande non fece una piega. – Stai qui e aspettami – ripeté. – Non possiamo lasciare il carro incustodito. Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto. Raphael mise il broncio, ma non disse più nulla. Considerandolo un
assenso, Gregory si allontanò in direzione della piazza e si tuffò nella folla. Non fu facile districarsi in quella massa di persone nervose che sembravano fare a gara a chi gridava più forte, soprattutto per lui così abituato alla serenità e al silenzio del monastero; comunque, dopo urti, spintoni e varie bestemmie che lo fecero arrossire come un ragazzino, Gregory riuscì a raggiungere il padiglione di Ian Karsalt. Era il più grande e il più ricco di tutti, molto più appariscente degli altri, e ben riconoscibile per il drappo di stoffa infisso su un bastone a mo’ di stendardo, con disegnata sopra quella che doveva essere una faccia larga con un bel sorriso invitante, anche se pareva più che altro uno sgorbio afflitto da qualche orribile malformazione. Karsalt era un tipo singolarissimo. Un individuo bene in carne – fatto più unico che raro, di quei tempi – con una serie di denti
storti e anneriti che si ostinava a mettere in mostra sorridendo in continuazione, due mani grassocce dalle unghie mangiucchiate, e capelli unticci, in gran parte falcidiati da una calvizie precoce. Ciò che colpiva maggiormente di lui erano gli abiti, che quanto a colori sembravano voler gareggiare con i padiglioni della piazza: una serie di camicie una sopra l’altra, arancione, rossa, gialla e infine blu, malgrado il gelo aperte sul davanti a mostrare il petto villoso, un paio di calzoni ampi rosso fuoco, delle scarpe di cuoio tinte in oro con la punta arricciata, e infine, in testa, una specie di grossa ciambella a raggi blu, rossi e arancioni, che si incontravano al centro in una punta gialla. Gregory rimase particolarmente colpito da Ian Karsalt, e sicuramente non era il primo a cui il mercante faceva questo effetto. Ma, in particolare, rimase colpito dall’abbondanza di anelli
massicci di cui aveva piene le dita. Si chiese perché un uomo così ricco non potesse spendere qualche soldo per far ridipingere il proprio stendardo… poi lo riguardò meglio e si rese conto che c’era una netta somiglianza tra il disegno sgorbio e la faccia del mercante. Si coprì la mano con la bocca per impedirsi di ridere, perché Karsalt lo stava guardando. – Oh! Un fraticello! – esclamò il mercante, tutto gioioso, mettendo ancora una volta in mostra la sua orribile dentatura. – In che posso servirti, fratello? – Vengo da parte del monastero di Serven – disse Gregory, chinandosi un poco sul banco del mercante per farsi sentire al disopra della folla urlante. – Devo acquistare le provvigioni per la primavera. – Certo, certo! Come al solito, eh? Gregory si frugò all’interno del saio. – Ecco – disse alla fine, traendo fuori un biglietto. – Questo è l’occorrente. – Non serve,
non serve! Ricordo tutto, io! – E prese ad elencare, una per una, le provvigioni che il priore aveva annotato nel biglietto, nelle quantità esatte. Alla fine gli fece un sorriso più largo del solito. – È giusto, eh? Io non dimentico mai niente! Ho un’ottima memoria, io! Gregory annuì. – Sì, è tutto giusto. Complimenti. – Esitò, poi disse, in tono cauto: – Il priore mi aveva assicurato che ci avreste fatto trovare la merce già pronta… – Ma certo! Potrai venire tu stesso a controllare, fratello! Io non ho mai imbrogliato nessuno, figuriamoci poi dei santi monaci… Adesso si tratta soltanto di saldare il conto e siamo d’accordo. – Si schiarì la voce. – Il tutto ammonta a… Gregory impallidì. Voltò il biglietto, dove padre Ferdinand si era premurato di annotare anche la somma sborsata l’ultima volta: la cifra coincideva. – Ma è un furto! – esclamò. – È una rapina! – Che? – È
semplicemente troppo! – Gregory era scandalizzato. – Mi ricordo di voi, fornivate le provvigioni anche a San Gloriano! E lì… Il mercante corrugò la fronte. – Ehi, ehi, calmati. Sì, rifornivo anche quel monastero, e allora? – A San Gloriano facevate pagare molto di meno! Quasi la metà! – Oh, insomma! – esclamò Karsalt, che iniziava a scocciarsi. – La merce è mia e la faccio pagare quanto voglio. Senza contare che il periodo non è dei più favorevoli. Non troverai prezzi migliori in tutto Widefield. – Scommettiamo? – replicò Gregory, voltandogli le spalle. – Ehi, ehi, ehi! Fermo! – gridò il mercante, rincorrendolo e posandogli una mano sulla spalla. – Aspetta! Possiamo metterci d’accordo, no? Perché tanta fretta? Gregory fece un sorriso cupo. – Oh, certo. Possiamo metterci d’accordo. – Posò le mani sul banco e si chinò verso l’uomo, avvicinando suo malgrado il viso a quei
denti obbrobriosi. – Da un paio d’anni Serven vi compra tutta la merce. Se non ci mettiamo d’accordo, voi questa primavera non avrete venduto nulla, mentre noi possiamo sempre comprare da un’altra parte. Voglio un prezzo onesto, signor Karsalt, e vedete di sbrigarvi, perché ho fretta e mi stanno aspettando. Il mercante era stato preso alla sprovvista. Gregory aveva detto la verità e lo sapevano entrambi. Si misero d’accordo quasi subito, e anche se alla fine la somma fu vantaggiosa per Serven, Gregory era sicuro che lo fosse anche per Karsalt. Malgrado ciò, il mercante parve molto scontento. Non si rifiutò, però, di mandare i suoi aiutanti a che sistemassero le provvigioni sul carro. Quando ebbero terminato, era quasi ora di pranzo ed un tiepido sole era uscito a riscaldare un poco il viso di un Raphael mezzo assiderato. – Non verrò mai più a fare provvigioni – borbottò il ragazzo,
sempre più irritato. – Lo giuro. Mai più! Gregory allungò una mano per scompigliargli i capelli, un gesto che faceva sempre in monastero, quando nessuno lo poteva vedere. – Mi dispiace – sorrise. – Ma non è dipeso da me. – Spronò i cavalli per la viuzza, fino alla locanda dove avrebbero pranzato. Poi introdusse il carro nella stalla della locanda. Tese la mano a Raphael per aiutarlo a scendere. – Ti ho già detto che mi dispiace – si lamentò, vedendolo ancora imbronciato. – Vieni, su. Dentro la locanda ci sarà un bel fuoco. Raph non riuscì a reprimere un sorriso al pensiero. Prese la mano di Gregory e saltò giù dal carro. – Poi mi spiegherai perché sei così allegro – bofonchiò, socchiudendo le palpebre a un’improvvisa folata di vento che lo aveva assalito. – Hai scoperto di avere la vocazione del mercante? Gregory sorrise. – Più o meno. La locanda non era bella né
particolarmente accogliente, ma era calda, e di fronte a questo tutto il resto passava in secondo piano. Sembrava anche abbastanza pulita, anche se l’unico a farci caso fu Gregory, dato che Raphael corse subito verso il fuoco senza guardarsi intorno. Era piuttosto affollata, perlopiù da forestieri accorsi per il mercato. Dopo un poco, quando si furono riscaldati a sufficienza, i due di Serven sedettero a un tavolo e ordinarono un po’ di carne e del vino. Gregory raccontò con divertimento del suo incontro con il mercante, attardandosi a lungo a descrivere il suo aspetto eccentrico, ma per modestia si trattenne dal dare molto risalto al forte sconto ottenuto. Raphael fu molto divertito dalla storia e si congratulò con lui. Adesso che il colore era tornato sulle sue guance, era molto più allegro e disposto a sorridere. E più bello del solito, pensò Gregory, fugacemente. A
parte il tepore, comunque, la locanda non aveva molto da offrire: la carne era dura e insipida, il vino annacquato. Gregory non se ne stupì. Erano tempi duri, e anche se le scorte erano ancora abbondanti, abbastanza da lasciar fiorire il commercio, la qualità iniziava a risentirne e si sentiva. La guerra civile, debellata una volta cinquant’anni prima, pareva sul punto di riprendere e di provocare molto più dolore e sangue della precedente. Gregory scosse la testa. Quella guerra fratricida non sarebbe finita mai, e lui non voleva pensarci. – Andiamo? – disse. – È meglio se ci mettiamo in viaggio. Raphael guardò con rimpianto il fuoco caldo e scoppiettante, ma annuì. – Sì. Hai ragione. Pagarono l’oste e dopo si diressero all’uscita. Ma non fecero in tempo a raggiungerla che, in quel momento, il suolo fu scosso da un boato simile a un terremoto, come un ruggito dalle viscere della
terra. Gregory e Raphael si guardarono negli occhi, impallidendo. – Che succede? – balbettò Raph, stringendo il braccio del compagno. – Sembrava… – Cavalli al galoppo. – Non appena lo disse, Gregory si sentì invadere dalla paura. – Presto! Vieni via! Dobbiamo nasconderci! Corsero fuori. Nella piazza si era sollevato un polverone immenso, e da quella direzione provenivano urla laceranti. – Che cos’è? – gridò Raph. – Mio Dio, che succede? – È troppo tardi! Nella stalla, presto! – Gregory lo tirò dentro la stalla e si guardò intorno, cercando un qualunque nascondiglio. – Sotto il carro! Quando furono strisciati sotto il calesse, ansimanti e spaventati, le narici invase dal fetore della stalla, Gregory sentì Raphael gemere sottovoce. – No, non ce la faccio, Dio mio, non posso… Greg, aiutami, ti prego… – Che c’è? Raph, che c’è? Il ragazzo lo guardò con occhi colmi di
lacrime. – Morirò se resto qui sotto… morirò, Gregory, non posso, devo uscire… fammi uscire… – No, Raphael, calmati! – Gregory gli posò una mano sulla testa, sperando che questo servisse a calmarlo almeno un poco. Non sapeva che Raphael soffrisse di claustrofobia: se l’avesse pensato, avrebbe trovato un altro nascondiglio, ma adesso aveva troppa paura che li trovassero per cercarne un altro. – Chiudi gli occhi – bisbigliò. – Ti prego, cerca di stare calmo… Chiudi gli occhi e pensa di essere da un’altra parte. Vide Raphael stringere le palpebre con tutte le sue forze, serrando i pugni, tremando convulsamente, e continuò a parlargli sottovoce finché gli schiamazzi e le grida terribili che prima avevano udito da lontano non li raggiunsero, soffocando ogni altro rumore. Allora si zittì, per l’orrore e la paura che sentiva macerargli il petto. Quelle urla sembravano penetrargli fin
dentro l’anima. Rimasero nascosti lì sotto per un tempo lunghissimo, o forse semplicemente così parve loro, perché il terrore dilatava ogni istante in una pantomima acustica sempre più terribile. Alla fine, quando a Gregory parve di sentire soltanto il martellare del suo petto, si decise a mormorare una parola al suo compagno: – Usciamo. Raphael era cinereo, stravolto da un terrore cieco, ma trovò la forza di annuire. Strisciò fuori, lentamente, mentre Gregory faceva lo stesso dall’altra parte del carro. – Ehi! Qui c’è ancora qualcuno! Gregory si sentì morire. La voce era profonda e rude, chiaramente di un soldato, e già sentiva passi profondi avvicinarsi calcando pesanti stivali di cuoio. Ormai non potevano più nascondersi, Raphael era stato visto. Scivolò fuori, sperando che il ragazzo cercasse almeno di conservare la calma, perché nient’altro li avrebbe salvati, e
raccomandò la vita di entrambi a Dio. Il soldato era un uomo barbuto dall’aria rude e lo sguardo stolido di chi ha ucciso troppa gente in una sola vita. Dall’aspetto pareva un brigante. – Per pietà – disse Gregory, alzando le braccia. – Non ci uccidere. Quello strizzò le palpebre. – Chi diavolo siete? – sbottò. – Che facevate qui? Stavate… – e qui un’oscenità su cui Gregory preferì non indugiare. – Ci eravamo nascosti – confessò, non sapendo cos’altro dire. – Non potevamo fare altro. – Deglutì un po’ di saliva, poi chiese, con voce tremante: – Voi chi siete? L’altro scoppiò in una risata sguaiata e cattiva. – Lo capirai subito. Vieni fuori. Anche tu, femminuccia. Gregory avanzò lentamente. – Fa’ come dice – disse in Quith, vedendo che Raph non si muoveva. – Non abbiamo scelta. – Zitto! Altrimenti ti taglierò la lingua! Rivolgendo una seconda, più fervente, preghiera
a Dio, Gregory si portò fin davanti al bandito e poi, mentre quello arretrava, uscì alla luce. Raphael era un passo dietro di lui. – Ma che bel ragazzino – commentò l’omaccione, stringendo la gola di Raph con una mano. Il ragazzo mandò un gemito. Se solo avesse voluto, l’uomo avrebbe potuto spezzargli il collo in un istante. Invece ritirò la mano. Squadrò Gregory con aria critica, poi mostrò un sorriso ingiallito e disse, con aria soddisfatta: – Anche tu. Sei grande, ma il capo non si farà tanti problemi. Gregory impallidì. – Che significa? – Non l’hai ancora capito? – replicò il bandito. Gregory, che già aveva compreso, divenne se possibile ancora più pallido. – Predoni delle montagne – alitò, senza fiato. – Siete i predoni di Ganelon! – Ma che bravo – commentò il predone. – E adesso camminate. Il capo mi ricompenserà bene per due bei bocconcini come voi. Per un
istante Gregory fu tentato di scappare, ma poi si guardò in giro. Vide un paese trucidato, cadaveri dappertutto, sangue su ogni cosa, e predoni ad ogni angolo. Non avevano lasciato nulla. I corpi delle donne erano denudati, quelli degli uomini ripuliti di ogni avere. Era una visione che non avrebbe dimenticato mai, in tutta la sua vita. Dio santo, Dio santo, pensò, sgomento e spaventato. Come si può odiare la vita a tal punto… Guardò Raphael. Il ragazzo tremava convulsamente. Anche lui conosceva la banda di Ganelon, e doveva sapere cosa li attendeva. Se solo avesse potuto salvarlo, risparmiargli le sofferenze che li aspettavano, l’avrebbe fatto anche a costo della vita. Ma non c’era modo, non c’era soluzione. Poteva soltanto pregare. E camminare, prima che il bandito si spazientisse e decidesse di pungolarlo con il pugnale. – Non ti lascio, Raph – mormorò in Quith,
prendendogli la mano e tenendola stretta. – Non avere paura. – Greg, ci… ci userà come… – Shh. – Iniziarono a camminare lungo la via che conduceva alla piazza, con il soldato alle calcagna. Su tutto Widefield era calato un silenzio innaturale, un silenzio di morte, che metteva i brividi. Niente era stato lasciato integro. Le bancarelle, i padiglioni colorati, le mercanzie: era stato tutto rovesciato o depredato, e il risultato era uno sfacelo senza nome. In un lato della piazza, una decina di ragazzi più giovani di Raphael erano stati legati con le braccia dietro la schiena, e avvinti da un giro di corda supplementare che li univa gli uni agli altri, vanificando così ogni tentativo di fuga. Gregory sapeva già quale sarebbe stata la loro sorte. La stessa che sarebbe toccata a lui e a Raphael, a meno di un miracolo. Ganelon era lì, al centro della piazza, circondato dai suoi
fedelissimi e da uno stuolo di cadaveri che tappezzava il pavimento. Era molto alto e aveva un fisico scattante da spadaccino, una capigliatura bruna, barba incolta e due baffoni scuri sopra le labbra piegate in un sorriso cattivo; Gregory pensava che a suo modo sarebbe stato attraente, se non fosse stato per quell’espressione truce che denotava sicuramente un gusto malsano per il sadismo, e la tendenza ossessiva a stringere il pomo dello spadone nella mano. Quando li vide, la sua smorfia già cattiva si fece ancora più crudele. – Che mi hai portato, Jerve? Due pesciolini nuovi? Il predone sogghignò. – Appena pescati, capo. – E così dicendo diede a Gregory e a Raphael una spinta in mezzo alle scapole e li gettò a neanche un metro da Ganelon. Il capo dei banditi si avvicinò prima a Raphael e lo studiò con evidente interesse. – Bellissimo – disse alla fine, con una luce di lussuria
smodata negli occhi. Tese una mano per toccarlo tra le gambe, ma Gregory si frappose tra loro. – Lascialo stare – sibilò, con odio. – Non provare a toccarlo. Ganelon sorrise. – Cos’è, il tuo amichetto? – Gli prese il mento con la mano, costringendolo a voltare il capo da una parte e poi dall’altra. – Anche tu non sei male. Bel lavoro, Jerve. Gregory allontanò la sua mano con uno schiaffo. Ormai la sua paura era stata tutta sostituita dal ribrezzo. – Ma guarda – sbottò Ganelon, guardandolo con aria divertita. – Un vermiciattolo col saio che ha voglia di menare le mani. – Fece un sorriso sadico. – Mettiamola così, monachello. Posso ficcarti un pugnale nella pancia subito, o qualcos’altro da qualche altra parte più tardi. – Si chinò sul suo orecchio, sfiorando il lobo con le labbra umide e calde. – E lo farò, stanne certo. Ho proprio voglia di scoprire quanto sei caldo. Si sa che i
monaci sono i più bravi a sbattersi tra loro… – Si chinò maggiormente su di lui, stringendogli brutalmente le natiche nelle mani, e fece per baciarlo sulla bocca, ma Gregory voltò il capo di lato. Il predone affondò i denti nel suo collo, strappandogli un gemito. – Se lo farai stanotte, non te la caverai così a buon mercato – disse con voce dura. Lo lasciò andare. – Lo voglio nella mia stanza, stasera. – Guardò Raphael. – E anche lui. Adesso portateli via. Li condussero in una delle tante case deserte, li legarono e li chiusero in una stanza. Dentro c’era puzza di morte, come in ogni altra parte del paese, perché con ogni probabilità anche gli abitanti di quella casa erano stati massacrati. Rimasero in silenzio a lungo. Alla fine Raphael mormorò, appoggiando il capo sulla sua spalla: – Mi offrirò io. Sono più bello di te. Preferirà prendere me. – Non farlo, Raphael, così ci
prenderà entrambi. Questa gente non si accontenta mai. – Sospirò. – Se starai zitto a guardare, forse non farà caso a te. – Come potrei farlo? Dio mio, Gregory, non voglio che… – Shh. Per favore. Non dire niente. – Gregory scosse la testa. – Non sarà bello né piacevole, ma sopravvivrò. Sarò condiscendente con lui, gli lascerò fare ciò che vorrà, e non mi farà del male. Raphael gemette. – Non lo pensi davvero… – Quando mi sono messo tra te e lui non avevo idea di come fare a proteggerti, ma adesso sono contento che sia andata così. Ti darà ancora un po’ di tempo, e magari dopo potremo trovare un modo per fuggire. Non lo so. L’importante è che non ti tocchi, perché non potrei mai perdonarmelo. Il ragazzo scosse la testa, convulsamente. Piangeva. Gregory non trovò modo di consolarlo. Quando, anche a distanza di tempo, avesse ripensato a quel giorno, Gregory l’avrebbe
collegato sempre al puzzo dei cadaveri. Lui e Raphael trascorsero in quella casa appestata tutta la giornata, fino al tramonto. Solo allora, quando il cielo perse la sua colorazione rossiccia e andò a tingersi di blu, vennero a prenderli. Non fecero molta strada. La casa che Ganelon aveva rivendicato a suo quartier generale era poco distante, e vi arrivarono subito. Doveva essere l’abitazione del capo del villaggio, perché era notevolmente più grande delle altre: questo spiegava anche perché il capo dei predoni l’avesse presa per sé. Una volta dentro casa li sospinsero fino ad una porta, probabilmente quella della camera da letto, e bussarono. La voce del capo rispose, rude come sempre: – Portateli dentro. I due predoni obbedirono. Aprirono la porta, li gettarono dentro la stanza e poi se ne andarono con un cenno di saluto al capo. La stanza era piuttosto grande, dominata da
un lettone a due piazze e rischiarata da due grossi candelabri, uno posato su un comodino, l’altro su un tavolino vicino alla finestra. Il pavimento vicino ai piedi del letto era sporco di sangue secco. Ganelon squadrò i due ragazzi ancora legati con una smorfia di compiacimento. – Molto bene – commentò. – Tu – indicò Raphael – puoi sederti sul pavimento, per ora. E tu vieni qui. Gregory si avvicinò camminando piano. Aveva paura, ma non abbastanza da dimenticare che Raph lo stava guardando. Non si sarebbe lasciato umiliare. – Siediti – ordinò il predone, montando sul grande letto a due piazze. Quando Gregory ebbe obbedito, Ganelon si chinò su di lui, da dietro, e gli accostò le labbra all’orecchio. – Se ti comporti bene, ti farò giocare con il tuo amichetto. Non ti va? Gregory chiuse gli occhi. – Farò quello che vuoi – mormorò. – Lascialo stare e farò tutto quello che mi
dirai. – Lo farai comunque. – Il predone slegò Gregory, poi gli fece spazio sul letto. – Spogliati. Il giovane lottò con se stesso per non mostrare nulla, fastidio, disgusto, niente. Si massaggiò per un istante i polsi segnati dalla corda, poi afferrò la cintura di canapa e la sciolse con lentezza. Non più trattenuto in vita, il saio si gonfiò dolcemente. Gregory afferrò l’orlo dell’abito monacale. Gli tremavano le mani. Sollevò il saio e se lo sfilò dalla testa. Adesso aveva indosso soltanto i calzari e una tunica leggera. Fece per togliersela, ma Ganelon lo fermò, insinuando una mano sotto la stoffa. Il capo dei predoni prese ad accarezzarlo dove Gregory aveva maggiormente temuto. Non gli riuscì di eccitarlo. A Gregory pareva che quella parte del suo corpo fosse morta: il tocco del bandito non gli suscitava alcun piacere, alcuna aspettativa, neppure il più piccolo
brivido. Il disgusto sopraffaceva ogni cosa. Sbuffando, Ganelon ritirò la mano e ordinò, bruscamente: – Finisci di spogliarti. – Una pausa, e aggiunse: – Poi va’ dal tuo amico e slegalo. Anche se iniziava ad intuire cosa passasse per la mente perversa di quell’uomo, Gregory si sforzò di cancellare l’ultimo brandello di pudore, gettò via la tunica, si sfilò i calzari e infine, completamente nudo, si chinò su Raphael e iniziò a slegarlo. Gli occhi di Gregory tentarono di mandare silenziosi messaggi rassicuranti, ma il ragazzo lo guardò impaurito e prese a tremare leggermente. – Stenditi – ordinò Ganelon a Raphael. – E tu, spoglialo. – Lascialo stare – disse Gregory. – Prendi me. Io non opporrò resistenza. Il capo dei predoni esitò solo un istante. – Ti ho detto di spogliarlo. Gregory deglutì. Quando sfiorò il torace di Raphael, lo sentì tremare tutto. Perdonami. Non ho
scelta. Il ragazzo chinò impercettibilmente il capo. Chiuse gli occhi, mentre le mani di Gregory scioglievano lente i lacci della sua camicia e gli sfilavano prima una manica, poi l’altra, poi via l’indumento dalla testa. Non è così che dovrebbe essere, pensò Gregory, con disperazione. Non così! Ma Ganelon li fissava, implacabile, e lui non poteva far altro che obbedire. Socchiuse le palpebre. Quest’uomo me la pagherà, si disse. Me la pagherà cara. Lo giuro. Raphael si mise a sedere per permettergli di togliergli la tunica, cosa che Gregory fece con quanta riluttanza non aveva mai provato in tutta la sua vita, evitando di incrociare gli occhi lucidi del ragazzo, che lo guardavano con tanta disperata innocenza da procurargli un dolore terribile ogni volta che vi si specchiava. – I calzoni – sottolineò il bandito, spietatamente. Tremando per
il freddo, Gregory sfilò al ragazzo gli stivali. Quando infilò le dita tra i lacci dei calzoni, lo fece con gli occhi rivolti verso il comodino. – Lascia – mormorò Raph alla fine. – Faccio io. – Mise i piedi sul pavimento, si tolse i calzoni e infine rimase immobile, nudo e stupendo, senza guardare nessuno. – Distendetevi. Tutti e due – ordinò Ganelon, che li guardava entrambi con palese desiderio. L’erezione dentro i suoi calzoni era evidente già da diverso tempo. – Tu, biondo, montagli di sopra. Gregory si distese per primo, e scivolò verso l’interno del letto per fare posto al compagno. Non voleva che Raphael fosse alla portata del bandito, che occupava l’altra metà del giaciglio. Il ragazzo si sdraiò accanto a lui, lentamente. – Montagli di sopra, ho detto – ripeté il bandito, vedendolo esitare. Raphael mandò giù un po’ di saliva, a fatica, ma non accennò a muoversi. –
Non preoccuparti per me – disse Gregory, in Quith. – Obbedisci. È l’unico modo perché finisca in fretta. Raphael abbassò lo sguardo. Gli posò una mano accanto al torace, spostò una gamba oltre il suo fianco e infine lasciò che il peso ricadesse sulle ginocchia, piegate all’altezza dei lombi di Gregory. I loro genitali strofinarono nei brevi cenni di assestamento, poi Raphael si immobilizzò e quello sfiorarsi divenne un contatto fermo e tangibile, tremendamente piacevole. Gregory chiuse gli occhi, abbandonando il capo sul cuscino. Quel piacere, che gli avevano insegnato peccaminoso, turpe, ignobile… quello era la cosa più dolce che avesse mai provato. Strinse le palpebre e si disse che se l’avesse pensato abbastanza forte, quel perverso sarebbe scomparso dalla sua vista, e sarebbero rimasti solo Raphael e lui, soli, a fare l’amore. – Baciatevi – disse la voce di Ganelon. Gregory
aprì gli occhi. No, era ancora lì. Guardò quelle labbra così dolci, che un tempo aveva sognato di baciare. Le sfiorò con le punte delle dita. Vide il dolore negli occhi di Raphael, ma non riuscì a capire se dovuto al fatto che mai avrebbe voluto fare quelle cose, o piuttosto all’orrore di farle di fronte a quel bandito. Non poteva pensarci. Attirò Raphael giù, sentiva sul torace le costole tremanti del ragazzo, e accostò le proprie labbra alle sue. Sfiorandole appena. – Non così – scandì Ganelon, con cattiveria. – Non fingete di non saperlo fare. Voi scopate come minimo ogni notte. Raphael divenne rosso fuoco. – Non è vero! – esclamò. Erano le prime parole che rivolgeva al predone, e sarebbero state anche le ultime. Ganelon lo prese per la gola e lo costrinse ad avvicinare il viso al suo. – Non mi contraddire, bamboccio – mormorò, con voce arrochita dal desiderio. – Gli
premette le labbra con le sue e gli ficcò la lingua in bocca, con violenza. – Adesso fatelo voi – ordinò, crudelmente. Raphael strinse i denti. Si passò il dorso della mano sulla bocca, a ripulirla dal suo contatto, poi si chinò su Gregory e lo baciò come gli era stato detto, solo con molta più dolcezza. Il giovane lo abbracciò, morbidamente, assaporando la dolcezza della sua bocca e la stupenda sensazione di calore del suo corpo. I genitali di Raphael premevano sui suoi, meravigliosamente, combattendo una schermaglia fiera di turgore giovanile. – Tu – disse il predone. – Monaco. Succhialo al tuo amico. Gregory non si scompose, anche se gli dispiacque interrompere la magnifica conversazione delle loro bocche. Si spostò di lato, lasciando a Raphael lo spazio per sdraiarsi supino, poi si insinuò tra le sue gambe. – Non voglio che tu lo faccia – mormorò Raph, in Quith. – Ti prego.
Non lo fare. – Devo – sussurrò Gregory, chinando il capo. Se non si fossero trovati in quell’assurda situazione, sotto gli occhi di un violento pervertito, Greg avrebbe trovato meraviglioso tutto ciò che stavano facendo, la facilità con cui erano riusciti ad eccitarsi l’un l’altro, il piacere del reciproco contatto, quello che si accingeva a compiere. Raphael gli piaceva più di ogni altro; era l’unica persona che avesse mai, coscientemente, desiderato. Perciò cercò di appigliarsi a questo pensiero, che in quel contesto lontano dal monastero gli risultava confortante, e si concentrò su Raphael e sul suo corpo stupendo. Quando iniziò a vellicarlo con la lingua, il ragazzo sospirò di piacere colpevole. Gregory sentì che il capo dei predoni si muoveva sul letto, accostandolo da dietro, e contemporaneamente le mani di Raphael gli artigliarono le spalle, in un muto segno di
avvertimento. Gregory non reagì. Chiuse gli occhi, continuando nella sua opera, e si preparò al dolore. Gridò come non aveva mai gridato in vita sua.
Stelline di dolore gli vorticavano nella testa, lampi di luce sfocati premevano sugli occhi, e la bocca… lì non c’era più saliva. La mano del predone lo schiacciava alla nuca, una voce che non era più riconoscibile ordinava: continua. Gregory non ce la faceva. Lacrime brucianti gli riempivano gli occhi spalancati, accumulandosi sull’orlo delle palpebre, ma non volevano saperne di cadere giù. Gregory non vedeva più nulla. Due mani gentili gli sfioravano tremanti le braccia nude. Sentiva da qualche parte dei singhiozzi. I suoi? No, lui non stava singhiozzando. Piuttosto morire, prima di scoppiare in singhiozzi di fronte a quello… a quel… Maledetto. Tu morirai. Sulla mia vita. Tu morirai. Con quel poco di coscienza che ancora gli era
rimasta, si chinò a finire il lavoro che aveva lasciato a metà.
Gregory si sentiva squarciato. Distrutto. Con le ultime forze si era raggomitolato accanto a Raphael, voltandogli le spalle, e aveva affondato la faccia nel cuscino. Almeno lì le lacrime non si sarebbero viste. Tratteneva i singhiozzi da così tanto tempo che era certo di soffocarsi da un momento all’altro. Tanto meglio. Non voleva vedere più nulla del mondo. Morire, sì: mai la fine gli era parsa così dolce. Poi sentì il corpo di Raphael aderire al suo, piano piano, lentamente. Sentì il petto del ragazzo toccare la sua schiena, e un braccio cingergli la vita. Oh, Raphael. Non mi toccare. Sono così sporco. Non mi toccare. Ti infetterai anche tu. Ganelon si riaggiustava in tutta calma. Sentiva il tintinnio della sua spada mentre l’assestava alla vita. Che tu muoia, pensò, ma era una rabbia blanda, priva di forza.
Non riusciva a provare altro che sofferenza, solo questo. Anche la rabbia se n’era andata via. Solo marginalmente si accorse dei passi nel corridoio, passi veloci di stivali da guerriero. Un bussare forte fece vibrare la porta: – Capo! C’è bisogno di te! Ganelon lanciò una bestemmia seccata. – Voi restate qui – disse come parola di commiato. Come se avessero la possibilità di scappare. Uscì lasciandoli soli. – Gregory… – bisbigliò Raphael, tra le lacrime. – Gregory… ti prego… – Di cosa mi preghi… – sussurrò. – Dimmi qualcosa… Gregory si voltò, con lentezza estrema, facendo ben attenzione a non fare peso in alcun modo sulla parte ferita. – Qualcosa – bisbigliò, con uno sbiadito sorriso. Poi lo abbracciò alla vita, lasciando riposare il capo sul suo petto, come avrebbe fatto con sua madre se solo l’avesse avuta lì. Raphael lo strinse e continuò a piangere per entrambi.
Balbettava qualcosa su un sacrificio, che non era giusto che avesse sofferto lui al posto suo, che… Gregory non lo ascoltava più. Sapeva che avrebbe detto quelle cose e non era necessario che replicasse. Non doveva presentare alcuna giustificazione. E poi gli disse che lo amava. Nel buio ovattato in cui galleggiava, stranamente leggero, Gregory pensò che l’avrebbe detto chiunque fosse stato. Pensò: non è me che ama. Ama quello che l’ha salvato, tutto qui. Stranamente non provò alcun dolore a questo pensiero. – Almeno ti è piaciuto? – mormorò. – Co… cosa? – Prima, quando… con la bocca… – Incredibile, riusciva di nuovo a imbarazzarsi. Doveva essere un buon segno. – Prima… Raphael deglutì le sue ultime lacrime. – È stato bellissimo – sussurrò. – Bellissimo. – Sono contento… – Dimmi come ti senti, ti prego. Sei così lontano… – Sono qui, Raph, ti sto
abbracciando… – Come ti senti? Sospirò. – Mi fa male. – Avrebbe voluto vedere se aveva sanguinato, ma… che domande. Doveva aver sanguinato. Era stato troppo violento. Ma non se la sentiva di chiedere a Raphael di controllare per lui. – Passerà – bisbigliò poi. – Passa tutto… Raphael se lo strinse al petto come una chioccia, gli baciò i capelli, e poi cominciò a sussurrare che sarebbe andato tutto a posto, sarebbe finito tutto, sarebbero tornati a casa e tutto sarebbe tornato come prima. Casa. Oh, sì, Serven. Dopo “Gregory che si è portato a letto un uomo”, “Gregory che si è lasciato fottere da un uomo”. Che allegra prospettiva. – Non voglio tornare… – mormorò, mentre la pioggia di lacrime riprendeva. – Non voglio tornare… Non capiranno… diranno che mi è piaciuto… diranno che questo schifo mi è piaciuto… che me la sono voluta… non ci crederanno che ho sofferto come un
cane… Raphael lo strinse ancora più forte. – Non è così, non è così – gli disse, premuroso. – Amore mio, calmati… – Amore… mio – ripeté, mandando giù la saliva. Alzò gli occhi. – Dammi un bacio, ti prego… Raphael lo accontentò, premendo le labbra sulle sue per un breve istante. – Gra… zie… – Chiuse gli occhi e dopo un poco calò in un torpore agitato. Lo svegliò una carezza che non era una carezza, ma un ago di dolore nel punto più doloroso di tutto il suo corpo. Si riscosse con un gemito. – Scusami – bisbigliò Raphael, alle sue spalle. – Avevi sangue dappertutto… ho trovato un fazzoletto e così… Gregory ansimò. – Smettila. Mi fai male. Il ragazzo non rispose. Si limitò a distendersi al suo fianco, in silenzio. Perché era stato così duro con lui? Si voltò, lentamente, e si rinchiuse nel suo abbraccio. – Scusami. Non… non mi sento bene. Le sue labbra gli deposero un
bacio in fronte, senza parlare. – Che cos’ho addosso… – Le lenzuola. Stavi tremando… – … grazie – sussurrò. Ma gli sembrava di tremare ancora. Non era il freddo. – È tornato? – Non ancora. Lo colse il pensiero che se Ganelon fosse tornato e l’avesse trovato così… disfatto, inutilizzabile… si sarebbe gettato su Raphael. Si tirò su un gomito. Gli girava la testa. – Trovami qualcosa per vomitare… – bisbigliò. Raphael si guardò intorno, confuso, poi sbirciò sotto il letto e trovò un vaso da notte. Vuoto, per fortuna. Gli tenne indietro i capelli mentre si liberava lo stomaco. – Mettilo via… – bisbigliò Gregory. – Va meglio, adesso. Raphael lo ripose dove l’aveva trovato. – Raphael… – Dimmi. – Se torna… se Ganelon torna… – Sì? – … non ti offrire. Ti prego. Non ti offrire al posto mio… La voce di Raphael gli suonò più decisa di quanto fosse mai stata.
– Non lascerò che ti tocchi. Stai troppo male. – Ciò che mi ha tolto – bisbigliò Gregory, – non lo riavrò mai. Per me non farà differenza. Per te sì. Ma Raphael non voleva sentire ragioni, e non gli fece la promessa che lui aveva sperato. Con un sospiro, Gregory si accoccolò tra le sue braccia e mormorò: – È una cosa orribile. Io non voglio… non voglio che la provi anche tu. Tu sei così puro… – Non preoccuparti – rispose Raphael, distaccato. – Me la saprò cavare. L’arrivo di Ganelon li fece sobbalzare entrambi. Una stretta dolorosa allo stomaco fece desiderare a Gregory di avere ancora sottomano il vaso da notte, e invece dovette reprimere la nausea serrando i denti e la gola. – Via di qui. Subito – ordinò il predone. Alle sue spalle, un ragazzino di una tredicina d’anni tremava da capo a piedi. Mio Dio. Gregory aprì la bocca a vuoto. Non ce la faceva più a respirare.
Raphael scivolò giù dal letto senza parole, raccolse i propri abiti, gli gettò i suoi e si rivestì in fretta. – Vestiti – gli sibilò. Obbedì per abitudine. Ancora con i calzari slacciati, due soldati lo tirarono via con Raphael. Il tragitto fino alla casupola che quel pomeriggio era stata la loro prigione fu un’agonia. Ogni passo gli strappava un ansimo di dolore. I soldati sghignazzavano alle smorfie che faceva per controllarsi, Raphael lo spiava con preoccupazione. Quando lo gettarono dentro la stanzetta con un calcio – l’avevano fatto apposta, Gregory non riuscì a trattenere un grido – gli parve chiaro che al più presto sarebbe morto. Se non ucciso, per sua stessa mano. – Che schifo… – singhiozzava, buttato sul pavimento. – Che schifo… Raphael gli si avvicinò, gli fece poggiare il capo sulle sue ginocchia. – Almeno non ti toccherà – sussurrò, desolato. – Ma è solo un
bambino! – gridò. – Solo un bambino… che schifo… Raphael non sapeva come consolarlo. Gli faceva paura vederlo così debole… così distrutto. Non aveva la forza per sostenerlo come Gregory aveva fatto mille volte con lui, non l’aveva e non sapeva dove cercarla. Che doveva fare? Lo lasciò sfogare senza disturbarlo. Quando gli parve che si fosse calmato, bisbigliò solo: – Recito una preghiera. Ti unisci a me? Recitarono un Padre Nostro senza sperare che Dio li stesse ascoltando.
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