Declaimers: i pg sono miei! Questa è la mia prima original yaoi! Me voleva provare! ^.^
Note: vi prego di scusare il linguaggio, ma è crudo quanto la storia. Ogni capitolo ci porterà dritti all’inferno. Il nome del protagonista si pronuncia ebil, con la “e” accentuata. Il padrone del night si chiama Ed. Le frasi che appariranno in corsivo (nella ml fra gli asterischi) appartengono o al sommo Dante e alla sua Divina Commedia o alla Bibbia. Commentate! Forse vi sembrerò blasfema, ma leggete cmq ^^
Dediche: alla mia sis, deliziosa lettrice e a tutte coloro che leggono e seguono con attenzione la mia ff, soprattutto alla mia sorellina spirituale Tesla e al mio cangoretto Nia *///* (beh lei non lo sa ancora, ma che importa? ^^’’’’)!
Dedica speciale: ad Andrea, la mia piccola Abil coraggiosa.
Dedica particolare: ad Elisa e le sue compagne d’appartamento che leggono Fuoco ^^ Chissà che un giorno non ci si incontri!


Fuoco

parte IV

di Soffio d'Argento

PARTE TERZA

RAG DOLLS

 

“E fu sera e fu mattina: primo giorno”  Genesi I, 5

Quando il locale chiude è nuovamente l’alba.
La scena apocalittica della sera precedente si ripete, come un copione ben costruito.
Carlos segue le bestie sazie fino alla porta, richiudendola dietro le loro spalle.
Alzo lo sguardo verso l’ufficio di Ed, ma non c’è più nessuno.
Kain, al mio fianco, parla con uno dei baristi. Discutono su nuovi cocktail come se nulla fosse mai accaduto. Io risciacquo un bicchiere da whisky e lo lascio riposare sul ripiano, mentre mi volto per sistemare le bottiglie, ancora sul bancone, nello scaffale.
Il fitto mormorio alle mie spalle si attenua a poco a poco, surclassato dal rumore di passi che si allontanano.
Fred, uno dei camerieri, riporta al banco i pochi bicchieri ancora rimasti sui tavoli.

Quando terminiamo di sistemare il bar, mi siedo stanco su una sedia, al tavolo sette. Appoggio i gomiti sul legno ancora caldo e mi guardo attorno.
Le luci sono ormai quasi tutte spente e le poche ancora accese creano un forte contrasto fra il centro della sala e le pareti, a fatica visibili.
Kain fa cenno agli altri ragazzi di salire in camera. Si sistema i capelli passandovi sopra la mano sinistra. Si sbottona il gilet e allenta la cravatta. Si avvicina e mi domanda se sono stanco.
Scuoto la testa, ma in realtà lo sono così tanto da faticare persino ad alzarmi, eppure non voglio andarmene, non ancora almeno. Sento il bisogno di rimanere ancora qui, da solo.
Kain mi osserva, poi si volta e mi saluta, con un cenno della mano.

E rimango solo.

Le ultime luci si spengono. Chiudo gli occhi per abituarli nuovamente al buio, ma quando li riapro fatico lo stesso ad ambientarmi. Fisso lo sguardo sul tavolo di fronte. A poco a poco l’immagine diventa più nitida, così come la visione di tutto il locale.
Nascosto anch’io dal buio, respiro l’aria immobile del night.
Il silenzio è scandito dal rumore sordo dei condizionatori d’aria. Il ronzio cupo si fonde con il vuoto, distorcendosi e amplificandosi. Si trasforma nella voce delle bestie.
Chiudo gli occhi sempre più stanco. Assaporo il profumo intenso d’alcol che ancora aleggia nell’aria, intriso di disinfettante al profumo di pesco.
Appoggio il mento sulle mie mani intrecciate e cerco di rilassarmi.
La sala si trasforma.
Come in una scena al rewind le luci della sala si riaccendono. Le vittime sacrificali scendono le scale lentamente, chi sorridendo, chi fissando il pavimento. Si dirigono verso i divani e i tavoli. Si siedono con leggerezza, calcolando ogni gesto e ogni sguardo. E aspettano, stretti nei loro vestitini magnetici. Il petto si muove convulsamente, cercando di frenare gli spasmi della paura. Nonostante la scena si svolge ogni sera, la paura non cessa di diminuire. Posso sentire chiaramente la loro voce d’angeli muti e con le ali strappate. Un lungo lamento straziato. Uno stridulo urlo di terrore.
Respirano piano cercando di limitare i battiti forsennati del loro cuore, che esploderà a breve iniettando di sangue le pupille bianche. Stringono forte la stoffa dei loro vestitini colorati, sperando che resistano al nuovo urto, alla nuova battaglia.
Sorseggiano bicchieri colmi di brandy e desideri affini.
Li osservo, uno dopo l’altro e il loro dolore s’insinua nel mio, divenendo parte di me, cicatrice del mio corpo.
Se avessi ancora lacrime piangerei.

La luce si accende all’improvviso. Mi volto stralunato, cercando di abituare in fretta i miei occhi all’improvviso bagliore artificiale.
Sono abbagliato, ma posso distinguere qualcuno avanzare facendosi largo fra le ombre, uscendo da esse, come se ne fosse parte integrante.
<< Kain… >> e per un attimo, un impercettibile attimo, sento le mie membra scuotersi.
Quella voce, profonda e resa rauca dalle sigarette, assomiglia a quella del mio carnefice.
<< Ed… pensavo non vi fosse nessuno. >>
<< Credevo la stessa cosa… poi ho visto te. >> mi dice e non mi guarda in faccia.
Arriva fino al bancone e rovista con lo sguardo fra le bottiglie colorate. Canticchia qualcosa a bocca chiusa. Prende del whisky e due bicchieri e viene a sedersi al mio tavolo.
<< Del buon whisky invecchiato di vent’anni * >> mormora leggendo l’etichetta.
Ne versa due dita nei bassi bicchieri e me ne porge uno. Alza il suo bicchiere in cenno di brindisi.
<< Cosa festeggi? >>
<< Una buona compagnia e dell’ottimo elisir di lunga vita. >>
Trincerato nei suoi occhiali scuri, Ed sembra una creatura infernale. Ha mani nodose e lunghe. Le unghie sono ben curate e chiare. Solo quella del mignolo sinistro è più lunga delle altre.
È mancino.
Nella mano destra fa bella mostra un grosso anello d’oro, con un’incisione che, a causa delle luci basse, non posso vedere bene.
Indossa dei pantaloni scuri e un maglione grigio. Potrebbe sembrare un tranquillo signore di mezz’età, nonno affettuoso e padre saggio… se non fosse per quei pozzi neri che nasconde dietro degli occhiali poco più scuri.
<< Sai Abil? Il tuo arrivo ha creato scompiglio fra i clienti del mio locale… >> mi dice alzando lo sguardo e puntandolo addosso a me.
<< Vedi Abil… nel mondo esiste una sola legge: quella dei soldi. Chi ha più soldi è il più potente e chi è potente comanda. >>
<< E gli altri? >>
<< Gli altri sono oggetti. Servono solo finché ci si diverte, poi si buttano, come giocattoli rotti… >>
Il bicchiere giace al centro del tavolino di legno. Accanto, rozzamente rigata, una parola: doll. Bambola.
<< Oppure… >>
<< Oppure…? >>
<< Oppure tagliano la gola ai potenti. >>
<< E’ una possibilità. >> mi dice dopo qualche minuto di silenzio. << Ma… ma le bambole sono solo oggetti, non hanno volontà. >>
<< E tu sei il burattinaio di questo teatrino notturno. Tu tiri i fili di questo teatro stabile dell’orrore. Sei tu che decidi quali bambole muovere e come farli agire. >>
Batte le mani compiaciuto, poi, con la sinistra, prende la bottiglia e riempie il bicchiere, portandolo subito dopo alla bocca e bevendolo d’un fiato.
<< E tu cosa cerchi Abil in questo scenario predefinito? >>
<< Cerco la mia strada. >>
<< E la cerchi all’inferno? >>
<< E’ da lì che inizia la vita e io inseguo la mia. >>
Ed alza il bicchiere in segno di brindisi, poi si alza. Sento i suoi passi divenire leggeri, fino a scomparire.

E rimango solo.

Faccio ruotare il mio bicchiere attorno al dito medio. Il liquore, ruotando, sfiora in una fresca carezza la pelle bianca del dito. Lo ritraggo e lo porto alla bocca, gustandolo.
Sento una porta aprirsi e subito dopo richiudersi alle mie spalle e quando mi volto non c’è più nessuno.
Mi alzo e mi dirigo verso la mia camera. Spengo la luce, lasciata accesa da Ed, e salgo le scale cercando di non produrre il benché minimo rumore.
Dormono tutti, dimentichi dell’orrore che li circonda, sperando di non svegliarsi mai e scoprire che, l’oggi tanto temuto è diventato uno “ieri” senza ritorno né futuro.
Trascino i piedi fino alla mia camera. Entro e mi tuffo sul letto.
Kain dorme. È appoggiato su un fianco e mi dà le spalle.
Entro in bagno. Accendo la piccola luce dello specchio.
Ho un aspetto orribile.
I miei occhi viola sono così cupi da sembrare neri. Il mio carnefice amava questa mia caratteristica insolita. Una volta mi disse che, se mai si fosse stancato di me, mi avrebbe ucciso e poi  strappato gli occhi. Li avrebbe racchiusi in una teca e li avrebbe osservati ogni giorno della sua vita. Mi ricordo che, ogni sera, quando lo sentivo rientrare, tremavo di paura. Ero convinto che, se gli fosse piaciuto, mi avrebbe strappato gli occhi ancora da vivo e mi avrebbe lasciato morire lentamente, solo, nella cantina buia, divorato dai topi.
Alla fine, questi stessi occhi hanno goduto vedendo e assaporando la sua morte.

Mi sciacquo il viso con l’acqua fredda.
Riflessa nello specchio consunto di quel piccolo bagno diroccato, New York appare come racchiusa da una bolla di sapone. Le luci brillano opache e i grattacieli sembrano solo pali da immolazione conficcati nel terreno. Grondanti di sangue. Pugnali dalla lama affilata e nera.
Faccio scorrere l’acqua nella doccia, fino a quando nuvole evanescenti di calore appannano i vetri smerigliati del box.
Vi entro e chiudo gli occhi.
L’acqua calda mi abbraccia e i miei muscoli iniziano a rilassarsi. I capelli mi scivolano lungo la fronte, ricoprendomi il volto. Respiro piano, lasciando che la stanchezza scivoli insieme all’acqua.
Resto sotto l’acqua per un periodo che mi sembra eterno.
Quando esco, avvolto in un accappatoio, trovo Kain seduto sul letto.
<< Ti ho svegliato? >>
<< Non riesco a dormire. >> mi dice coprendosi le gambe.
Mi asciugo i capelli con un asciugamano e mi rivesto dandogli le spalle.
<< Perché ci hai messo tanto a salire? >>
<< Parlavo con Ed. >>
Sento un fruscio alle mie spalle e quando mi volto trovo Kain di fronte a me.
<< Devi stare lontano da Ed. >>
<< So cavarmela da solo. Non ho bisogno né di balie né di guide. >> gli dico voltandomi.
Kain mi afferra per un braccio e mi getta sul suo letto.
<< Ascolta perché non ho intenzione di ripetertelo. >>
Mi sovrasta. In piedi, di fronte a me, ha la stessa fierezza di un angelo del purgatorio.

<< E come l’occhio più e più v’apersi,
vidil seder sovra ‘l grado soprano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
e una spada nuda avea in mano,
che reflettea i raggi sì ver noi,
ch’io dirizzava spesso il viso invano. >> Purgatorio IX, 79-84

<< E io non ho intenzione di sentirlo. >>
Mi alzo. Lo spingo e lui traballa, facendo passi indietro, arrivando fino al mio letto. Perde l’equilibrio, crollando sulle coperte sgualcite.
<< Nessuno mi dice quel che posso o non posso fare. Io sono libero! >>
<< Ed ti trascinerà all’inferno! >>
<< All’inferno ci siamo già, pensavo che ne fossi cosciente. Lasciami in pace, Kain. Trovati un altro Dante da liberare, io la mia strada la proseguo da solo. >>
Kain si morde un labbro, abbassando lo sguardo. Fa leva sulle braccia e si alza. Fermo nella mia posizione lo vedo sorpassarmi. Si sistema nel letto, voltandosi verso il muro.

La neve torna a scendere su New York. Bianca come le pareti della nostra camera. Fredda come il sorriso di Ed. Lenta come l’agonia del piccolo Joe. Incalzante come un dolore inferto.
La neve che ricopre ogni angolo della città.
Imbianca le case dei ricchi, nei quartieri di lusso. Sporca le case lesionate nel Bronx.
Rallegra i bambini per le strade. Uccide i barboni agli angoli di esse.
La neve che copre tutto, come il lenzuolo di un morto. Copre gli occhi e ti culla nel freddo dell’anima. La neve… scende su New York.

Quando mi risveglio Kain non c’è.
Sbuffo e mi alzo, passandomi una mano fra i capelli.
Ho un cerchio alla testa.
Durante la notte l’immagine dell’anello di Ed si contrapponeva alla scritta sul tavolo. Doll. Bambola. Racchiusa e nascosta fra la prima e l’ultima lettera di quella parola, l’intero significato della vita di ogni uomo.
Rag dolls. Dagli occhi disegnati con cura sulla stoffa. I vestiti colorati e il sorriso gentile. Bambole di pezza. Con gli occhi consunti dal tempo, il sorriso meno sicuro, i vestiti divorati dalle tarme.

Esco dalla stanza che è già giorno inoltrato.
Mi stringo nel giubbotto pesante.
Fuori la neve si è trasformata in pioggia e il cielo da bianco è diventato grigio come le strade di città.
Frugo nelle tasche alla ricerca di una sigaretta. L’accosto alla bocca. L’accendino scintilla nella mia mano. Dopo qualche tentativo andato a vuoto una piccola fiamma blu s’innalza, circondata dalla giornata fredda. Trema trasportata dai venti e infine brucia la cartina.
Inspiro ed espiro un paio di volte. I miei polmoni si riempiono di fumo denso e il mio corpo si riscalda. Infilo le mani nelle tasche e mi confondo fra i mille volti che affollano la strada.

La pioggia s’infrange contro il giubbotto scuro. Scivola lungo i miei capelli, rallentando la sua fuga verso l’asfalto nero.
Cammino veloce fra la folla incurante di me. Mille volti nascosti sotto un ombrello colorato. Parlano. Si muovono. Corrono. Urlano. Tante bambole. Se osservo attentamente posso vedere luccicare il filo trasparente del burattinaio.
Corrono impettiti nei loro abiti scuri, scostandosi dall’altro come scottati dal tocco. Sfregano le mani in cerca di calore. Imprecano contro lo Stato assente, contro la polizia cieca, contro il taxi perennemente in ritardo.
Accendono fuochi, agli angoli della strada, bruciando sapienza e conoscenza. Si riscaldano sotto le loro case di cartone, mendicando uno sguardo non compassionevole.
Salgono veloci nelle loro auto scure. Mostri fra i mostri. Vampiri alla luce del sole. Zombie dal viso stirato. Succubi di passioni ardenti. Amanti del potere. Incatenati dai legami di sangue.
Guardano fuori dal finestrino. La città che fugge pur restando immota. Con i loro occhi da bambini, coperti dai loro sogni da bambini. Futuri mostri senza pietà.
Viaggiano, nascosti dietro i vetri spessi dell’ufficio, persi dietro una scrivania. Rincorrono il suono stridulo di un telefono. Sfuggono allo sguardo ambizioso e compiacente del collega.
Bambole dalla vita trafugata. Bambole dalla stoffa rubata nei mercatini dell’usato. Bambole senza sogni né futuro.
Bambole di pezza alla ricerca della fata dai capelli turchini.

Kain. Intravedo il suo volto attraverso il vetro scuro di una libreria.
Entro facendo cigolare la porta.
Kain si volta verso di me solo quando mi siedo accanto a lui.
<< Cosa leggi? >> gli chiedo.
<< Il libro che cercavo da bambino. >> mi dice senza voltarsi.
<< Cosa cerchi? >>
<< Quel che cercano tutti, inchiodati alle pareti della nuova torre di Babele. >>
<< E lo cerchi in un libro? >>
Lui scuote la testa. Chiude il libro e mi fa cenno di aspettarlo. Si alza e va a posare il libro fra gli scaffali. Vorrei seguirlo, ma aspetto, appoggiando i gomiti sul tavolo di noce.
Nel silenzio irreale della libreria, sento la pioggia abbandonare i miei capelli e scivolare verso il basso, incontrando il pavimento azzurro. Una dopo l’altra, con lentezza, proseguono e si susseguono nella folle corsa verso il pavimento.
<< Sei tutto bagnato. Non potevi prendere un ombrello? >>
<< Non ho pensato di comprarlo. >>
Si siede al mio fianco, ruotando la sedia verso di me. Appoggia un braccio sulla superficie levigata del tavolo e resta a guardarmi.
Il padrone della libreria legge qualcosa seduto dietro la sua scrivania. La commessa ascolta della musica ad un volume basso, però alto abbastanza perché possa afferrarne qualche parola.

As I walk through the valley of the shadow of death
 I take a look at my life and realize there’s not much left
 coz I’ve been blastin and laughin so long, that
 even my mama thinks that my mind is gone
 but I ain’t never crossed a man that didn’t deserve it...

Non ci sono altri avventori. Solo io e Kain, ancora una volta. Sembra che la mia nuova vita debba allungarsi parallela alla sua. Fino alla bocca dell’inferno e proseguendo verso la luce.
<< Non cerco nulla in quel libro. >> mi dice sospirando: << Ne seguo solo la scia. >>
<< E ti è sempre chiara? >>
<< No, ma è una condizione che accetto volentieri. E tu? Cosa cerchi Abil? >>
<< Quel che cercano tutti. >>

Restiamo ancora un po’ nel locale. Vi si respira un’aria calda che sa di antico.
Fuori la pioggia continua a scrosciare. Batte furiosa contro le vetrine dei negozi, contro i tabelloni pubblicitari, sopra le teste dei passanti, sopra i taxi veloci. Scroscia e crea dei piccoli fiumi chiari. Trascina con sé tutto ciò che la sua furia incontra nel suo viaggio verso la fine.
Una goccia dopo un’altra. La osservo scendere inesorabile.
Fuori dalla biblioteca.
Le strade si svuotano di persone e si riempiono di macchine e bus.
Ogni tanto una sirena riesce ad intrufolarsi nell’aria quasi irreale della biblioteca, ma il suono appare flebile, attutito dal silenzio dei secoli.
Kain appoggia il mento sulla mia spalla. Sento il suo respiro caldo colpire il mio collo, lasciato scoperto dal maglione. Mi riscalda come la fiamma di un fuoco.
<< Forse ci conviene restare qui, finché pioverà. >>

Quando usciamo, il cielo è ancora scuro. Le nuvole formano un esteso e compatto manto grigio, come una coperta fredda e fatta di pioggia.
Le strade sono quasi deserte e pulite.
Kain cammina davanti a me.
È uscito facendomi segno di seguirlo. Ha lasciato la libreria senza dire una parola. Ha salutato con un cenno la commessa alla cassa. Le ha sorriso e lei è arrossita.
Io lo seguo in silenzio, qualche passo indietro. Fumo un’altra sigaretta. La passo fra le dita intirizzite dal freddo, sperando che possa riscaldarmi. Sembro un barbone nascosto nelle vie traverse delle grandi città, che cerca di riscaldarsi dando fuoco a tutto ciò che possiede, nascosto nel carrello della spesa.
Il respiro si condensa in nuvole di vapore.
Kain cammina ricurvo in avanti, stretto nella sua giacca. Calcia una lattina di cola. Ogni tanto alza il volto, incrociando quello sperduto di qualche passante. Scuote la testa sconsolato tornando a guardare la strada e alla fine torniamo al night.
<< Voglio farti conoscere qualcuno. >> mi dice entrando.
Lo seguo e mi accorgo da subito che, invece di salire verso le camere, si dirige verso l’ufficio di Ed. Carlos, mi dice, a quell’ora del giorno non lavora.
<< Non ci sono né controlli né controllori. Ed sa che nessuno lascerebbe mai questo night. Per quanto mostruoso sia questo luogo, la strada è ancora peggio. Fuori da qui loro morirebbero. Questo rimane un luogo sicuro per chi aspetta solo la morte. >>
<< E se anche qualcuno tentasse di scappare, Ed troverebbe con chi sostituirlo subito, vero? >>
<< Esattamente. Non siamo che cavie da laboratorio, Kain. Valiamo meno di ciò che indossiamo. Credi che Ed abbia perso tempo a trovare un sostituto per Paul? >>
<< Dove li trova? >>
<< Agli angoli delle strade, nei vecchi condomini abbandonati. Per alcuni è una sorta di Babbo Natale che lavora tutto l’anno. >>

Saliamo le strette scale che portano all’ufficio di Ed. Entriamo cercando di fare attenzione.
L’ufficio sembra diverso, nonostante siano trascorsi solo pochi giorni dalla mia assunzione. È ordinato e pulito. Sembra un ufficio ai piani alti di una succursale di un’importante azienda. C’è un portatile ad uno dei lati della scrivania. Non ci sono fogli in giro, solo una penna dimenticata apparentemente vicino al pc. La scrivania è nera. Ha due cassetti. Do un’occhiata veloce e noto una serie di televisori posizionati sotto la vetrata. C’è un archivio chiuso a chiave. Un cestino vuoto. Persino una foto del Presidente appesa dietro la scrivania. E poi c’è la poltrona. Grande, nera e di pelle. La poltrona del potere. Gli si addice molto. Ed ama dondolarcisi.
<< Andiamo. >> mi dice.
Noto solo ora che, vicino all’archivio, nascosto nel buio quasi paralizzante dell’ufficio, c’è una porta, piccola e di legno. È aperta. Kain la socchiude e poi si volta a guardarmi.
<< Non vuoi entrare? >> mi chiede.
<< Cosa vi troverò? >>
Kain non risponde, si limita solo a dirmi: << Se entri, scoprirai quando profonda sia la strada che conduce dritto al cuore dell’Inferno. >>
Non so se voglio davvero vedere quel che mi attende. Non so se voglio ascoltare ancora. Forse l’Inferno è troppo profondo per me. Potrei perdermi e non trovare più la strada. La salvezza allora diventerebbe un altro dei miei sogni proibiti.
Kain mi prende per un braccio e conduce i miei passi.
<< Non sei solo. Non lo era Dante e non lo sarai tu. >>

<< PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NE L’ETERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE. >> Inferno III, 1-3

E la porta si richiuse alle nostre spalle.

 

FINE QUARTA PARTE

Ogni volta che mi accingo a scrivere un nuovo capitolo, l’amarezza è così struggente che sono costretta a procedere con lentezza, parola dopo parola, passo dopo passo.
Cosa vedrà Abil, quali voci orrende udirà ancora? Il suo viaggio verso la salvezza accomuna ognuno di noi. E se fossimo davvero delle bambole? Se fosse qualcuno, diverso da noi, a scegliere e programmare la nostra libertà? Siamo davvero liberi o cavie da laboratorio, nel nostro labirinto di carne e sangue? Corriamo forsennatamente attraverso le vie anguste, incapaci di capire che la nostra libertà non è che un gioco nelle mani di altri.
O forse… o forse siamo noi stessi a creare la nostra prigione dorata.
E con questo vi lascio. Il prossimo capitolo, vi avviso, sarà molto più crudo dei precedenti. Piccole crudeltà della vita nel gioco della fortuna.

Dimenticavo: il testo della canzone che ho trascritto, e i diritti che ne convengono, appartiene a Coolio. Il titolo è Gangsta paradise.

*non conosco gli anni di invecchiatura di un whisky, perciò prendetela per buona ^^


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