Declaimers: i pg sono miei! Questa è la mia
prima original! Me voleva provare, perciò se non vi sta bene, pazienza! ^o^
Note: vi prego di scusare il linguaggio, ma è
crudo quanto la storia. Il nome del protagonista si pronuncia ebil, con la
“e” accentuata.
Fuoco
parte II
di Soffio
d'Argento
PARTE SECONDA
LA STRADA BIANCA DELL’INFERNO
Come creature che rifuggono la luce e da essa
si nascondono, i demoni, giunto ormai il nuovo giorno, escono dalla loro
tana fatta di sangue e sogni e ritornano nelle loro tenebre personali, nelle
case fatte di ipocrisia, dove la moglie dalla pettinatura perfetta servirà
le brioche calde appena sfornate, la cui fragranza addormenterà il demone
fino alla prossima notte senza luna.
Quando il locale si svuota è ormai quasi
l’alba. Terrorizzati dall’avanzare del giorno, i demoni escono lentamente,
nascondendo il loro volto da brave persone rispettabili in una giornata
ancora senza sole. Entrano velocemente nelle loro auto scure, quelle da
milioni di dollari, quelle in cui la domenica salgono i loro figli pieni di
sogni. E loro alla guida li vedono crescere e diventare giocatori famosi,
giornalisti, astronauti, nei loro corpi da bambini, nei loro ridicoli sogni
da bambini ricchi. Perché solo i bambini ricchi hanno dei sogni luminosi,
gli altri bambini, quelli lerci fermi ai lati delle strade, con i vestisti
stracciati, che tremano mendicando un dollaro, quei bambini sono senza sogni
e i loro occhi sono neri come il pavimento di questo night degli orrori. I
loro occhi sono come quelli dei ragazzini imprigionati qui dentro.
Dominatori e dominati. Nei loro sottili vestitini neri e rossi. Deboli
armature di carta.
Dominatori e dominati… la legge di questo fottutissimo mondo.
E per ultimo esce il capo dei demoni. Lo vedo
dare ad Ed una mazzetta. Carta come quella delle armature di questi agnelli
del nuovo millennio. Sorride soddisfatto, il mostro.
<< Lascia stare Abil. >> mormora Kain togliendosi il grembiule nero: << Ci
sono altri modi per ammazzare i demoni. >>
Uno dopo l’altro i Dominatori e i Dominati
salgono le scale che li porteranno al loro regno per un giorno. Kain scende
due sedie dal tavolo numero tre e mi fa cenno di sedermi. Va a parlare con
Ed che prende il suo giaccone ed esce, senza dire una parola.
Kain torna al bancone a prendere una bottiglia di whisky e due bicchieri. Si
siede accanto a me e versa il liquido ambrato nel bicchiere basso, colmo di
ghiaccio.
<< Allora… come ci si sente durante la discesa agli inferi? >>
Non rispondo neppure, né lui sembra aspettare altro. Sorseggia lento il suo
bicchiere osservando una macchia scura sul pavimento. Gli occhi azzurri
sembrano specchiarsi in un mare grigio.
Butto giù l’ultimo sorso di quel liquido anestetizzante e mi alzo dal
tavolo. Kain gioca ancora con il suo bicchiere mezzo vuoto, con un braccio
appoggiato alla spalliera della sedia.
<< Aspetta! >> mi dice senza alzare lo sguardo: << Saliamo insieme. >> e
beve tutto d’un fiato il suo liquido infernale.
Dante e Virgilio, lungo le vie impetuose dell’Inferno. Chissà se riusciremo
a salvarci.
Apro la porta della camera ed entro stanco.
Kain non mi segue.
Lo vedo bussare ad una porta, poco distante dalla nostra. Senza neppure
attendere risposta, apre la porta e se la richiude alle spalle.
Entro in camera. Mi faccio una doccia veloce e mi sistemo sul letto,
incapace di dormire. Sebbene sia stanco, fatico però a addormentarmi.
Lo sento rientrare, frugare nell’armadio e riuscire subito dopo. Mi
addormento cullato dal silenzio irreale di questo luogo da incubo.
Non faccio sogni. Li ho persi.
Quando mi sveglio, mi ritrovo avvolto dal familiare tepore di una coperta
calda. Mi volto assonnato verso il letto alla mia destra e trovo il mio
Virgilio addormentato. Sarà stato da Jo a medicargli le ferite. So quanto
può fare male un aguzzino. Il mio corpo era il cimitero delle sue voglie.
Mi muovo piano fra le coperte e volto il mio sguardo verso di lui. Piccole
ciocche di capelli scuri gli ricadono sul volto. Il respiro regolare scuote
regolarmente tutto il corpo. Allungo una mano verso la mia giacca, per
prendere un pacchetto di sigarette. Frugo nelle tasche, ma trovo solo una
confezione vuota.
Mi alzo e mi risiedo all’istante. La testa mi
fa male e mi sembra che sia sul punto di scoppiare, ma la sconfitta di ieri
brucia più del dolore alle tempie. Mi avvicino alla sacca al lato estremo
del mio letto e, frugando, riesco a trovare un flaconcino di pillole bianche
e blue e ne butto giù qualcuna.
<< Ti faranno male. Dovresti mangiarci su qualcosa. >>
Kain ha ancora gli occhi socchiusi.
<< Sei stato da Jo, ieri? >> gli chiedo rialzandomi e afferrando la maniglia
della porta del bagno.
<< Sì. >> mi risponde, prima di voltarsi e riavvolgersi nelle coperte.
L’acqua calda della doccia, mi rinfranca le
membra stanche. Penso a Jo e al suo dolore, quello fisico. Mi sembra di
sentirlo addosso, come le braccia di un fantasma. Mi accarezzano lente,
assaporando ogni piccola cicatrice, dalla prima sulla mia tempia,
all’ultima, sui miei polsi. Respiro piano, con cadenza regolare. L’incubo è
finito, adesso.
Mi avvolgo in un accappatoio bianco ed esco dal bagno. Lo sbalzo di
temperatura è notevole e mi ritrovo percorso da un brivido. Mi cambio
lentamente, quasi annoiato, mentre Kain dorme tranquillo nel suo letto pieno
di speranze.
Quando ho finito di vestirmi mi siedo sul letto e lo guardo. Anche quando
dorme sorride. Che strano ragazzo. È così affamato della vita, che ne vede
solo i colori.
Esco da quel night dalla porta posteriore, stringendomi nel mio giubbotto
nero. Oggi fa davvero freddo o forse sono solo io a sentirlo.
Il polso destro mi fa male.
Vado a comprare le sigarette al negozio dall’altro lato della strada.
Compro il giornale all’edicola all’angolo. Il
padrone del piccolo negozio mi sorride dietro nuvole di vapore bianco. Il
berretto blu calcato sugli occhi, le mani agguantate di nero.
Questa mattina l’aria è fredda.
Prendo un quotidiano dall’immagine a colori sulla prima pagina. Un rogo.
Vado a sedermi al bar del giorno prima. Vedo la cameriera muoversi agitata e
ripulire le stesse tazze almeno due volte. Si passa nervosamente una mano
fra i capelli, sistemando goffamente un ciuffo di capelli ribelle e mi
osserva, da lontano e in silenzio.
Mi siedo allo stesso tavolo e guardo il giornale. Le fiamme alte
dell’immagine del rogo sembrano schizzi di sangue. Lo scheletro della casa
sembra un corpo in decomposizione. Le ossa bianche brillano a monito di ciò
che è stato. Sembrano i denti del Minotauro. Qua e là, fuggenti spiriti di
fumo grigio sembrano vermi che divorano le carni in decomposizione.
Sorrido soddisfatto assaporando il mio caffè nero. Oggi ha un sapore
particolare. Leggo con attenzione i particolari dell’articolo. Parlano di
incendio doloso e menzionano un corpo orribilmente arso dalle fiamme.
Sorrido soddisfatto voltando pagina.
Chiudo il giornale e torno ad assaporare il
mio caffè, una piacevole piccola quotidianità. Respiro in profondità. Il
profumo del caffè si mescola con quello più amaro del sangue e della carne
lacerata.
Fuori inizia a nevicare. È la prima neve che
vedo. La prima della mia vita. Il paesaggio si tinge a mano a mano di bianco
e il cigolio della porta si fa sempre più pressante. I colori della città
schiariscono fino a fondersi con quel bianco candido, mentre il grigio
assume una tonalità magica. Il cielo sembra cotone fresco e profumato.
Chissà che sapore ha la neve.
Ordino un altro caffè e torno a guardare il paesaggio.
Ha qualcosa d’inquietante la neve. Quel bianco accecante sembra divorare
tutto ciò che trova, sembra nutrirsi dei colori che ingloba. È qualcosa
d’informe, di mostruoso, eppure così affascinante, come la morte. Il bianco
è l’assenza stessa dei colori, perché di colori è fatto e se ne nutre fino a
strappare da loro la linfa vitale. Fa paura il bianco. È come se nulla
esistesse e non avesse ragione di essere. È la negazione della vita. Bianco
come il velo della morte, come le ossa dei morti e i vermi che divorano le
carni. Bianco come le pareti della mia casa degli orrori, come le lenzuola
che si coloravano di rosso, come le nocche delle mie mani che stringevano il
cuscino nel vano tentativo di non sentire più il dolore, di non gridare, di
non piangere.
Sento la cameriera appoggiare un’altra tazza
di caffè sul tavolo. Percepisco le vibrazioni espandersi dal luogo
dell’impatto e toccare ogni fibra del mio corpo. Come un sassolino gettato
in un lago calmo. Le onde si espandono fino alle sue sponde, si agitano
tormentate da un nuovo piccolo invasore. Si contorcono, s’infuriano, si
abbattono con rabbia contro le sponde, ma è solo un lento attimo, poi tutto
tace, si acquieta. È la quiete che precede la morte. È la quiete che precede
la vita.
Assaporo quel caffè dal gusto amaro. Il
profumo intenso cancella quello di fumo. Il locale si è riempito di tanti
volti e altrettante storie. Gli occhi sono bianchi, come le mani.
Ogni persona ha una storia da raccontare, ma chi è disposto ad ascoltarla?
Si comunica con le orecchie chiuse. Si mormorano frasi disconnesse di una
storia che perde, ogni giorno, un po’ del suo colore, marcendo nel bianco
degli occhi. Gli sguardi sono bassi e l’assenza di musica mi permette quasi
di sentire i loro pensieri, come piccole nuvole scure che si confondono e si
mescolano al gorgo nero dei miei pensieri.
L’uomo di fronte a me. Le rughe sul suo viso sono tante quanto i suoi
dolori. Indossa vestiti logori e di una misura più grande, come quelli che
danno alle mense per i poveri. Le maniche della giacca sono arrotolate ai
polsi. Le mani nere come il mio cuore. La busta di carta che ha appoggiato
sul tavolo, è piena solo di ricordi. È un uomo dimenticato, un numero in uno
schedario. È una persona che non esiste. Nessuno si preoccuperà se domani i
suoi occhi non dovessero risplendere la luce del sole, neppure quelli della
mensa. Forse sarebbe solo un pasto in più per qualcun altro. Mi sembra di
vederlo. Coperto solo da una scatola di cartone, ai lati della strada, nei
vicoli bui, mentre riscalda le mani vicino ad un falò fatto di rifiuti. Un
relitto umano come gli altri. Eppure sorride. Guardando la neve sorride.
Cosa pensa, cosa prova? Forse si sente già parte di quel bianco accecante? O
forse gli ricorda solo il tempo in cui anche lui era un uomo, amato da
qualcuno, prima di essere dimenticato come un giocattolo in una soffitta
piena di ragnatele.
Dietro di me, riflessa nel bordo nero della mia tazza di vetro, una ragazza
dal trucco pesante. Assomiglia agli angeli del locale. Gli occhi sono
nascosti da mascara e matita scura. Trucco su trucco. Per dimenticare. Per
smettere di sognare. Per cercare di tappare quel vuoto che divora come un
mostro il suo inconscio. I capelli rosa ricadono sul volto in piccoli
riccioli spenti. Si sposta con una mano coperta d’anelli, una ciocca di
capelli dietro un orecchio. Tira su con il naso un paio di volte, mentre
tortura con le mani il bordo del maglione grigio.
La porta cigola e tintinna. Ben presto, la sala si riempie ancor più di voci
e pensieri. Il vociare, da principio incerto e sommesso, prende spazio e
sostituisce il silenzio del pensiero. Sembra che la gente non sappia far
altro che parlare.
Bevo in fretta il resto della mia nuova droga nera ed esco. La porta cigola
e tintinna dietro alle mie spalle. Mi stringo nella mia giacca scura e
attraverso quel mare gelato.
La mia pelle entra in contatto con quell’oceano di ghiaccio. La freschezza
della neve penetra la fortezza della mia armatura di stoffa. Il mio corpo
viene avvolto da mille scariche di ghiaccio. È una sensazione inebriante,
simile a quella che ho provato poco tempo fa… davanti ad un fuoco rosso.
Torno a locale. Salgo le scale con lentezza.
Dietro le porte che si affacciano sul lungo corridoio sopra il bar, sento
sussurri e mormorii.
Quando ero piccolo, ricordo che qualcuno mi
portò nei pressi di una grande fattoria. Non ricordo chi fosse. Il suo volto
è stato rimosso dal mio passato ed avvolto da una cortina di rancore. Ero
piccolo, avevo 5 anni o forse poco più. Era inverno. L’erba era così scura
da non sembrare neppure verde. I fiori erano già morti. Il vento soffiava
forte e il cielo era coperto da nuvole nere. Avrebbe piovuto a breve
sicuramente.
La macchina sobbalzava ad ogni buca nel terreno. Io cercavo di vedere
qualcosa oltre il finestrino, di riconoscere, in quello scenario senza fine,
qualcosa che potesse ricondurmi al mio caldo rifugio. Avevo le mani
appoggiate al bordo del finestrino e cercavo di issarmi per vedere, ma ogni
volta che ci provavo, la mano grande della persona accanto a me mi spingeva
verso il sedile, staccandomi con forza da quel vetro. La sua bocca si apriva
e si chiudeva, lasciando fuggire delle parole che ora non ricordo. Provai a
dormire. Pensavo che dormendo la paura mi avrebbe abbandonato. Mi sarei
svegliato nuovamente a casa. Poi la macchina si fermò. L’uomo scese e fece
il giro del camioncino. Aprì lo sportello dal mio lato, mi prese per un
braccio e mi fece scendere, strattonandomi per incitarmi a camminare.
Davanti a noi, la strada s’innalzava in una piccola collinetta. L’uomo mi
prese nuovamente per il braccio e mi trascinò lungo quel piccolo pendio. Mi
voltai per un attimo alla mia destra. C’era un immenso prato verde, di quel
verde simile all’erba marcia. Era deserto, ad eccezione di un piccolo
agnellino. Se ne stava sul prato a piangere, guardandosi da una parte
all’altra. Piangeva e si contorceva dal dolore. Presto sarebbe arrivata la
pioggia e infatti l’aria odorava di terra bagnata e di sangue. L’agnellino
continuò a piangere anche quando l’uomo che mi stava trascinando si fermò di
colpo. Caddi a terra. Lui non si curò neppure di darmi una mano per alzarmi.
Si avvicinò ad un altro uomo, ritto davanti a me. Scambiarono alcune parole.
Ogni tanto si voltavano verso di me. Io rimanevo appoggiato alla piccola
palizzata di legno. Era così lacero che avrebbe franato se mi fossi
appoggiato con tutto il mio piccolo peso. L’agnellino non c’era già più.
Guardai da ogni parte. Feci un giro completo su me stesso. Infilai la testa
nella fessura fra le due assi di legno, ma dell’agnellino non vi era
traccia. Pensai che la sua mamma lo avesse sentito e fosse tornato a
prenderlo. Magari se anche io avessi pianto la mia mamma sarebbe venuta a
prendermi. Ma forse semplicemente era morto. Tramortito dall’angoscia di
restare soli. Mi misi a piangere, senza neppure rendermene conto e alle mie
orecchie il suono stridulo delle mie lacrime si fondeva con quello
dell’agnellino. Mi arrivò un ceffone che mi fece cadere a terra. L’uomo che
mi aveva portato sin lì tornò sui suoi passi e salì sul furgone. L’altro
uomo, quello alto e grande, mi prese per un braccio e mi trascinò via.
Scaccio dalla mia mente questi ricordi. Le
voci sussurrate dietro le porte assomigliano ai miei pianti da bambino, alle
lacrime di quell’agnellino perso nel campo.
Apro la porta della stanza con un leggero calcio. Kain sussulta sorpreso. È
seduto sul letto con un libro in mano. Lo chiude e mi si avvicina.
<< Vuoi conoscere Jo? >>
Rifletto un po’. Jo è com’ero io. È come quel bambino dei miei ricordi. Quel
bambino che guarda speranzoso quello sterminato campo scuro alla ricerca di
un segno.
Kain continua a guardarmi negli occhi. Annuisco piano e lui esce dalla
porta. Lo seguo. Il vociare sommesso si è tacitato. Lungo il corridoio non
si odono rumori.
Il pavimento è formato da vecchie mattonelle blu, scolorite dal tempo. Alla
fine del corridoio, uno scarafaggio si arrabatta per rialzarsi. Le piccole
zampette si muovono freneticamente alla ricerca di un appiglio. Lo osservo
da lontano. Se lo schiacciassi smetterebbe di tormentarsi, se lo aiutassi a
rialzarsi scapperebbe via, godendosi un altro giorno di vita.
La porta si apre lenta. Dall’oscurità in cui è avvolta la stanza si notano
solo bianche dita ai bordi della porta. Sono piccole e affusolate. Sembrano
quelle di un bambino.
Kain mi sorride e mi prende per un braccio. La sua mano si stringe forte
attorno al mio polso. Ancora una volta ci prepariamo a scendere nel cuore
dell’inferno ed ascoltare la voce mortale di un dannato. L’oscurità, con le
sue mani di velluto, ci abbraccia e ci conduce dentro, mentre la porta si
richiude alle nostre spalle.
“Lasciate ogni speranza voi che entrate”. È ciò che mi torna alla mente,
mentre entro e mi appresto ad ascoltare la voce senza vita di un condannato.
Solo io e il mio Virgilio.
Quando Dante scese lungo le vie impervie
dell’Inferno, conobbe volti nuovi, ascoltò voci flebili e lamenti e storie.
Assaporò fino in fondo il dolore delle anime perdute. Attraversò i campi
sterminati di colpe e rimorsi. Ad ogni peccato una punizione, tanto
terribile quando la colpa che dovevano cancellare e purificare. Dante
guidato dal suo Virgilio, voce silenziosa e saggia.
Insieme avevano attraversato il fiume e conosciuto il traghettatore della
morte. L’anima di Dante si era purificata sotto i colpi della scure dei
peccati altrui. A lui era stato concesso di scendere negli Inferi e vedere,
per raccontare, per insegnare, per purificarsi e tornare a vivere,
attraverso la via luminosa che portava al Paradiso.
In questo Inferno dantesco post-moderno, le anime dissolute si piegano sotto
la frusta di una colpa che non è loro. Patiscono sofferenze per aver
commesso un peccato che va contro ogni regola e morale: vivere. Vivono e
sopravvivono. Mordono la vita per trarne la linfa e poter rivedere il sole,
ancora un’altra volta. Ma se anche attraversassero tutto l’inferno,
riuscirebbero a non perdersi? Ci sarebbe anche per loro una via che conduce
lontano?
Esco dalla camera di Jo. In fondo al corridoio
c’è una piccola finestra che dà sulla strada. Ai piedi l’insetto ha smetto
di agitarsi, probabilmente già morto. Rimane con le zampe protese verso
l’alto, alla ricerca di un aiuto che, anche giungesse, sarebbe tardivo.
Accendo una sigaretta, un’altra delle mie colpe. Aspiro il fumo fino in
fondo e in breve vengo pervaso da esso. Tutto il mio corpo si protende verso
quella nube di fumo inconsistente. Apro la finestra e il fumo prima
aspirato, si perde fra i venti della città.
Presto il silente corridoio si riempie dei rumori della città. Il rumore
sordo delle auto che stridono sull’asfalto, il fischio dei vigili del
traffico, le voci stridule dei suoi abitanti, il suono acuto e prepotente
della città viva. Poi tutto si quieta. Dal cielo scendono lenti e continui
piccoli fiocchi di neve. Bianco. Ancora il bianco che assapora e gusta
tutto, divorando ogni particella. Come quella macchia immersa e divorata dal
prato nero.
Kain esce poco dopo. Mi si avvicina e appoggia
i gomiti sul davanzale. Con gli occhi ben aperti inspira l’aria fresca e
sorride, ma non un sorriso vero.
<< La nostra risalita inizierà dall’inferno. Non ci è permesso di fallire.
>> sussurra, ma nel silenzio totale le sue parole s’ingrandiscono e
appesantiscono.
La città sembra essersi ammutolita e in ascolto delle parole di quell’angelo
caduto.
<< Fra poco i demoni si sveglieranno e torneranno qui. Ogni passo ci
avvicina al fulcro dell’inferno e presto potresti pure vedere il volto di
colui che vive nelle tenebre e di esse si nutre. >>
Poi abbassa lo sguardo e lo fissa sulla strada. La neve ha di nuovo
ricoperto tutto e ai nostri occhi si apre solamente un infinito paesaggio
bianco.
<< La neve è bianca come l’anima di Jo. Credi in Dio Abil? >>
<< Non lo so. Non mi sono mai posto la domanda. Tutto esiste, finché non si
prova il contrario. E se Dio esiste, allora non è così buono come lo si
dipinge. >>
<< Io credo solo in ciò che vedo e tocco, come San Tommaso, ma a Lui credo e
un giorno, quando lo vedrò in volto, potrò gridargli tutto il mio
risentimento e la mia rabbia di vita. >>
Volge lo sguardo verso di me: << Tutti gli uomini hanno bisogno di credere
in qualcosa. Jo crede nella morte e nella liberazione dalla sofferenza. Io
credo nella vita e nel raggiungimento dei propri obiettivi. E tu in cosa
credi Abil? >>
<< Io credo in ciò che ho vissuto. Credo nel mio Inferno. Quel che verrà, da
oggi in poi, sarà ciò che io mi costruirò e in cui crederò. >>
Kain sorride e si passa una mano fra i capelli. Appoggia il mento sulle
braccia e arcua il corpo per sistemarsi. Chiude gli occhi, poi li riapre
subito dopo e li punta verso di me. Non mi dice nulla, solo mi sorride per
un lungo attimo, poi se ne va, lasciandomi lì da solo.
Butto giù dalla finestra la sigaretta quasi finita. La vedo compiere mille
acrobazie, sospinta dal vento e dalla neve. In breve diventa solo un piccolo
bagliore rosso che si spegne appena raggiunge terra.
La città è stranamente deserta a quest’ora del giorno. La notte in inverno
giunge molto presto.
Entro in camera. Kain legge un libro sul letto. Ha le spalle appoggiate al
muro. Segue ogni parola con lo sguardo, veloce e attento. Quando entro si
limita solo a guardarmi e si rituffa nel libro dalla copertina anonima e un
po’ sgualcita ai lati. Le gambe sono distese.
Mi distendo sul mio letto. Appoggio il braccio sinistro sugli occhi e penso.
Ho ancora la giacca addosso e le scarpe ai piedi, ma è come se non li
avessi.
Sento un fruscio alla mia destra. Riapro di scatto gli occhi e vedo Kain
chino su di me. I suoi occhi sono due pozzi profondi. Il suo sguardo è
indecifrabile come i sentimenti che vibrano sul suo viso. Chiude gli occhi,
si abbassa ancora e mi bacia. Un leggero tocco di labbra. Un semplice
sfiorarsi di pelle. Apre gli occhi e torna a sedersi e leggere quel libro,
sempre fermo alla stessa pagina.
Il fruscio della neve fuori dalla finestra mi culla e in breve mi
addormento. L’ultima cosa che sento è la voce di Kain. È bassa e tranquilla,
come la voce di una madre e io mi sento sicuro.
<< Dormi pure. Io veglierò sui tuoi sogni. >> e perdo conoscenza un’altra
volta.
Il bagliore del giorno si immerge nella notte del mio sonno.
FINE SECONDA PARTE
Autrice: mamma mia quanto ci ho messo! Anche
questo capitolo è terminato. Mi dispiace che sia breve. Avevo bisogno di
sfogarmi, ma andando avanti avrei distrutto tutto, così mi sono fermata,
quando Abil stanco decide di riposarsi.
Come avete potuto vedere era solo un capitolo di transizione. I nostri Dante
e Virgilio hanno trovato la via che porta fuori dall’inferno, ma per uscirne
dovranno affondare le membra nella sua melma. Se vi riusciranno non è dato
saperlo.
Quella che mi avvolge è una notte senza stelle. Fuori piove, una pioggia
leggera e lenta. Il giorno e la notte hanno gli stesso colori, come quelli
che riscopre Abil, dietro il vetro di un bar o di una finestra, in un lungo
corridoio silenzioso. Non è il tempo delle parole. La notte a volte è più
chiara del giorno. Non perdetevi in quest’immenso campo che è la vita. Fate
buoni sogni e immaginate, immaginate come sarebbe la vostra esistenza se,
all’improvviso, perdeste tutto. Se Dio decidesse di giocare a scacchi con la
vostra vita, voi cosa potreste fare? A volte non si può credere in nulla,
altre se ne ha la necessità, ma credere fa più male di non credere.
Vi voglio bene!
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