Declaimers: i pg sono miei! Questa è la mia
prima original! Me voleva provare, perciò se non vi sta bene, pazienza! ^o^
Note: vi prego di scusare il linguaggio, ma
è crudo quanto la storia.
Fuoco
di Soffio
d'Argento
Sono qui di fronte a questa casa, mentre il
fuoco divora ogni cosa, pareti, oggetti, mobili, foto, sentimenti, ma i
miei ancora scorrono veloci. Avvicino la mano al mio braccio, la ferita
che mi sono fatto continua a lasciar sgorgare sangue, come i miei occhi
che piangono lacrime.
Finalmente sono libero e nessuno potrà più mettermi in catene.
Il fuoco si alza alto nel cielo. Sembra un
enorme falò, un falò degli orrori.
Esco dalla tasca dei miei jeans stracciati,
gli ultimi “ricordi” e li getto fra le fiamme. Foto scattate nel buio, un
lembo di stoffa usato per coprire i miei lamenti, un pezzo di fune, che
serviva a imprigionare la mia vita…
Il fuoco, come una belva affamata, li avvolge
e li divora. E io rido, senza neppure rendermene conto. Rido perché piango,
rido perché sono felice, rido perché sono libero!
E mentre rido sollevo le mie mani, fino al mio
viso. Sono ancora visibili i segni della corda e il collo, che accarezzo
tremante, sanguina ancora… mentre il fuoco brucia tutto, persino il mio
odio.
Respiro in profondità. È una strana sensazione
respirare la notte, che neppure mi accorgo di avere i polmoni bruciati da
quell’odore insano.
Sento gli scoppiettii del legno, vedo le belle
tende bianche aggrapparsi alla finestra e prendere fuoco, contorcendosi come
una donna sul rogo della pazzia nella notte della caccia alle streghe.
Voglio vedere bruciare questa casa fino
all’ultimo pezzo di legno, ma so che se restassi qui a lungo verrei
catturato nuovamente.
Le fiamme sono alte, alla fine richiameranno
qualcuno, quindi cerco di godermi lo spettacolo ancora un po’, prima di
essere costretto a scappare.
Un fragore, simile ad un urlo disumano,
esplode all’improvviso, espandendosi nella notte silenziosa, come il lamento
di un’anima dannata. Forse era lui. Quel maledetto bastardo brucerà
all’inferno per l’eternità, ma io ho voluto regalargli un piccolo anticipo
di dannazione.
Chiudo gli occhi, assaporando i rumori della
natura: il canto lamentoso del gufo, il passo veloce della volpe, i sussurri
del vento, scanditi dal crepitare del fuoco. Seduto sulla mia sedia (l’unico
oggetto che ho salvato dal falò) osservo come un principe questo fuoco
bruciare estatico…. Sembrano i capelli di un folletto dispettoso.
Chissà se è già morto? Chissà se ha sofferto
abbastanza? Chissà se è riuscito a rendersi conto di ciò che stava
accadendo? Chiudo gli occhi e non posso fermarmi dall’ammirare la scena: il
fuoco che si avvicina sinuoso al letto, come una danzatrice dai sette veli,
bruciando ad ogni passo tutto ciò che incontra, l’odore di bruciato che
s’infiltra persino nei polmoni, che invade il corpo e l’anima, l’aria che
diventa soffocante, il legno che si piega al passaggio del fuoco, mentre un
pensiero si fa strada nella tua mente: morirò! E allora inizi ad urlare, ma
la tua voce, straziante e terrorizzata, non riesci a sentirla, perché il
bavaglio ti blocca la bocca. Cerchi di muoverti da lì, di scappare, ma la
fune ti lega al letto, a quel letto e tu non puoi far altro che
goderti lo spettacolo di cui tu stesso sei il protagonista. Uno spettacolo
senza repliche.
Apri gli occhi, piangi perché non puoi fare
altro, e preghi perché qualcuno, che non può sentirti, ti venga a salvare,
perché tu cambierai e non tornerai più quello di un tempo, lo giuri, lo
giuri al fuoco che ogni attimo è sempre più vicino. Ma nessuno ti ascolta,
perché nessuno può sentire la voce di un’anima dannata, solo le ombre… solo
loro ti ascoltano, ti stanno vicine, respirano la tua stessa aria e, come
te, aspettano la fine, aspettano e guardano, guardano il fuoco lambirti
prima le gambe, risalire lentamente, bruciando prima i vestiti poi ciò che
nascondono e infine divorare tutto il resto del corpo, mentre tu ti agiti,
ti dimeni… il dolore che si fa irrimediabilmente pressante, il dolore
insopportabile e l’odore di bruciato, di carne bruciata, la tua carne,
s’impossessa di te e tu non puoi far altro che piangere e augurarti di
morire subito, perché la tua mente è ancora vigile e sveglia e capisce e
agonizza… fino alla fine.
Mi alzo dalla poltrona del mio cinema a
megaschermo. La predo e la getto fra le fiamme. Non aspetto di vedere che
fine abbia fatto. Non c’è ritorno dalla morte.
<< Dio! >> urlo al cielo muto: << Mi puoi
vedere? Sono ancora vivo e finalmente sono libero! >>
Siamo tutti angeli decaduti, con le nostre ali
rosse come il fuoco e i nostri pensieri neri come la notte. E come angelo
decaduto mi appresto a vivere, spiegando le mie ali rosse come il mio
sangue.
I bassifondi della città sono il luogo
perfetto per qualcuno che vuole scappare, che vuole diventare nessuno. Sono
fogne umane, in cui topi a due zampe, rimestano nell’immondizia ripensando
al passato d’oro che, nei loro ricordi, si mescola all’argento.
Vago nella città silenziosa, fino a trovare un
bagno. Nessuno si accorge di me, perché io non esisto, sono solo un’ombra
come tante. Entro sbattendo la porta. Il pavimento è lercio, i gabinetti
puzzano come la fogna, come il resto della città. Apro il rubinetto
dell’acqua e la sua freschezza, quando v’immergo le mani, sembra la carezza
della vita. Ne raccolgo un po’ con le mani e me la getto in viso, soffocando
quasi. Mi pulisco il sangue raffermo del collo e delle braccia. Mi fanno
ancora un po’ male le ferite, ma la sensazione d’essere vivo m’inebria così
tanto da dimenticarmi di tutto, ma non della sensazione di fame. Osservo la
mia immagine riflessa dal vetro rotto dello specchio. Indosso una maglia
troppo grande, dei pantaloni stracciati e un paio di scarpe vecchie. Non ho
nient’altro con me. Avrei potuto prendere dei soldi, ma il solo pensiero di
portare con me qualcosa che gli era appartenuto mi faceva venire di vomitare
pure il sangue. Però a pensarci adesso… la fame è un istinto terribile,
quasi quanto la sensazione di soffocamento che ho provato in prigionia. Non
ti lascia scampo e imperversa in ogni tuo pensiero.
La porta del bagno si apre con uno scatto. Un
uomo sulla cinquantina, con un costoso abito nero, i capelli ingellati… deve
avere parecchi soldi, valuto subito. Si ferma nel lavandino vicino al mio e
si lava le mani, guardandomi ogni tanto.
<< Sei proprio un bel ragazzo… >> mi dice
avvicinandosi a me, lo sguardo… quello sguardo che conosco fin troppo bene,
quello che Lui mi rivolgeva spesso: << Chissà come sei bravo… con quella
bocca lì… devi essere molto bravo… >>
Mi sorride con fame, la stessa che io detesto,
simile a quella che sento. Non vorrei farlo, perché già lo so che cosa
vuole, quello che lui voleva da me.
<< Quanto sei disposto a pagare… >> non mi
rendo neppure conto di ciò che gli chiedo.
Il suo sorriso si riempie, i suoi occhi si
fanno più sottili, scuri, bramosi. La sua mano ossuta si avvicina ai
pantaloni e ne esce un portafogli. Lo apre senza distogliere lo sguardo da
me e mi mostra il contenuto. E’ ricco, penso, è pure un bell’uomo, chissà
cosa ci fai nei bassifondi, ma poi ci ripenso e capisco che la sua anima è
più nera dei suoi occhi.
Aspetta un lieve cenno della mia testa e,
senza molta delicatezza, mi sbatte contro il muro. Le sue mani strappano i
bordi della mia maglietta, mentre sento la sua lingua leccarmi il collo.
Puzza come un barile di liquore. Il suo corpo si appiattisce contro il mio,
la sua pesantezza mi blocca contro il muro e io sto fermo immobile e
aspetto. Chiudo gli occhi quando una sua mano scende ad aprirmi i bottoni
dei jeans e vedo il fuoco bruciare la casa. Le fiamme alte lambire la sua
intera ed estesa superficie. Sento tutto ciò che vi era dentro gridare
aiuto. Sento lo scricchiolio delle assi del pavimento, mentre si contorcono
contro le frustare delle lingue di fuoco. E sento la sua mano farsi strada
nei miei pantaloni, senza incontrare ostacoli. Il suo respiro è affannato e
dannatamente caldo, come le fiamme dell’inferno. La sua bocca scende lungo
il collo a torturare i miei capezzoli, bagnandoli con la saliva, mordendoli,
succhiandoli, mentre la nausea mi divora lo stomaco. Quando le sue mani si
fermano sul mio sesso e lo stringono, mi viene da urlare, non per il tocco,
ma per quello che so accadrà dopo, ma inaspettatamente si ferma. Si
allontana da me quel tanto che gli basta per guardarmi negli occhi e li vedo
scintillare. Mi tocca con un dito le labbra, ne segue il contorno e so che
vorrebbe che lo prendessi in bocca.
<< Cosa ne dici se queste labbra lavorassero
un po’ per me? >>
Gli sorrido di rimando, ma vorrei ucciderlo e
forse lo farò.
Le sue mani si fermano sulle mie spalle e mi
spingono verso il basso. Non oppongo resistenza, tanto sarebbe inutile, sono
io che l’ho voluto, rischierei solo di farlo imbestialire e reagire per il
peggio. Faccio per abbassargli i pantaloni con le mani, che lo sento
ansimare, mentre le sue mani tremano sulle mie spalle:
<< Con i denti. Voglio che usi i denti. >>
I denti… apro la bocca e blocco fra i denti,
la linguetta della lampo. Lo faccio lentamente e sento il suo corpo tremare
di piacere. Sorrido soddisfatto. Anche lui tremava sotto di me.
Mi chiede di abbassargli gli slip neri alla
stessa maniera e io lo assecondo. I pantaloni scivolano lungo le gambe
tornite e il suo sesso si erge di fronte al mio viso. Gli do una leccata
veloce, voglio farlo godere, portarlo al culmine…
Lui trema visibilmente, le gambe si
accasciano, stringe la presa sulle mi spalle.
<< Prendilo in bocca. Succhialo. Fai il bravo
bambino. Apri la bocca… >>
Io apro la bocca e lo mando giù un paio di
volte, lo sento sbattere nella mia gola e reprimo un conato di vomito. Le
sue mani si stringono fra i miei capelli e tentano di indicarmi il tempo
giusto, ma io non lo lascio fare. Quando sento che sta per arrivare al
culmine, lo mordo. Lui s’inarca gridando di dolore. Il sangue mi riga il
viso e velocemente mi allontano per evitare una possibile reazione. Mi
pulisco il rivolo che scende dalla bocca con la manica della maglia e lo
guardo soddisfatto. E’ piegato in due, riverso sul pavimento. Gemiti di
dolore escono dalla sua bocca e assomigliano al crepitio del fuoco. Le mani
sono serrate sul suo sesso, cercando di fermare ora il dolore, ora il
sangue. Non gli ho fatto molto male. Avrei potuto affondare i denti ancora
di più nella carne, ma ho voluto essere buono. Avrei potuto staccarglielo,
ma non voglio nessun altro morto.
Rialza la testa e scorgo odio e rabbia nei
suoi occhi, ma prima ancora che possa reagire lo tempesto di pugni e calci,
al volto, allo stomaco, dove capita prima e lui, ogni volta, cerca di parare
i colpi, ma non ci riesce. Mi fermo quando sento un rantolo uscire dalle sue
labbra. Mi piego su di lui e non reagisce. Gli sfilo la camicia, i pantaloni
e gli tolgo le scarpe e li indosso, sostituendoli agli abiti logori che
porto via con me, per buttarli nel primo cassonetto delle immondizie che
trovo. Mi avvicino al lavandino dove lui aveva appoggiato il portafogli e
prendo tutti i soldi che vi sono. Lascio le carte di credito che non mi
servono, ma mi fermo a guardare la patente.
“John Filder”, sembra il nome di un
personaggio dei film d’orrore, non posso fare a meno di pensare.
Prima di uscire lo guardo nuovamente un
attimo. E’ ancora steso a terra, le mani serrate sullo stomaco. Gli slip
abbassati fin sotto le ginocchia. Il volto contuso, forse il braccio
sinistro rotto, qualche costola incrinata… tutto sommato gli è andata bene,
sicuramente meglio che a lui.
Esco da quei bagni putridi e m’incammino lungo
la strada scura. Vedo una panineria e vi entro. Nonostante i vestiti non
devo avere un bell’aspetto perché il padrone abbassa subito la mano sotto il
bancone ala ricerca della pistola.
Gli ordino tre panini e prendo due birre
fresche dal frigo, ma solo quando esco i soldi dalla tasca, l’uomo si
tranquillizza e allontana la mano da sotto il bancone.
<< Giornata dura, eh? >> mi domanda, ma mi
sembra di leggere nei suoi pensieri e di vedere la paura e mi piace.
<< Non più delle altre volte. >>
Per fortuna la camicia copre i polsi e il
collo, così mi fa sembrare solo un ragazzino ricco al ritorno da movimentate
scorribande notturne.
Esco dal negozio e m’incammino per un vicolo
buio, lasciandomi le insegne luminose alle spalle. Mi siedo sul bordo del
marciapiede e apro il pacchetto del primo panino. L’odore intenso del pane
fresco riempie in breve i miei polmoni, infiltrandosi nelle mie narici e
sostituendo l’odore di bruciato, mischiato a quello del sangue, che ancora
vi stagnava. Do un primo morso al panino, gustando, fino in fondo, il sapore
agre e pepato della salsa di senape. Lo divoro in breve, ma sento ancora
fame e mordo, ingoio e assaporo anche gli altri due. Per poco non finisco
che per strozzarmi e mando giù sorsi di birra fresca. Rido come un pazzo
sentendo le bollicine della birra salirmi fino alla testa, annebbiandomi la
vista. Assaporo fino in fondo quel gusto frizzante, osservando ogni angolo
di quel lurido vicolo.
Quando ho calmato un po’ gli spasmi della
fame, esco da quel vicolo buio e alzo gli occhi verso il cielo. Non ci sono
stelle questa sera, ma la città stessa, con le sue illuminazioni, le insegne
al neon, i lampioni gialli… la città stessa sembra una grande stella
luminosa.
Chiudo gli occhi e respiro profondamente
l’aria fresca della notte.
Mi allontano da quel quartiere e vedo una
cabina telefonica. Vi entro e controllo che il telefono sia funzionante.
Infilo la mano nella tasca e, oltre ad uscire degli spiccioli per il
telefono, esco fuori un fazzoletto bianco, profumato di lavanda.
Cerco di fare mente locale, poi avvolgo la
cornetta con il fazzoletto e compongo un numero con mano tremante. Si
sentono degli squilli, poi una voce femminile mi avvisa che quello è il
numero dell’ospedale. Cerco di essere il più veloce possibile, calmando la
voce, falsandola un po’. La signorina mi chiede di ripetere e io mi fermo un
attimo. Le dico che c’è un uomo ferito nei bagni pubblici della periferia
della città. Le indico la zona e la via, le dico che probabilmente è stato
colpito da alcuni teppisti e che è coperto di sangue, che è urgente e che
devono muoversi in fretta. Quando mi chiede chi sono chiudo il telefono.
Esco dalla cabina e infilo le mani in tasca.
Ho fatto più del mio dovere. Certi piaceri si pagano cari e lui non si
scorderà della lezione che gli ha infuso la vita.
Esco da quel quartiere sporco e nero come la
mia anima e vedo alcune auto della polizia sfrecciare ad alta velocità e
dietro di essere una camionetta dei vigili del fuoco.
Sorrido soddisfatto. Ormai a quest’ora non
deve più essere rimasto nulla. Il fuoco deve aver arso tutto il mio odio e
il mio rancore. Mi volto a guardare le luci posteriori diventare sempre più
piccole, fino a scomparire nell’abbagliante notte di New York.
Adesso che ho toccato il fondo, non posso fare
altro che risalire.
OWARI
Autrice: questo è, forse, il capitolo unico
della storia, nata in una notte senza stelle, una notte come tante nel cielo
buio sopra la mia casa. Fatemi sapere cosa ne pensate. E’ breve, lo so, ma
la rabbia del protagonista iniziava a logorarmi e quindi ho deciso di
interromperla qui. Nella mia mente ha già un seguito, ma non so se
scriverlo. Tutto dipende da voi. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate e se
davvero valga la pena continuarla.
Ps: siate clementi, perché è la mia prima
original.
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