L'amore per Giuda
di Kalahari
*fic in gara al
Concorso Original & Slash
del FORUM YSAL
Dal soffitto
semioscuro della taverna dall’insegna illegibile, corrosa, emergevano i
lampadari di ferro grezzo: pur essendo tarda la serata, le candele ancora
sfregolvano consumandosi molli e pallide come stelle invernali; un silenzio
freddo penetrava dagli spifferi della pesante porta e delle finestre
appannate, ricordando ai pochi rimasti al caldo la crudezza dell’oscuro. A
quell’ora era impossibile, almeno negli angoli dimenticati di mondo,
riconoscere nei volti degli ospiti cenanti un santo o un ladro: le ombre
ingoiavano ogni luce, mettendole a tacere. Visi come mosaici scrostati d’una
vecchia chiesa. Lasciò la porta richiudersi cigolando in un gemito, scese
due gradini e domandò all’oste, che gli veniva incontro, un piccolo angolo.
No, non voleva una stanza; non aveva paura dei lupi, della brina o dei
briganti. Il pavimento era vecchio, di cotto ammaccato e a malapena pulito;
l’odore era di legno impregnato di sudore e di vino. Sedette lentamente a
dispetto dei passi veloci, chiese del pane, formaggio e acqua. Il suo corpo
trovò un po’ di ristoro, quel sollievo che domandava da giorni e che per
giorni s’era visto subordinato all’ansia e a una speranza perversa: aveva
creduto di essergli finalmente tanto vicino da poterne sentire l’odore
nell’aria, di poterlo sorprendere lungo la strada maestra inerpicante sui
fianchi dei monti, ma non aveva trovato nient’altro che viandanti dai volti
chini, e qualche villaggio sperduto. Tuttavia qualcuno gli aveva ammesso,
tra i tentennamenti, di potergli indicare il passo decisivo della pista.
Nella taverna forse avrebbe trovato una traccia dell’uomo che stava
braccando, nella taverna del villaggio la fine della caccia forsennata e
senza anima. Ed ecco che il fantasma di Stefano veniva scovato da un raggio
di luna, prendendo la consistenza, la carne e le ossa, di un corpo,
materializzandosi come un demonio braccato dalle schiere di Michele.
Ma cosa importava? Solo un atto gli restava, aveva il dovere, di compiere:
presto o tardi l’avrebbe raggiunto, né la morte avrebbe osato toccarlo. Se
nessuno l’avesse scaraventato all’Inferno, l’Inferno stesso avrebbe serrato
la porta per tenerlo lontano. Anima atra! Aveva ucciso il cuore, ma non lo
spirito, no, lo spirito ancora non poteva estinguersi! Li aveva ingannati,
traditi e venduti… Nulla aveva dimenticato. Un ragazzo del meridione
italiano, giunto a Cipro con le offerte opulente della propria illustre
famiglia, che chiedeva di essere ammesso nel Tempio d’Oriente, sostenendo
d’essere stato colpito dal valore eroico dell’Ordine, di voler servire Iddio
e la Chiesa per la ripresa di Gerusalemme. Capelli folti e neri, ricci come
gorghi marini; sguardo fermo sotto sopracciglia simili ad ali di gabbiano,
appena entrato nell’età adulta disposto a prendere i voti. C’era intorno a
lui un’aria strana, aspra e ricolma di grazia allo stesso tempo. Non erano
molti quelli che venivano accettati senza esser già stati provati dalla
vita; in passato li si era rifiutati categoricamente: troppo impetuosi,
esposti al rischio di scandali, tendenti alla ribellione. Ma negli ultimi
decenni le cose erano mutate. Tempo qualche mese, e Stefano consacrava
sull’altare la propria volontà, la superbia e il godimento dei sensi. Una
cerimonia come tante eppure così traumatica e inattesa per ogni uomo che
diviene Templare, una cerimonia… Ipocrita e vana, nulla. Un giorno che il
Cielo avrebbe dovuto cancellare dal conto degli anni. Ogni pasto condiviso
alla tavolata comune, ogni discorso, ogni sorriso…
“Posso fare qualcos’altro, per voi?”
“Sì, potreste gentile ospite”
L’oste si sedette su un basso sgabello, socchiudendo gli occhi in attesa
della domanda. Un locandiere non avrebbe mai risposto senza una buona dose
d’astuzia da parte dell’interrogatore, che dunque tirò fuori dalla sacca che
portava con sè, e con grande discrezione, un sigillo. L’aveva trovato nelle
tasche di un ladro e, vista l’immensa utilità che gli avrebbe dato, aveva
pensato fosse un dono del demonio, che gli preparava la strada in discesa
per una dannazione senza rimedio.
L’uomo impallidì, la gentilezza interessata fece largo al timore: il marchio
e il tono perentorio del suo cliente lo trassero in inganno sulla sua
identità.
“Dovete dirmi se avete visto da queste parti un uomo di bassa statura, occhi
e capelli neri, carnagione scura, con una cicatrice piccola ma profonda
sulla fronte”
“Mio signore, ce ne possono essere vari corrispondenti a questa
descrizione...”
“E’ un viaggiatore, del sud. Mi è stato detto che voi sareste stato in grado
di darmi buone notizie. Il mio padrone attende”
L’oste abbassò la fronte, fingendo di sforzarsi di discernere tra i vari
volti che gli apparivano alla memoria, mentre invece rifletteva sul da
farsi; borbottò piano:
“C’è qualcuno che potrebbe corrispondere: un eremita, d’età indefinibile,
passa di qui ogni mese o due, si fa vedere per un paio di giorni in paese e
poi è via di nuovo, sulle montagne. Zoppica”
“Quando l’avete visto l’ultima volta?”
“Ieri notte”
Alzarsi e pagare il dovuto fu un tutt’uno. Corse fuori dalla locanda, l’aria
pungente della notte lo colpì in pieno viso, gli diede ulteriori energie. Al
contrario di tutti gli altri, tornati alle proprie nobili cariche con la
riconoscenza del Re di Francia, Stefano aveva quasi immediatamente lasciato
i terreni a un cugino e il castello a una congrega benedettina, da quel che
si sapeva senza aver dato nessuna spiegazione particolare. Da quel momento,
nessuno aveva più saputo nulla di lui. Probabilmente qualcuno dei vecchi
amici, o qualcuno degli antichi nemici, l’aveva mandato a cercare. L’ultima
notizia quasi sicura, ottenuta con fatica, lo voleva al centro Italia, nelle
regioni boscose e poco abitate. Ma come un falcone, sospinto dal cacciatore
verso il cielo affinché vada e indichi la preda nascosta tra le selve, così
il suo intuito gli aveva indicato vie a tutti gli altri sconosciute. Come
avrebbe mai potuto immaginare che Stefano l’avrebbe trasformato in un
falciatore? Stefano, che sembrava averlo liberato…
Iniziava a nevicare. Con quel freddo nessuno avrebbe avuto modo di scendere
a valle, ma neanche dormito all’aperto. Uscì dal piccolo villaggio, mentre i
rumori del mondo di spegnevano uno ad uno e il battito del cuore si faceva
sempre più doloroso e frastornante. Il pugnale ondeggiava al ritmo della sua
corsa, sulla coscia, pesante come rintocchi a morto. Fermò un uomo, curvo e
anziano, di ritorno a casa con una fascina di legna; masticando uno sputo in
un italiano molto stretto, che riuscì a malapena ad afferrare, gli disse che
c’era un posto, non lontano, ove i viaggiatori impossibilitati a permettersi
la locanda potevano avere un mezzo tetto sulla testa: inerpicandosi lungo
l’erto sentiero che serpeggiava verso la cima del monte, appena al di là
della ripida parete, tra i faggi d’argento, appena prima delle cascate.
Ringraziò, ripartì. La stanchezza e gli anni gli gravarono sul cuore,
rallentando i piedi. A fatica percorse la strada sassosa, aiutato dalla luce
debolissima della luna.
Una chiesa abbandonata, piegata su se stessa. Una campana ancora appesa a un
campanile diroccato e infranto oscillava appena e appena singhiozzava
all’arrivo del vento. Le porte quasi divelte dai cardini erano appoggiate al
loro antico posto, lasciando trasparire un bagliore fioco dall’interno. Una
civetta gridò un singulto straziante, battendo le goffe ali e involandosi
tra i rami esili, come echeggiando il gorgogliare ferreo dell’acqua non
lontana.
Prese respiro. La gola faceva male come la consapevolezza che affiorava: lo
sentiva, di essere giunto. E si sentì perso. Ricordò le terre calde, dove
anche di notte la terra risuona palpando castamente le corde con plettro
soave; dove una strada, che al primo passaggio di cavalieri cristiani o
bande saracene si presenta morta e sterile, riesce con un po’ di pioggia, o
d’amore sparso, ad elevare al cielo un fiore, come preghiera. Scansò i
legni, cedettero sotto i polpastrelli gelati e, una volta ceduti, s’aprirono
con violenza. Nulla si mosse se non il fuoco schioppettante che emanava poca
luce.
“Chi è?”
La voce, la sua voce, riconobbe la voce uscita da una gola contratta,
esaltata dalle crociere eppure debole come una spada incrinata. Venne avanti
e stette muto, fermandosi quanto più vicino poteva senza lasciarsi del tutto
avvolgere dal bagliore caldo del fuoco. Stefano, sì, era proprio lui, più
vecchio, più segnato, ma l’intelligenza sul viso era quella, anche se..
Ritirò, appena, il cappuccio grezzo dalla fronte, allungando una mano
intrizzita accanto a sé, e mormorando senza curarsi troppo d’essere compreso
che, se avesse voluto, c’era del posto.
“Sono io”
L’eco asciutto si sparse sulle pietre senza appiglio, respinta dal gelo.
L’uomo accasciato contro il muro si piegò in avanti, come colpito, per
lentamente sollevare il collo, e il mento, e gli occhi sconvolti.
“Tu… Vivo”
Scosse il capo con forza, con disprezzo.
“Ovvio che la cosa ti sorprenda”
L’uomo più giovane abbassò le palpebre, nascondendo le iridi di fuoco.
Pudore? Sofferenza? Difesa. Qualunque cosa fosse, era una brace celata dalla
cenere.
“E m’hai trovato…”
Stefano, Stefano… Avrebbe dovuto ghermirlo come si scocca una freccia verso
il cervo comparso sulle rocce rasenti una cascata, e invece scivolò sul
pavimento e lo fissò negli occhi impenetrabili. Sentì il bisogno
irrefrenabile di parlare, perché non poteva ucciderlo prima di… E di capire,
anche se non sarebbe servito a nulla, anche se non avrebbe mai cancellato
gli ultimi mesi di atroci spasmi, lancinanti dubbi, rabbia.
“Mi hanno creduto morto nell’incendio, io stesso avevo pensato fosse finita.
Mi sono imbarcato sulla prima nave di pellegrini”
“Sei venuto a cercarmi...”
“Pensavo ti avessero catturato in Francia, che fossi prigioniero del Re. E
sarei andato fino a Parigi se non avessi saputo, su una nave, la verità”
“A Parigi saresti stato riconosciuto”
“Avevo un buon motivo per rischiare… Credevo fossi rinchiuso in una
prigione, Stefano”
“Invece sei giunto fin qui. Allora fallo, subito, ciò che devi. Fa’ quel che
è giusto” mormorò così flebile che le parole di persero prima di raggiungere
le crociere. Restarono e si spensero tra loro.
“Tu, tu, parli di giusto? – chiese, incalzando a denti stretti, incapace di
fissarlo un attimo in più - Perché? Perché hai fatto quello che hai fatto?
Come… quale demonio hai in corpo? Dopo quello che avevano fatto loro per te,
dopo quello che io… che noi… Perché?”
“Perché ho tradito… Che importano i miei motivi? L’ho fatto, non me ne pento
perché ho dovuto”
Lo stesso identico tono a quello, distaccato e adamantino, con cui s’era
sottratto, durante la prova che segue l’investitura, con cui aveva risposto
che avrebbe fatto quello che chiedevano ma che nulla avrebbe potuto
corrompere il suo cuore. Non c’era atto che l’avrebbe scalfito. Quanta
freddezza, quanto controllo.
S’alzò in piedi, furioso, scagliando via un pentolino svuotato di metallo
rovinato. Girò in tondo, gli si parò davanti.
“Non meriti neppure la morte, Stefano! – la tensione nel corpo era troppa,
la voce si spezzò infrangendosi in emissione rauca – Eri un fratello, hai
collaborato a un complotto infame, contro innocenti, uomini che avevano dato
tutto per quello in cui credevano, fino alla morte”
“La vita… per niente. Ho lavorato per chi voleva rovinarvi, ma ciò non
toglie che nessuno ha alzato un dito, che lo stesso Papa vi ha abbandonati.
Tutto quello per cui valeva la pena morire, è svanito”
“Non eravamo santi, ma sapevamo amare, e come un fratello ti hanno accolto,
tutti. E io… Che sciocco, che sciocco…”
“Non sarebbero mai morti nella difesa di Gerusalemme, nessuno di loro.
Quelli che tra voi ancora palpitavano, vivi, rappresentando la più alta
fiamma d’amore e devozione, trascinavano un corpo già morto - sollevò una
mano al nodo del manto, sciogliendolo. Indossava soltanto una grezza veste.
Tutto in lui mostrava i segni di una devastazione interiore - Verba volant.
C’è solo un atto, per me: il silenzio. Mi chiedi perché, e tu meriteresti di
sapere. Ma io non posso né mentire né dire la verità, né tu mi crederesti”
L’abbandono, il dolore, infisso, conficcato così in fondo come un secchio
gettato in fondo a un pozzo abbandonato… L’abbandono, la solitudine, che
apriva le labbra e tentava di rispondere a qualcosa cui non c’era risposta,
cui non v’era senso, strattonando una freccia rimasta spezzata, non
visibile, nel costato. Gli diede le spalle. Il fumo del fuoco morente doveva
avergli irritato gli occhi, perché li sentiva bagnati.
Sfoderò il coltello. Stefano non si mosse, cosciente di tutto ciò che era
successo, di ciò che era stato iniziato e compiuto. Se solo… sarebbe bastato
così poco, ma egli, come sapendolo, non disse niente. Aveva lo sguardo
assente, come se per un attimo il suo cuore l’avesse trascinato verso un
pensiero remoto, e felice. E allora anche lui lo fissò, intensamente, e
nello stesso istante i loro occhi si reincontrarono, e videro. Il giovinetto
che amava tanto la vita, che fremeva per ogni emozione e che era pure tanto
bravo a celarla innanzi agli sguardi degli altri, il ragazzo intelligente e
coraggioso… Nulla del passato si rispecchiava in Stefano, come se i roghi
avessero consumato anche lui. Era impossibile capire, eppure affondava
nell’anima. Erano entrambi perduti.
“Hai abbandonato ogni cosa, il nome, la libertà. Hai ragione a dire che le
parole non servono più. Mi parla il tuo volto, la tua disperazione. Vuoi
morire”
“Muoio per mano tua, è l’unica grazia che posso chiederti. Sono pronto”
Gli si avvicinò, gli cinse la vita con un braccio e lo strinse quasi con
violenza sul proprio petto. Gli sussurrò in un orecchio che non l’avrebbe
fatto soffrire, e gli fu risposto che non aveva paura. Senza esitare gli
affondò il pugnale in un fianco, tra le costole; il sangue schizzò fino
all’elsa, le labbra carnose si schiusero a lasciar esplodere un grido breve.
Le dita che con tanta forza s’erano strette sulle sue spalle tremarono, poi
s’andarono lentamente ad ammorbidire. Senza estrarre la lama, lo prese tra
le braccia e con passi corti e costanti uscì dalla chiesa in rovina. La luce
che traspariva da un tratto di cielo squarciato, la luce lunare, si
rinfrangeva ovunque sui sottilissimi cristalli, contrastando senza
mediazioni il buio fitto della foresta. Quando arrivò alla vicinissima
piccola polla d’acqua tra due cascate, arginata da grandi massi scuri,
affondò i piedi rompendo la sottile crosta. Le sue orme, alle spalle, già le
cancellava la neve, e già ricopriva il sangue sparso. Immerse se stesso e
Stefano nell’acqua gelida.
“Si può… amare… il traditore?” emise, flebile, abbandonando il capo contro
la sua spalla. Il tremito aumentò, scemò.
“Oh, sì. Molto più di Giovanni”
Si dovette appoggiare a una roccia, rapidamente ghermito dal freddo. Stefano
singhiozza un respiro, solleva una mano sulla sua guancia.
“Riccardo” mormora, e cede. Di nuovo pronuncia il suo nome, e adesso morire,
adesso sorridere.
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